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LOCALITA' INFAUSTA PER LE ARMI ITALIANE

Custoza

nicola zotti



La vista del campo di battaglia di Custoza dall'altura del Sacrario

Com’è bello e sereno questo scorcio di campagna "lombardo-veneta". È una pianura tranquilla, qua e là vivacizzata da colline dolci che sembrano messe apposta per fare da belvedere. Tranquilla ora, che per anni questo fu un campo di battaglia.

Sto cercando di capire che ha di speciale il poggio, alto non più di 150 metri, dove sorge Custoza. Certo come rilievo è più compatto degli altri, più deciso nella sua voglia di emergere dal paesaggio.
Di fronte a sè, ad esempio, ha il Monte Croce che ha un declivio più morbido, e sembra dominarlo, per quanto mi pare proprio che abbiano su per giù la stessa altezza.

Due battaglie sono state combattute in questi luoghi: una nel 1848 e una nel 1866: le abbiamo perse entrambe, e più o meno allo stesso modo: disperdendoci su un’area molto vasta e lasciando agli austriaci la scelta di dove e come contrattaccarci con il grosso delle loro forze.

Il terreno dove si è combattuto è veramente molto esteso: l’area è quella compresa tra Peschiera, Sona, Villafranca e Valeggio una quarantina di chilometri quadrati ad est del Mincio, e la diagonale Peschiera-Villafranca è, in linea d’aria, di una quindicina di chilometri: mantenere il controllo del campo di battaglia non doveva essere facile e infatti noi italiani non ci riuscimmo e ne scontammo le conseguenze.

Custoza sorge proprio sulla diagonale Peschiera-Villafranca, domina la strada Villafranca-Valeggio, che è quella che porta al ponte sul Mincio presso Borghetto (un piccolo stupendo paese medioevale, sia detto per inciso) e quindi alla Lombardia.

Insomma la sua importanza strategica è evidente: ha a buon titolo battezzato entrambe le battaglie.

Faccio questi ragionamenti ai piedi di una specie di obelisco: è il monumento-ossario dei caduti che sorge sulla sommità della collina al centro di un grande piazzale circolare bianco di ghiaia.

Sono arrivato nel primo pomeriggio in un silenzio soffocato dal caldo: non c’è nessuno e anche la casetta che sorge al fianco del monumento sembra disabitata.

Sono un po' a disagio per aver parcheggiato la moto dentro quel piazzale, perchè il monumento, che non è certo bello, comunica qualcosa. Ti chiede rispetto. Non so spiegarmi meglio.

Infine arriva qualcuno. Prima un paio di ciclisti: devono aver fatto un bello sforzo a salire fin quassù, mi compiaccio mentalmente con loro.

Poi arriva un furgoncino, che parcheggia davanti alla casetta. Scende un uomo coi baffi e mi fa segno di attendere e poi sparisce dentro la casetta: chissà perchè si è rivolto a me: dovevo forse avere l’aria inequivocabile di chi cerca spiegazioni.

L’uomo è il custode dell’Ossario: in un breve scambio di battute scopro che si può accedere al monumento, e tramite una scala interna salire fino alla balconata posta a circa un terzo del suo sviluppo complessivo, a sette - otto metri d’altezza.

Salgo e mi godo la vista. Vedo bene il Monte Croce, vedo Villafranca, vedo Valeggio, scatto un po' di fotografie. Scendo, proprio mentre i due ciclisti stanno infilandosi nel sottosuolo del monumento: li seguo.

La vista improvvisa dell’ossario mi coglie impreparato, rimango raggelato in uno stupore confuso e attonito.

Centinaia e centinaia di crani uno a fianco all’altro stanno disposti ordinatamente su mensole che riempiono lo sviluppo circolare dell’ossario: tutti uguali eppure tutti diversi.

Si riconoscono le ferite, ed è un campionario orribile: il foro tondo e netto di un proiettile in mezzo alla fronte; la frattura scomposta della volta cranica per la botta del calcio di un fucile; la fessura lunga e sottile della daga-baionetta che attraversa una tempia; uno zigomo e una mascella sfondate dallo zoccolo rotondo di un cavallo.

E poi ci sono tanti teschi intatti e non si può fare a meno di chiedersi come venne ferito a morte l’uomo che ne era il proprietario.

Per un momento sento le urla e gli spari, vedo i fumi e le esplosioni: la battaglia mi appare in tutta la sua violenza e la sua crudeltà, la vedo "chiara e distinta".

È un momento solo, ma non mi abbandona, neppure adesso.
Mi si palesa un fatto, non un giudizio morale, indipendente dalla pietà che pure provo per i caduti.

Percepisco concretamente il furore dei contendenti, il principio dell’essere nemici, che però si associa fortemente alla loro umanità: questi uomini hanno combattuto, si sono odiati e sono morti: posso vedere le loro orribili ferite, ed esse mi evocano con forza sincera il momento cruciale della loro esistenza.

E forse è proprio questa l’intenzione dell’ossario: sussurrarci un ricordo in modo brutale, come brutale sa essere l’evidenza, ma senza enfasi, senza proclami morali, solo per far rivivere per un attimo nella mente dei visitatori quei poveri morti: gli italiani sconfitti in ben due occasioni e i loro vincitori: gli uni e gli altri morti imbarazzanti, morti ingombranti, che altrimenti sarebbero già stati dimenticati da un pezzo.

Completo il giro dell’ossario e c’è la fotografia di un prete, don Gaetano Pivatelli, parroco di Custoza negli ultimi trenta anni del'Ottocento, e attestati di benemerenza firmati dal Re d’Italia e dal Re e Imperatore d’Austria e Ungheria. Comprendo che l’iniziativa dell’ossario è sua, ma ancora non conosco i dettagli.

Altre spiegazioni me le fornisce il custode del Monumento. Con una passione e una competenza che mi stupiscono mi racconta per filo e per segno - e non è la lezioncina mandata a memoria delle solite guide dei musei - la storia dell’ossario, dalla raccolta dei fondi promossa con grande caparbietà da don Pivatelli, alla gara per i progetti promossa in tutta Italia, agli attestati di benemerenza che ho appena visto nel sottosuolo giunti dopo l’inaugurazione.

Riparto, e mentre scendo dalla collina, penso al parroco don Pivatelli, gli mando un saluto e un sincero grazie.

Non lontano da qui c’è San Martino, oggi San Martino della Battaglia: qui vincemmo, anche grazie all’alleanza con Napoleone III. Guardate verso l’alto: una torre illuminata vi guiderà verso un monumentale museo del risorgimento, sempre affollato, che deve essere visitato dopo essere stati nel silenzio dell’ossario di Custoza.

Nel confronto tra l’esaltazione gloriosa di San Martino e la sobrietà austera e silenziosa di Custoza si impara che gli sconfitti meritano il nostro ricordo tanto quanto i vincitori: e forse anzi per loro si può provare un trasporto più umano e sincero.