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MELEGNANO (MI), Nord tav. 16 F3

Marignano, 13-14 settembre 1515


nicola zotti


Gian Giacomo Trivulzio, condottiere italiano al servizio dei re di Francia, era un uomo anziano ed esperto. Nel 1515 aveva 75 anni e 18 battaglie alle spalle: dobbiamo credergli, dunque, se le ridusse tutte e diciotto a "giochi di ragazzi" al confronto con la battaglia di Melegnano che innalzò al livello di "uno scontro tra giganti".

Il re di Francia Francesco I era molto più giovane del suo luogotenente. Non ancora ventunenne (avrebbe compiuto gli anni un giorno prima della battaglia) e sul trono da pochi mesi, era stato guidato nel Milanese da un'ambizione degna dei suoi antenati. Da essi aveva ripreso il disegno di espandere in Italia i propri possedimenti, a cominciare proprio dal ducato di Milano, contro il quale aveva schierato un potente esercito di 30.000 uomini e un'alleanza con la Repubblica di Venezia.

Gli si opponevano forze altrettanto ingenti: innanzitutto i rocciosi "tutori" del duca Massimiliano Sforza, gli Svizzeri, che erano la punta di diamante di una coalizione che comprendeva il Papato e la Spagna: i primi impedivano ai Francesi di entrare in Italia bloccando i passi alpini a Pinerolo e Saluzzo, i secondi contrastavano l'esercito Veneziano sul Po.

MAPPA STRATEGICA MELEGNANO

Francesco I aveva però in serbo una carta nascosta e preziosissima: il grande ingegnere spagnolo Pedro Navarro. Caduto in disgrazia presso il suo sovrano, era stato immediatamente assoldato per un compito che avrebbe condizionato le sorti della campagna. Da mesi, infatti, gli uomini del re di Francia esploravano le Alpi interrogando contadini e pastori alla ricerca di vie alternative per valicarle, giungendo, infine, a individuare una mulattiera che attraversava il passo presso il colle della Maddalena. Migliaia di genieri si misero all'opera agli ordini di Navarro e per Primavera riuscirono a strappare alla roccia una via praticabile a uomini, cavalli e soprattutto a carriaggi e cannoni.

Dopo una marcia comunque faticosissima e funestata da incidenti, l'esercito di Francesco I mise piede in Italia: come con Annibale prima di lui, e secoli dopo con Napoleone, le Alpi si erano rivelate una ingannevole sicurezza per chi le considerava insuperabili. Se l'esercito francese avesse volato sopra le cime dei monti la sorpresa non sarebbe stata maggiore. Minacciati di accerchiamento, i contingenti Svizzeri abbandonarono immediatamente l'ormai inutile difesa dei passi alpini e presero in tutta fretta la via per Milano, mentre il meno reattivo Prospero Colonna, comandante dei papalini, venne circondato durante il pranzo e catturato assieme ai suoi 700 cavalieri.

Una sosta a Torino per una visita di cortesia allo zio Carlo III, duca di Savoia, e poi il re di Francia riprese la via di Milano. L'esercito che guidava era di potenza impressionante: 2.500 cavalieri pesanti (compresi i più illustri guerrieri dell'epoca come Baiardo e La Palice) e 1.500 leggeri, 10.000 fanti francesi, 9.000 lanzichenecchi, tra i quali 6.000 veterani della Banda Nera, e qualche migliaio di mercenari italiani, oltre a un numeroso parco di artiglieria, arma nella quale i Francesi erano all'avanguardia. Nonostante tutto questo dispiego di forza militare, il re saggiamente temeva gli Svizzeri, la più potente fanteria dell'epoca, e avrebbe preferito entrare in possesso del ducato senza rischiare un confronto militare.

D'altra parte gli Svizzeri avevano già venduto quindici anni prima un duca di Milano, Ludovico Sforza, ai Francesi, ed era plausibile potessero ripetersi una seconda volta. A questo scopo avviò trattative segrete con Albert von Stein il capo del contingente di Berna e suo sostenitore tra le fila elvetiche. Le sue proposte furono veramente allettanti, e oltretutto accompagnate da un viatico di 50.000 franchi raccolto tra i nobili francesi (che rimasero praticamente in bolletta), tanto che von Stein le rese pubbliche all'assemblea dei capitani delle forze riunite cantonali, l'organismo che faceva le funzioni di un comandante in capo negli eserciti svizzeri. Ne scaturì un acceso dibattito che spaccò in due l'assemblea: se l'offerta francese accontentava chi aveva già combattuto abbastanza (accumulando un bottino da riportare nelle proprie valli), molto meno conveniente era per gli ultimi arrivati, che dall'occupazione del Milanese speravano di trarre un profitto altrettanto consistente.

A dar voce a questi ultimi, provenienti dai cantoni tedeschi, pensò il cardinale Matthäus Schiner rappresentante del papa presso le armate svizzere e uno dei principali protagonisti della scena politica europea dell'epoca. A una sua perorazione appassionata della prosecuzione della guerra si aggiunse una schermaglia tra cavalieri milanesi e un contingente di esploratori francesi (forse provocato ad arte) che Schiner denunciò come un attacco a tradimento francese. Il pomeriggio del 13 settembre 1515 i bernesi e i loro alleati non tornarono sui loro passi e uscirono da Milano per la via settentrionale, abbandonando i loro connazionali che, al contrario, presero la direzione opposta per dirigersi a Sud verso Melegnano, dove era accampato l'esercito francese.

battaglia di Melegnano

Fedeli alla loro consolidata tattica, gli Svizzeri avevano suddiviso le forze (dopo le defezioni meno di 15.000 uomini) in 3 lunghe colonne: contro di esse numeri almeno doppi e un'assoluta schiacciante superiorità in artiglieria. Come in tante altre occasioni precedenti, gli Svizzeri contavano sulla velocità della loro offensiva e sulla spietata e leggendaria ferocia della spinta delle loro picche per ridurre al minimo le perdite causate dall'artiglieria (il cui tiro era comunque piuttosto lento) e sfondare rapidamente il fronte nemico.

I francesi, certi di aver concluso la campagna con un accordo diplomatico, furono colti di sorpresa e cedettero inizialmente all'impeto nemico: gli Svizzeri catturarono alcuni cannoni, mentre la Banda Nera fu costretta ad indietreggiare. Francesco I, che casualmente stava provando una nuova armatura, era però pronto a montare a cavallo e a intervenire per correggere la situazione alla testa dei suoi uomini d'arme. Il contrattacco disperato della cavalleria pesante costrinse gli Svizzeri a fermarsi, dando tempo alle fanterie francesi di riorganizzarsi e ai cannoni di riprendere a sparare. Gli scontri proseguirono fino a notte inoltrata sullo stesso spietato registro, con decine di cariche francesi che degeneravano in mischie furiose tra fanti e cavalieri, avvolti dal calare delle tenebre e dal fumo dei cannoni.

L'alba del 14 settembre illuminò due eserciti stanchi ma ancora animati dal desiderio di combattere. Le ore della notte avevano consentito ad entrambi di riorganizzare le proprie schiere, ma non di reintegrare morti e feriti. Gli Svizzeri, con testardaggine, replicarono la stessa tattica offensiva della giornata precedente, illudendosi che potesse avere maggiore fortuna. I Francesi, però, avevano acquistato fiducia. Soprattutto, però, avevano sperimentato l'efficacia di una difesa che combinava la forza distruttrice dell'artiglieria con l'aggressività e la mobilità della cavalleria, confidando di potersi ripetere anche in questo secondo giorno di battaglia.

Le tre colonne svizzere si gettarono nuovamente all'attacco. Per la seconda volta i lanzichenecchi e la Banda Nera cedettero terreno sotto la spinta della colonna di centro e di quella di destra. Ancora maggiore successo ebbe la colonna di sinistra che, senza artiglieria a fronteggiarla, incontrò minore resistenza nelle fanterie francesi. Ancora una volta, però, la cavalleria francese seppe dare respiro ai propri commilitoni, consentendo ai cannoni di aprire vuoti paurosi nelle fila serrate delle falangi di picchieri Svizzeri.

L'incrollabile tenacia dei confederati stava genererando un sanguinoso stallo senza vincitori né vinti, quando sul campo di battaglia, proprio sul fianco dove gli Svizzeri stavano compiendo i maggiori progressi, giunsero le avanguardie dell'esercito veneziano condotte da Bartolomeo d'Alviano. Questi, incoraggiato dall'inattività di Spagnoli e Papalini, li aveva abbandonati al loro destino e si era affrettato in soccorso del re di Francia con tutte le sue forze. L'equilibrio era rotto e gli Svizzeri compresero di essere stati sconfitti: con lo stesso ordine e la stessa disciplina con cui avevano attaccato abbandonarono il campo di battaglia. Una retroguardia di 400 uomini di Zurigo bloccò i primi tentativi di inseguimento facendosi uccidere fino all'ultimo e convincendo Francesco I che era il caso di rinunciare a intraprenderne altri.

I superstiti raccolsero i loro feriti e le loro cose e si avviarono verso Milano intenzionati ad abbandonare il Duca al suo destino, per altro niente affatto disprezzabile: una generosa pensione avrebbe allietato la sua prigionia in Francia fino alla morte e soprattutto si sarebbe finalmente liberato dell'asfissiante tutela degli Elvetici. Francesco I a Melegnano (o Marignano come scrisse alla madre) si era guadagnato un ducato, che però mantenne per soli dieci anni, ma soprattutto l'alleanza della Confederazione in una "pace perpetua" che conferiva alla Francia il privilegio di arruolare i valorosi uomini dei Cantoni, un diritto che durò secoli.