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LE IDEE CONFUSE DELLA POLITICA

Confusione afghana

Nicola Zotti


Fare il soldato in Italia, oggi, non è facile. Per riuscirci ti devi aggrappare ai tuoi commilitoni, avere stima nei tuoi ufficiali, trovare dentro di te le energie e la convinzione per fare il tuo lavoro.

Perché, se tu sei chiamato a "compiere il tuo dovere", è bene tu lo faccia, indipendentemente che gli altri compiano seriamente il proprio.

E così i militari italiani devono curarsi più della pagliuzza nel proprio occhio che del trave conficcato negli occhi di altri: ad esempio un po' di ministri.

Uno ragiona da "padre di famiglia", anziché da statista quale viene pagato per essere, e riporterebbe tutti a casa, lamentandosi di quanto costano le missioni all'estero in proporzione alla scarsità dei risultati. Un altro gli dà ragione sostenendo che il suo pensiero interpreta l'opinione della maggioranza degli italiani. Un terzo si pente dei "casini provocati dagli occidentali" e si interroga sul miglioramento effettivo della situazione nel paese asiatico.

Infine è intervenuto il premier pronunciando le fatidiche parole "exit strategy" e non per esorcizzarle, ma per annunciare che se ne parlerà dopo le imminenti elezioni afghane di agosto, mese durante il quale si preannuncia una furente offensiva talebana: con sconsiderato tempismo, il nostro premier non avrebbe potuto scegliere momento migliore per esercitare un effetto peggiore per fare questo annuncio...

Così il nostro militare in Afghanistan scopre che il suo lavoro è inutile, se non dannoso, che pesa insopportabilmente sul bilancio dello stato provocando conseguenze gravi al resto degli italiani, che certo non possono essergliene grati, e che quindi si rimarrà in zona di guerra, ma lesinando ai nostri contingenti anche l'indispensabile, attendendo solo l'ora di andarsene. E chi morirà o resterà ferito prima dell'"exit day", non potrà incolpare la minore sicurezza causata dai tagli, ma solo la propria incapacità a tenere la testa abbastanza bassa.

La risposta è arrivata dal primo caporal maggiore Andrea Maria Cammarata, ferito con il parigrado Simone Careddu e il tenente Giacomo Donato Bruno nell'agguato che il 14 luglio 2009 è costato la vita al primo caporal maggiore Alessandro Di Lisio:

«Questo - ha detto Cammarata - non è assolutamente il momento per lasciare quel posto, perché abbiamo fatto un ottimo lavoro. Nella provincia di Farah non c'era mai entrato nessuno: villaggi che il mondo forse non conosce, che neanche i satelliti riuscivano a vedere. Noi siamo andati, abbiamo fatto anche operazioni umanitarie, i bambini ci regalavano le caramelle. Bisogna stare lì e bisogna continuare". Quello che è successo, aggiunge, "fa parte del nostro lavoro: è come un poliziotto in Italia o un povero muratore su un'impalcatura. Non cambia nulla».

Bellissime parole, semplici e orgogliose, genuinamente antiretoriche, che a me hanno conciliato con l'umanità: ma sentimenti personali, attenzione, che marcano il distacco del militare e dell'uomo Andrea Cammarata dalla politica, anzi, lo certificano.

Se però fare il soldato è ormai un mestiere come un altro, se la guerra in Afghanistan, ovvero un impegno preso dall'Italia in sede Nato, è diventata praticamente una questione personale del primo caporal maggiore Andrea Maria Cammarata e dei suoi commilitoni, certo la responsabilità non è sua o di questi ultimi.

Probabilmente i nostri politici non si meritano nient'altro: meglio che il problema sia nelle mani del primo caporal maggiore Andrea Maria Cammarata che nelle loro.

Non posso che constatare, tuttavia, quanto questa delega sia ingiusta, e come questa altra "confusione" influirà negativamente, alla lunga, sulla nostra politica e sul nostro Paese.