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PERCHE' I GIOCHI NON INSEGNANO L'ARTE MILITARE

Giochi e arte militare

Nicola Zotti

Scorrendo le statistiche di Warfare.it ho scoperto che molti forum che si occupano di giochi fanno riferimento a miei articoli.

Seguendo la provenienza dei link ho letto pagine e pagine di discussioni e di infuocate polemiche sui più disparati argomenti, durante le quali i miei scritti vengono portati a sostegno di questa o di quella tesi.

Dal punto di vista personale ho realizzato che a volte non riesco ad essere sufficientemente chiaro e fallisco la focalizzazione dei concetti chiave, che spariscono cannibalizzati da aspetti secondari: sono stato anche tentato di intervenire direttamente nelle discussioni, ma finora mi sono dimostrato sufficientemente (e sorprendentemente) saggio da riuscire a cambiare idea.

Sotto il profilo generale, invece, oltre a confermare una diffusa incapacità delle persone a leggersi e a capirsi, e un'altrettanto comune tendenza alla polemica fine a se stessa, ho avvertito in modo sufficientemente chiaro un difetto piuttosto potente dei giochi di simulazione bellica.

Non ci vuole certo un genio per capire che una cosa è la guerra e un'altra i giochi, e purtuttavia sono sempre stato convinto che un gioco possa contenere, e quindi comunicare al giocatore, elementi del ragionamento militare.

In realtà non è così, anzi stando al campione di discussioni che mi è capitato sotto gli occhi, la concezione che i giochi diffondono della storia e dell'arte militare ne esce falsata e distorta: e -- considerazione personale autocritica -- i miei articoli non riescono a suggerire un'interpretazione più corretta.

Il quadro fornito dai giochi è invariabilmente quello di un confronto "testa a testa", brutale, statico, diretto e privo di contesto, articolato sotto forma della domanda "chi è più forte?", una domanda che posta in questo modo non ha senso nell'arte militare.

Evidentemente gli autori dei giochi riescono a modellizzare la guerra solo come scontro "a capocciate" -- nel quale vince chi l'ha più dura -- o al massimo nella forma analoga e solo apparentemente più sofisticata di confronto darwiniano, nel quale sopravvive il più adatto, spesso inteso come la "nemesi" del soccombente. Il tutto mitigato nella migliore delle ipotesi da un arbitrario fattore casuale.

In realtà la guerra è una cosa sostanzialmente diversa perché, anche prescindendo dal contesto, è sempre uno scontro collettivo che va letto nel suo insieme, e in secondo luogo perché gli avversari interagiscono tra loro influenzandosi a vicenda, come suggerisce la metafora dei lottatori usata da von Clausewitz: proprio là dove dovremmo leggere uno scontro cieco di forze (una lotta a testate) al contrario il filosofo tedesco suggerisce la sua "erste Wechselwirkung": la prima interazione o azione reciproca tra entità in confiltto.

Così, se dei giocatori ritengono legittimo disquisire su chi sarebbe uscito vincitore tra un oplita spartano e un legionario romano, significa che gli autori del gioco ammettono innanzitutto l'estrapolazione di due prototipi, li isolano dall'azione collettiva, li infilano in un luogo privo di contesto, ignorano l'azione reciproca, e quindi consentono di infischiarsene della tattica, del comando e di ogni altro elemento per cui uno spartano e un legionario romano si sarebbero potuti trovare in guerra.

Che poi per battere uno spartano basti un misero peltasta armato di giavellotto e non ci sia bisogno di scomodare un legionario romano, in fondo, è il minore dei problemi.