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UNA BATTAGLIA TRE LEADER

Tre Leader a Waterloo


nicola zotti



Napoleone Bonaparte

«Ho fatto i miei piani con i sogni dei miei soldati addormentati»: c'è un Napoleone Bonaparte insospettabilmente poetico dietro queste sue parole, ma anche la chiave per svelare il segreto delle sue qualità di Leader.

"Carisma": i biografi di Napoleone spesso ricorrono a questo concetto metafisico per spiegare l'ascendente che egli aveva sui suoi uomini. Il dono di una natura generosa che consente a chi lo riceve di evocare nei suoi simili ammirazione, rispetto e, soprattutto, obbedienza incondizionata. Quell'obbedienza, indispensabile in guerra, che altri meno fortunati ottengono mediante la disciplina, e che però è poca cosa senza il rispetto che deriva dal riconoscimento dell'autorevolezza e senza l'ammirazione che solo la presenza del genio può suggerire. Qualità di cui indubbiamente Napoleone era ricco come pochi altri nella storia militare.

Tuttavia, affidarsi a una spiegazione trascendente, in realtà non spiega nulla, ma solo rinvia la soluzione di un mistero a un mistero ancora più grande. Evitando invece queste definizioni "trappola", possiamo descrivere lo stile di Leadership di Napoleone, ricavandone una lezione utile a chiunque, soprattutto a noi individui normali, che mai abbiamo osato sentirci o, tanto meno, definirci "carismatici".

Innanzitutto Napoleone aveva visione e immaginazione. Ben conosciamo la sua fantasia sul campo di battaglia, e la sua capacità di comprendere le innovazioni tattiche introdotte dall'entusiasmo rivoluzionario. Ma questo intuito militare non sarebbe bastato a renderlo grande se non avesse avuto anche degli obiettivi. I suoi "piani" comprendevano i traguardi che egli prevedeva per sè fin dai primi giorni della sua ascesa come comandante militare e ancora più quando assunse anche alti incarichi politici.

Consapevole che gli uomini si fanno guidare solo da chi sa dove andare, consentiva ai suoi uomini di misurare quotidianamente l'ampiezza dei suoi progetti, e di costruire i propri sulla misura di quelli. Non era un'illusione essere ambiziosi nella Francia di Bonaparte: anzi, era proprio il peso di quel "bastone da Maresciallo", idealmente nello zaino di ogni soldato francese, che permetteva loro di sopportare le immani fatiche della guerra. Altrettanto importante per i suoi uomini fu la tenacia granitica che Napoleone mostrò sempre nel perseguire i suoi obiettivi. Qualsiasi insuccesso per lui era solo una tappa, per quanto spiacevole, verso l'inevitabile vittoria finale, qualsiasi ostacolo superabile unendo le volontà di tutti, nessuno escluso, qualsiasi caduta solo occasione per dimostrare la forza di rialzarsi. Una persistenza nell'impegno che evidenziava fiducia incrollabile in se stesso, e contemporaneamente stimolava l'autostima negli altri.

Infine, l'approccio, realistico fino al cinismo, di Napoleone nei confronti della guerra non deve farci velo nel rilevare un'altra qualità che distingue il suo stile di leadership: la conoscenza dei suoi uomiini. Egli, infatti, dava la massima importanza a vincere, prima delle battaglie, l'affetto delle sue truppe. Gesti minimi, come riconoscerli e chiamarli per nome durante le sue frequenti visite negli accampamenti, segnalavano che non esistevano barriere tra loro e lui, e persino la proverbiale severità delle sfuriate che riservava ai suoi Marescialli quando lo deludevano, manifestava pubblicamente un senso di giustizia che non faceva favoritismi nei confronti di nessuno.

Napoleone coltivò in sè queste qualità di leader, creando uno stile di comando personale, che non necessita di ricorrere a spiegazioni sovrannaturali per essere descritto e per questo motivo come uomo ce lo fa ammirare ancora di più.


Arthur Wellesley

«La battaglia di Waterloo è stata vinta sui campi da gioco di Eton»: difficilmente Arthur Wellesley, meglio noto con il titolo di duca di Wellington, ha mai pronunciato queste parole, che pure gli vengono spesso attribuite, ed è improbabile sia giunto persino a pensarle. Sappiamo da alcune memorie personali che il duca non conservava un buon ricordo della permanenza in quella prestigiosa istituzione formativa, frequentata dal 1781 al 1784, per di più all’epoca nemmeno dotata di un vero e proprio “campo di gioco”. Tra l’altro, gli anni formativi di Arthur Wellesley furono abbastanza “itineranti”: a 15 anni, lasciata Eton, il ragazzo si trasferì a Bruxelles e a 17 andò a studiare all’Accademia Reale di Cavalleria di Angers, in Francia

Meno controverso, invece, è il significato che viene comunemente attribuito alla frase. Come spiegarono suoi compagni di scuola intervistati in tarda età, egli probabilmente si riferiva all’angolo del giardino di Eton dove gli studenti risolvevano le proprie dispute: in quei combattimenti giovanili, Wellington e la classe dirigente inglese in uniforme impararono a combattere e a non arrendersi, a prenderle e a darle, a cadere e rialzarsi.

Ma fu veramente la combattività il contributo principale degli ufficiali inglesi e di Wellington in particolare, nella vittoria degli Alleati a Waterloo? Sicuramente è ciò che piace pensare al pubblico britannico, ma un’analisi attenta della battaglia mette in luce un aspetto diverso. Se infatti dovessi indicare l’elemento decisivo di quelle ore, non avrei dubbi a trovarlo in quel particolare elemento costitutivo della Leadership che è il controllo.

A Waterloo Napoleone subì le iniziative errate dei suoi sottoposti, e questi, in momenti cruciali della battaglia, non riuscirono a dominare gli istinti dei propri uomini, mentre al contrario Wellington ebbe un controllo praticamente totale della situazione, che seguì le sua volontà dallo schieramento unità per unità, fino all’ingaggio delle riserve e alle principali fasi della lotta, e non molto diverso fu il rapporto tra ufficiali in comando e i soldati di truppa.

La cultura militare britannica era in questo aspetto opposta a quella francese: se infatti la funzione “morale” degli ufficiali francesi era motivare fino alla furia i propri uomini con l’esempio e l’incitamento, i pari grado inglesi si impegnavano invece a tenerli calmi e concentrati, preservandone le energie emotive. Sintomatica è la stessa collocazione degli ufficiali di reparto: i Francesi in testa alle truppe, i Britannici alle loro spalle. Due concezioni opposte sulla gestione psicologica degli uomini in combattimento, ciascuna coi suoi pregi e i suoi difetti, con le sue vittorie e le sue sconfitte.

Al di là di queste caratteristiche nazionali, coltivate negli anni, il duca ci mise sicuramente del suo. Lo storico inglese Christopher Duffy ha sottolineato che egli fu «in gran parte responsabile di quello che divenne lo stereotipo del gentiluomo inglese: riservato, distaccato, freddo, sobriamente vestito, che non esisteva prima di Wellington».

Molto di questo carattere egli se lo costruì negli anni, perché non si può dimenticare nei suoi trascorsi da giovane ufficiale in India un episodio in cui abbandonò i suoi uomini per darsi alla fuga. A Waterloo, comunque, egli incarnò completamente quel modello: metodico, preciso, padrone delle sue emozioni. E se mai Wellington perse da uomo maturo questa freddezza fu proprio quando gli veniva chiesto di Waterloo: la battaglia che lo aveva incastonato nella storia, ma il cui ricordo lo riempiva invariabilmente di incontenibile orrore.


Gebhard Leberecht von Blücher

«Wellington dovrebbe accendere una bella candela al vecchio Blücher. Senza di lui non so dove sarebbe ora “Sua Grazia”, come lo chiamano, ma certo io non sarei qui».

Napoleone pronunciò queste parole nell’esilio di Sant’Elena e la loro vena ironica non cerca di nascondere l’amarezza di quei giorni: il rimpianto per la sconfitta, ma anche la protesta della preda che vede attribuito in modo non equo i meriti della sua cattura. E quando la Storia è ingiusta, la colpa ricade su chi la racconta prima ancora che sui vincitori. Non è un caso, quindi, che io concluda questa rassegna sulla Leadership militare incentrata sui protagonisti di una battaglia epocale come Waterloo, con il feldmaresciallo prussiano Gebhard Leberecht von Blücher. Mi è offerta, infatti, la possibilità di parlare di un uomo i cui meriti e le cui qualità sono stati a torto oscurati dalle ombre, comunque gigantesche, degli altri due attori di quell’evento, Napoleone e Wellington. In particolare da quella di quest’ultimo, perché il duca è stato da alcuni accusato di aver voluto avocare a sé e solo a sé il ruolo del vincitore di quella battaglia, e come tale essere ricordato dai posteri.

Blücher non fu un comandante militare geniale. Formatosi in cavalleria, mantenne sempre un’attitudine impetuosa e irresoluta che indubbiamente non era la più adatta alle responsabilità e ai compiti di un comandante in capo.

La sua mancanza di diplomazia alla vigilia della battaglia di Ligny, ad esempio, provocò la ribellione e l’allontanamento dei contingenti di Sassoni e Renani, 15.000 uomini che, nonostante la loro dubbia affidabilità, sarebbero risultati comunque utili nelle ore di crisi di quello scontro. Questo errore di valutazione avrebbe potuto costargli molto caro: il suo Esercito era probabilmente il peggiore che la Prussia avesse mai schierato in tutte le guerre Napoleoniche.

Composto per un terzo di Landwehr priva dell’addestramento e soprattutto dello spirito che aveva contraddistinto quella del 1813, con una cavalleria impreparata e un’artiglieria carente di pezzi e rifornimenti, che arrivarono anche a battaglia in corso, al contingente prussiano comunque non mancò mai la fiducia del suo comandante. Un sentimento incrollabile, di cui Blücher non esitò a dare prova, quando se ne presentò la necessità, mostrandosi pronto al sacrificio personale, e gettandosi, a 72 anni, nel vivo del combattimento.

Affidabilità, senso dell’onore e volontà di mantenere la parola data. A questo pensava Napoleone elogiando il “vecchio Blücher”: virtù su cui fece totale affidamento Wellington in due momenti assolutamente decisivi della campagna: il suo inizio e la sua conclusione. Quando Wellington il 15 giugno fu preso completamente alla sprovvista dall’aggressività di Napoleone, con forze disperse su un’area vastissima, poté contare sulle assicurazioni di Blücher che i Prussiani non si sarebbero ritirati, ma avrebbero proseguito a concentrarsi a Ligny. Una posizione pericolosamente esposta alla minaccia francese, dove i Prussiani avrebbero potuto essere schiacciati.

Wellington – volontariamente, dicono i maligni, o inconsapevolmente secondo più benevoli – assicurò di poter intervenire a fianco dei suoi alleati. Ma questa assistenza non poteva arrivare e non arrivò, e Blücher fu sconfitto a Ligny.

Al contrario, Wellington si fermò per affrontare Napoleone a Waterloo solo ed esclusivamente perché il feldmaresciallo prussiano aveva garantito il suo arrivo su quel campo di battaglia: e il duca sapeva di potersi fidare. La vittoria della coalizione prima di tutto, il raggiungimento dell’obiettivo comune, prevaleva in Blücher su qualunque altra considerazione.