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GGRANDE CONFLITTO, GRANDI PERSONALITà, GRANDI CONSEGUENZE

Mario e Silla: personalità, innovazione e conflitto


nicola zotti



Viviamo in un'epoca in cui si ha paura del conflitto, tanto da demonizzarlo, da esorcizzarlo in ogni sua manifestazione, tranne poi a trasformarlo in una caricatura di se stesso, quando inevitabilmente esplode.

Eppure i grandi conflitti arrivano, brutali, sanguinosi, ma anche capaci di esprimere soluzioni.

Così eccoci a Mario e Silla: il secondo grande dualismo della storia romana dopo quello tra Romolo e Remo e il primo della drammatica sequenza di coppie (completata da Cesare contro Pompeo e da Ottaviano contro Antonio) i cui conflitti condurranno alla fine della Repubblica romana e furono risolti con la nascita del Principato. Dualismi che fin dai libri delle scuole elementari catalizzano la narrazione di questo agitato secolo della storia di Roma, per la giustificabile esigenza di un filo conduttore di sintesi, e che hanno finito, però, col fagocitarne il senso, restituendo un'immagine semplicistica e infedele dello spessore della lotta politica della tarda Repubblica e della effettiva grandezza dei suoi protagonisti.

Se la descrizione personalistica di un conflitto, infatti, ha sempre un effetto riduttivo, nel caso di Mario e Silla, essa risulta particolarmente nociva alla comprensione degli eventi di cui essi furono i motori e alla portata delle loro decisioni.

Certo, i vivaci colori del contrasto tra due caratteri così forti offrono più di un motivo a questa personalizzazione, a partire dalla sua origine. Silla, di 19 anni più giovane di Mario, nel 107 a.C. era alle dipendenze di quest'ultimo nella guerra contro Giugurta re della Numidia e fu per una sua iniziativa autonoma che il sovrano africano venne catturato con la complicità del re della Mauretania, presso il quale Giugurta si era rifugiato. Mario non riconobbe a Silla i meriti che questi riteneva gli spettassero, seminando così i primi motivi di risentimento tra i due.

Mario, giunto l'anno precedente già cinquantenne al suo primo consolato, dopo aver percorso ogni gradino della scala sociale partendo dalla provincia, e aver giocato tutta la sua campagna elettorale sulla sua qualità di "uomo nuovo" e sui temi della lotta alla corruzione e all'arroganza della classe aristocratica, aveva preso una decisione destinata a cambiare radicalmente il corso della politica romana.

La sua esperienza militare gli aveva mostrato l'inadeguatezza del sistema di formazione degli eserciti della Repubblica. Nel II secolo, la popolazione di Roma era cresciuta più rapidamente dell'estensione delle terre colonizzabili, causando un impoverimento dei piccoli proprietari terrieri. Già una serie di riforme avevano da un lato abbassato drasticamente il livello minimo di reddito necessario all'arruolamento, e dall'altro tentato di tamponare il processo di proletarizzazione cercando di rendere disponibili più terre coltivabili.

Ma queste misure si erano rivelate insufficienti e inadeguate, vuoi per la forza economica e gli appetiti insaziabili dei latifondisti, vuoi perché il problema di Roma non risiedeva tanto nella scarsezza di reclute, quanto proprio nel loro legame con la terra. I nuovi orizzonti strategici della Repubblica arrivavano ben oltre la portata e la disponibilità di un'armata di miliziani a mezzo servizio, ma al contrario necessitavano di un esercito permanente di volontari a lunga ferma.

Già da forse un secolo i generali romani arruolavano volontari per le loro campagne militari: e particolarmente ricercati erano, come è logico aspettarsi, i "miles" esperti che avevano già conosciuto le durezze del combattimento e quelle non meno lievi dell'addestramento. Una risorsa preziosa che per motivi di censo poteva sfuggire ai meccanismi di arruolamento della Repubblica.

Mario allora decise di portare alle sue più logiche conseguenze un'attitudine sviluppata dai Romani nel corso di secoli e creare un esercito di professionisti, armato e pagato a spese dello stato, estendendo l'accesso al servizio militare nelle legioni a tutti i cittadini indipendentemente dal reddito. Una vera inconsapevole rivoluzione per la definizione del potere politico a Roma che Mario e Silla affrontarono da precursori, divenendo modelli di comportamento per coloro che li seguirono.

La prima conseguenza di questa riforma fu infatti quella di spostare il monopolio dell'uso della forza dal Senato ai generali di Roma, per il legame che poteva crearsi tra questi e i loro sottoposti.

Questo processo viene comunemente descritto in modo semplicistico, definendo i legionari meri strumenti nelle mani di leader ambiziosi, mossi esclusivamente da motivazioni venali e quindi pronti a lasciarsi sedurre dalla prospettiva di ricche elargizioni.

Tuttavia la realtà è diversa, e soprattutto molto più complicata come proprio Mario e Silla sperimentarono per primi. Non che la leva degli interessi materiali fosse estranea, come è normale alla natura umana, alle decisioni dei legionari. Però non era sufficiente e forse nemmeno il principale argomento sul quale un leader poteva fondare un solido e leale legame con le proprie truppe. Chiunque poteva fare mirabolanti promesse e il livello di sviluppo culturale e politico dei cittadini romani era sufficientemente elevato da consentire alla maggioranza di loro ampia facoltà di discernimento autonomo.

Se i legionari non erano una massa amorfa attenta solo ad arricchirsi, la ricerca del consenso da parte di un leader politico-militare doveva seguire più strade, non ultima, dato il carattere sacro che aveva per i romani il rispetto della legge, quella di dimostrare ai propri uomini la legittimità delle proprie intenzioni.

Mario, ad esempio, fedele alla propria immagine di uomo umile, lo testimoniava condividendo lo stile di vita dei soldati semplici, le loro fatiche ed anche i loro pasti: una consuetudine che in una comunità a lungo e stretto contatto, come un esercito in campagna, doveva avere un effetto molto più persuasivo e convincente della visita alla mensa del campo nel giorno di Natale dei politici contemporanei. Mario ebbe occasione di ostentare la propria modestia anche in occasione del trionfo per la vittoria sui Cimbri alla battaglia dei Campi Raudii: "benevolmente" associò ad esso anche il collega Catulo, che aveva combattuto con lui in quella occasione. Plutarco, però, adombra una realtà diversa: Mario avrebbe volentieri escluso il collega, ma dovette piegarsi all'umore contrario delle proprie truppe che si sarebbero opposte ad una sua esclusiva celebrazione.

Ancora più complessa la sfida politica che fu affrontata da Silla. Se il carattere di Mario era frugale e austero ai limiti della cupezza, quello di Silla, proveniente da una famiglia nobile, era brillante e incline ai piaceri della vita, almeno quanto alla serietà imposta dalle asprezze della politica. Per quanto affetto da vitiligine, tanto da sembrare ai più maligni tra i contemporanei "una mora aspersa di farina", esercitava un grande fascino sul genere femminile (e non solo a dire la verità) che ricambiava con entusiasmo: sicuramente in questo campo la sua superiorità nei confronti di Mario fu schiacciante, battendolo per ben 5 mogli a una.

Nell'88 a.C. Mario sbarrò ancora una volta la strada a Silla e fu la scintilla che fece scoppiare la guerra civile. Appena eletto console, a Silla sarebbe spettato di diritto la conduzione della guerra contro Mitridate re del Ponto. Nonostante questo, però, Mario riuscì a farsi assegnare dal senato il prestigioso incarico, frustrando le ambizioni dell'avversario. Silla non poteva rimanere inerte e si decise ad un passo che nessuno aveva mai compiuto prima: entrare a Roma con le sue legioni per ribaltare con la forza delle armi la deliberazione senatoria.

Uomini e ufficiali erano perfettamente consci che un simile atto avrebbe scatenato una guerra civile: si era appena conclusa la Guerra Sociale, condotta da Roma contro una lega dei propri alleati italici che richiedevano parità dei diritti politici e di cittadinanza. Per tre anni, i legionari romani avevano combattuto contro i propri commilitoni di un tempo e se questo aveva il valore di un precedente che rendeva possibile se non addirittura plausibile, l'eventualità di una guerra civile, d'altro canto costituiva anche un monito, per la sua controversa natura etica e politica. Silla non poteva dunque ritenere automatico il consenso delle sue legioni, ma dovette conquistarlo esponendo in modo convincente le proprie ragioni e facendo appello al proprio diritto offeso. Non ci deve sorprendere che gli unici a negare il proprio appoggio a Silla furono tutti gli ufficiali superiori eccetto un questore suo parente: provenendo dalle classi più elevate, i loro legami con il potere costituito erano troppo forti per poterli spezzare da un giorno all'altro.

Sotto questo aspetto fu proprio al precedente sillano che si ispirò Giulio Cesare quando varcò il Rubicone, assumendolo come modello. È famoso il giudizio attribuito a Cesare da un partigiano di Pompeo e riferito da Svetonio: "fu un analfabeta politico Silla, che depose la dittatura". Silla, infatti, aveva raggiunto il potere assoluto, ma aveva saputo rinunciarvi, e, secondo il pompeiano, Cesare con quelle parole voleva affermare che non lo avrebbe mai imitato. In realtà Cesare aveva sperimentato personalmente anche la clemenza di Silla, che lo aveva risparmiato cancellandolo dalle liste di proscrizione, e soprattutto non aveva nascosto la propria ammirazione per la capacità di Silla di guadagnarsi il consenso popolare "nonostante" gli eccessi che, in quell'epoca di generalizzata violenza, non si era negato: una capacità che certo non lo definiva un "analfabeta politico".

Le alterne fortune nella guerra civile tra Mario e Silla si misuravano sulla spietatezza con la quale la fazione vincitrice faceva pagare alla sconfitta un prezzo di vite umane. Così accadde quando Silla occupò Roma e altrettanto avvenne quando fu Mario a entrare in città: questi si dotò addirittura di un'unità di schiavi liberati, chiamati Bardiei, per questo infame compito. Si trattava, tuttavia, di strumenti ripugnanti per la cultura legalistica romana, tanto che fu proprio Cinna, il principale alleato di Mario, a porre fine agli eccidi dei Bardiei sterminandoli con le proprie legioni. Con il suo avvento al potere nell'82 a.C., come Dictator rei publicae contituendae (dittatore per la ricostruzione della Repubblica), Silla creò uno strumento di epurazione "legale" che, incidentalmente, aiutava il risanamento dell'Erario: la lista di proscrizione.

Compilata dal Senato e pubblicata nel foro, essa individuava i nemici della Repubblica, che "ipso facto" venivano esclusi dalla cittadinanza e privati dei loro beni, incamerati dallo Stato. Una ricompensa per chi li tradiva o li assassinava scatenò una feroce caccia al proscritto che in pochi mesi causò 9.000 vittime. La discrezionalità della proscrizione lasciava spazio a corruzione e raccomandazioni e ne approfittò il giovane Giulio Cesare, che aveva sposato la figlia di Cinna, Cornelia, riuscendo a far cancellare il proprio nome dalla lista.

Se non uguali almeno simili nella ferocia, un tratto di diversità tra Mario e Silla che colpisce noi moderni è certo il loro diverso atteggiamento riguardo l'attaccamento al potere. A chi crede che l'amore senescente verso il potere sia una piaga moderna, sarà bene ricordare proprio l'esempio di Mario la cui ambizione non si estinse nemmeno nell'agonia. Già anziano e appesantito, si recava quotidianamente in campo di Marte per partecipare ad esercizi bellici e fare sfoggio di vigore: esibizioni che alcuni gradivano ed altri ritenevano sinceramente patetiche, proprio come accade oggi davanti allo spettacolo di leader che devono attraversare a nuoto un loro personale Yang Tze Kiang per far capire di non aver perso il loro carisma. Già malato e ormai prossimo alla morte, Mario non rinunciò a candidarsi per la settima volta a console. Quando prevedibilmente (era padrone assoluto di Roma) venne eletto, trascorse i diciassette giorni di questo suo ultimo consolato nel delirio, farneticando di nuove conquiste e mimando combattimenti. Finché la morte non liberò prima lui che Roma dalla sua ossessiva ambizione.

E se la coerenza di Silla con i propri principi aristocratici fa miglior figura con i posteri dell'avidità plebea di Mario, certo avremmo gradito che di loro si fosse occupato William Shakesperare per aiutarci a capire fino in fondo personalità tanto grandi e complesse.