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ASHIGARU E TEPPO

Gli ashigaru e l'introduzione degli archibugi

nicola zotti




All'arrivo dei portoghesi nel XVI secolo, il Giappone è un paese diviso e travagliato da secoli di stato di guerra permanente in un intrecciarsi sia di faide tra singoli feudi, gli shoen, e sia di guerre nazionali come la guerra di Onin (1467-1477).

Siamo nel cuore più acceso del periodo Sengoku, o degli "stati combattenti", che incomincia a metà del XV secolo e si concluderà solo per l'opera di stabilizzazione condotta da Oda Nobunaga e dal suo alleato Tokugawa Ieyasu, con l'insediamento di quest'ultimo, nel 1603, allo shogunato e l'inizio dell'era che da lui prende il nome.

Durante il periodo Sengoku la natura delle armate dei vari feudi combattenti era significativamente simile qualsiasi fosse il partito dei daimyo in conflitto. Ogni differenziazione nella composizione delle armate o nelle tattiche dipendeva più dalle risorse a disposizione del daimyo e dall’evoluzione spontanea dell’arte militare dei samurai nel corso dei secoli che dalle inclinazioni personali degli stessi daimyo.

La prima distinzione era ovviamente di casta. I samurai rappresentavano l’elite di qualsiasi armata, appartenendo ad un ceto combattente ben definito e circoscritto per nascita, sia che combattessero a piedi che a cavallo, come era il loro uso normale e consueto, Il resto dell’armata era composto dagli “attendenti” dei samurai, gli genin, e soprattutto da fanti reclutati nei modi più diversi, attingendo ai samurai di basso rango (Ji samurai), alle milizie contadine, come ai briganti o semplicemente a singoli più o meno “volontari”: nel corso degli anni il grande costo in termini di vite umane degli innumerevoli conflitti portò i daimyo a dipendere in misura sempre maggiore da queste truppe che, per la loro assenza di armature, venivano chiamati ashigaru, ovvero “piedi leggeri”, e non ricevevano inizialmente un regolare pagamento, ma venivano ricompensati con il diritto di saccheggio.

Armati ed equipaggiati secondo quello che riuscivano a reperire tra i cadaveri di un campo di battaglia, combattevano soprattutto con le lunghe picche chiamate yari o con archi, suddivisi in raggruppamenti estemporanei alla guida di comandanti chiamati ashigaru taisho, per differenziarli dai samurai taisho, dai quali invece dipendevano le unità di questi ultimi.

Comprensibilmente, l’affidabilità delle unità di ashigaru non era delle più rassicuranti: le diserzioni erano una pratica comune, così come aleatorio il comportamento sul campo di battaglia. Non era raro il caso che intere armate evaporassero nell’imminenza dello scontro fisico.

Gradualmente si ovviò a queste carenze regolarizzando sia il pagamento degli ashigaru, quanto il loro addestramento e le loro uniformi, misure che raggiunsero lo scopo e consentirono ai daimyo di portare sui campi di battaglia un numero di truppe sempre maggiore e sempre più affidabile.

È in questo scenario che l’introduzione della armi da fuoco raggiunse gli eserciti giapponesi.

Fu subito evidente che gli archibugi di manifattura occidentale fornivano le prestazioni di combattimento migliori quando utilizzati in massa e possibilmente riuscendo a garantire un volume di fuoco sostenuto e protratto nel tempo.

Con queste premesse, il fuoco degli archibugi rappresentava un vantaggio decisivo sul campo di battaglia, ma per concretizzarle non solo si dovevano armare un sufficiente numero di truppe di archibugi, ma si doveva soprattutto addestrarle al loro uso in modo coordinato ed unitario.

I samurai non disdegnarono l’uso degli archibugi, ma la loro concezione di sé e le loro forme di combattimento erano idealmente comunque indirizzate al duello anche in combattimenti collettivi, alla prestazione di eccellenza anche con un’arma di gruppo come l’archibugio e non si adattavano facilmente al radicale cambiamento che un efficace uso delle armi da fuoco avrebbe richiesto loro.

D’altra parte, i samurai solo eccezionalmente combattevano a piedi e anzi l’arma di cavalleria nel XVI secolo aveva rinnovato il proprio stile di combattimento abbandonando l’arco come arma principale in favore della lunga lancia di cavalleria.

Se in Occidente, infatti, la cavalleria feudale era stata messa in crisi dalle formazioni di picche, non altrettanto sembra accadere in Giappone, dove la cavalleria, constatando la propria inferiore efficacia rispetto al tiro a massa degli arcieri ashigaru, mantiene il ruolo prevalente sul campo di battaglia proprio armandosi di lance di varia forma e lunghezza (orientativamente in media di circa 3 metri) e caricando gli avversari.

Che le cavalcature dei samurai non fossero altro che minuscoli pony alti circa 130 cm. al garrese e pesanti solo 280 kg. sembra non aver influito sull’efficacia in battaglia delle loro cariche e proprio negli anni in cui si introducevano le prime armi da fuoco di tipo occidentale, Takeda Shingen portava la propria cavalleria all’apice della fama e dell’efficacia.

Per queste ragioni fu in qualche modo un fatto naturale che gli archibugi venissero assegnati prevalentemente agli ashigaru, modificandone radicalmente il ruolo sul campo di battaglia e non solo.

Nonostante la sua ancora scarsa affidabilità, infatti, l’archibugio aveva alcuni significativi vantaggi rispetto alla tradizionale arma da getto giapponese, l’arco: non solo l’addestramento al suo uso era molto più semplice, standardizzabile e realizzabile in un tempo incomparabilmente minore, e per giunta poteva essere usato da un soldato di costituzione fisica normale e non necessariamente con la corporatura atletica e la resistenza fisica dell’arciere; ma garantiva anche un’efficacia molto maggiore sul campo di battaglia per la penetratività delle palle di piombo che potevano perforare praticamente qualsiasi corazza fino a 75-50 metri, ed essere letali per un bersaglio non protetto anche a 100 metri e oltre. Il tiro di massa contro una compatta schiera avversaria, aveva come esito, semplicemente in virtù della statistica e nonostante il tiro indirizzato e non mirato, la decimazione dell’avversario.

Tuttavia, una cosa è consegnare ad un soldato un’arma a costo praticamente zero, come una picca, un’altra, ben diversa, è affidargli un’arma rara e costosa.

Inoltre l’archibugio aveva in sé quel tanto di novità da imporre un sostanziale cambio tattico sul campo di battaglia: una nuova gerarchia tattica si trasformava, o minacciava di trasformarsi, in una nuova gerarchia sociale, o per lo meno in un impulso all’ascesa nella stratificazione di classe della società giapponese di un nuovo ceto.

Le ragioni della guerra ebbero momentaneamente la prevalenza su quelle della tradizione e gli archibugieri ashigaru divennero il fulcro delle armate, scalzando dal loro status i samurai che si ritrovarono ad occupare il ruolo di arma di supporto, alla pari degli arcieri e dei picchieri ashigaru: in pratica confinati a concludere il lavoro incominciato da altri.

L’attenzione dei daimyo iniziò di conseguenza a concentrarsi sugli ashigaru, sul loro addestramento e sul loro trattamento, e il loro ruolo nelle armate giapponesi, fino alla conclusione del periodo Sengoku, fu sempre crescente e decisivo..