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LA PIU' CELEBRE VITTORIA DI NAPOLEONE

Austerlitz 1805


nicola zotti


La strada che porterà Napoleone alla vittoria sul campo di battaglia di Austerlitz (l’attuale Slavkov u Brna nella Repubblica Ceca) parte da Boulogne, sulla costa francese della Manica. Qui, nell’Estate del 1805, l’imperatore aveva riunito una potente armata destinata a invadere l’Inghilterra, la sua più pericolosa nemica. Napoleone, però, aveva dovuto da un giorno all’altro rivedere i suoi piani, minacciato da un pericolo molto più immediato. L’Inghilterra e il suo Primo Ministro William Pitt, infatti, pur confidando nella propria Marina per impedire l’invasione, si erano fatti promotori e soprattutto finanziatori di una nuova coalizione antifrancese, la Terza, comprendente Russia, Svezia, Regno di Napoli e Austria. La Prussia, unica altra grande potenza continentale, si era arroccata in una rigida neutralità, a causa di un contenzioso con l’Inghilterra per il possesso di Hannover, al momento occupato proprio dai Francesi.

Anche in assenza dell’esercito prussiano, i coalizzati schieravano contro Napoleone ben mezzo milione di uomini, suddivisi su quattro teatri di operazioni, due secondari e due principali. A Nord una forza mista anglo-russo-svedese avrebbe minacciato Hannover, a Sud un altro esercito composto da Napoletani, Inglesi e Russi doveva “liberare” il regno di Napoli per poi risalire nella pianura Padana. Qui, nel teatro del Nord d’Italia, si sarebbe sviluppata la prima delle due iniziative più importanti: 95.000 austriaci al comando dell’arciduca Carlo, avevano come obiettivo i domini italiani persi nei precedenti scontri con Napoleone. Infine, in Europa centrale era programmata la seconda offensiva maggiore: l’arciduca Ferdinando e il generale Mack, con 70.000 soldati austriaci, avrebbero occupato la Baviera e protetto l’arrivo, dopo una marcia di 1.200 km, di un’armata di 100.000 russi guidati dal generale Kutuzov, per attraversare riuniti il Reno e invadere la Francia. Sul fianco meridionale di questo imponente dispositivo, in Tirolo, altri 22.000 uomini agli ordini dell’arciduca Giovanni avrebbero assicurato i collegamenti tra le due offensive principali.

Contro questo enorme dispiegamento di forze, l’Imperatore poteva appena contrapporre i 150.000 uomini acquartierati a Boulogne, i 50.000 che il Maresciallo Massena aveva nel Nord Italia e poche altre migliaia sparpagliati nel resto d’Europa.
In guerra, però, i numeri non sono tutto, e Napoleone sapeva di poter contare sui soldati meglio addestrati, sugli ufficiali più abili ed esperti, sull’organizzazione più efficiente. E soprattutto nutriva una fiducia illimitata nel proprio genio, il solo che poteva guidare quell’esercito pur formidabile a una delle più grandi vittorie della storia.

L’imperatore non perse tempo: il 25 agosto la sua armata, battezzata “La Grande Armée”, abbandonava le coste della Manica.

All’inizio della campagna vennero distribuite ai soldati francesi due paia di scarpe: ai fini della vittoria sarebbero state più utili delle loro stesse armi. La rapidità di movimento era infatti una condizione essenziale nelle strategie napoleoniche, perché da essa dipendevano fattori decisivi come l’effetto sorpresa, l’aggiramento strategico, la concentrazione puntuale sul campo di battaglia.

Tutti i soldati dell’epoca erano dei grandi marciatori, capaci di compiere una media di 20-30 km in una giornata normale di 8 ore e di spingersi fino a 40-60 km in condizioni di necessità. Le grandi masse di uomini, però, dovevano procedere in colonne tanto lunghe che la marcia del primo uomo poteva finire prima che iniziasse quella dell’ultimo della fila, rendendo virtualmente impossibili manovre complesse di grandi concentrazioni di truppe. Una rivoluzione organizzativa francese, che Napoleone istituzionalizzò proprio prima della guerra, risolse in parte il problema, articolando la Grande Armée in Corpi d’armata, forze bilanciate di fanteria, cavalleria, artiglieria e servizi guidati da esperti ufficiali, autonome ma capaci di coordinarsi tra loro in movimenti ad ampio raggio.

Le informazioni che l'imperatore aveva sulle intenzioni dei suoi avversari erano assai scarse, ma gli erano state comunque sufficienti a escogitare una straordinaria trappola contro il più vicino dei suoi avversari: le armate austriache in Baviera.

La guida di queste forze era affidata formalmente all’arciduca Ferdinando, ma Francesco I nutriva maggiore fiducia nella competenza del generale Mack e aveva ordinato al cognato di subordinarsi alle decisioni del militare. Questa struttura di comando si rivelà assolutamente inadeguata e i due giunsero ben presto a comunicare solo per iscritto.

Invadendo il proprio vicino, gli Austriaci ritenevano di conseguire due obiettivi: costringere i Bavaresi a unirsi alla coalizione e bloccare, occupando la posizione strategica di Ulm, gli sbocchi dalla Foresta Nera, i varchi dai quali Mack si attendeva la puntata principale dell’attacco napoleonico, e dai quali già provenivano gli squadroni della cavalleria francese. Un’offensiva da Nord contro il Danubio non lo spaventava perché su quel fianco era imminente l’arrivo delle armate russe. Nell’attesa, per coprire eventuali minacce contro le linee di collegamento verso Vienna, riteneva sarebbe stato sufficiente controllare i ponti sul Danubio.


Campagna di Austerlitz



Ma Napoleone aveva non solo previsto ma anche auspicato queste mosse. La Baviera, Infatti, aveva stretto un’alleanza segreta con la Francia, e ritirò il proprio esercito, isolando così il generale Mack e i suoi uomini in una posizione avanzata ed esposta che l’Imperatore sapeva come colpire.

L’articolazione in corpi d’armata indipendenti, che i Francesi avevano sperimentato sin dal periodo rivoluzionario, consentiva movimenti agili a grandi concentrazioni di truppe, inconcepibili prima che irrealizzabili per gli altri eserciti dell’epoca.

Così i corpi d’armata della Grande Armée, nonostante pioggia e neve rendessero le strade confusi tracciati di fango, mossero a una straordinaria media di 40 km al giorno lungo vie parallele alle spalle della concentrazione austriaca a Ulm, giungendo sul Danubio il 7 ottobre. L’altissimo addestramento e la perfetta organizzazione della Grande Armée aveva permesso a Napoleone di realizzare la più grande “Manoeuvre sur les Derrières” che avesse mai concepito: mentre la sua cavalleria attirava frontalmente l’attenzione degli Austriaci sulla Foresta Nera, il grosso arrivava alle loro spalle, circondandoli.

Gli austriaci furono più che sorpresi, addirittura sconvolti, e dopo confusi e disperati tentativi di reazione, il 20 ottobre furono costretti alla resa.

I russi erano a un solo giorno di distanza: ma si trattava di una debole avanguardia che Kutuzov fece indietreggiare senza indugio prima che subisse la stessa sorte dei suoi sfortunati alleati.

Con altrettanta solerzia Napoleone ordinò un energico inseguimento per sbaragliare quanto rimaneva del demoralizzato esercito austriaco e dei loro alleati, ma Kutuzov dette prova di quell’abilità tattica che l’imperatore, per sua sfortuna, avrà modo di sperimentare ancora nel 1812 durante la sua invasione della Russia. Il generale russo si rifiutò persino di difendere Vienna, rimanendo fedele al principio della conservazione delle proprie forze, insensibile ai richiami dell’imperatore Francesco I e dello Zar Alessandro.

Il lungo inseguimento si fermò solo a fine novembre sulle rive della Morava, con gli austro-russi asserragliati dietro le sue rive nel campo fortificato di Olmütz. Erano state settimane di intensi combattimenti, di agguati e di contro agguati e soprattutto di brutte notizie per Napoleone: aveva saputo di non possedere più una flotta perché l’ammiraglio Nelson l’aveva distrutta a Trafalgar; i Prussiani, vista la situazione, avevano deciso di schierarsi contro di lui, prendendo a pretesto la violazione della neutralità del piccolo territorio prussiano dell’Ansbach operata dal corpo d’armata del maresciallo Bernadotte durante l’avanzata verso Ulm, e in un mese al più tardi ne avrebbe avuti contro ben 200.000; da sud le armate austriache marciavano ormai contro le sue linee di rifornimento.

Con le forze disperse su un territorio ampissimo per fronteggiare così tante minacce, Napoleone comunque si accampò con appena 47.000 uomini tra la città di Brünn, la collina di Pratzen e il villaggio di Austerlitz, sulla strada per Olmütz.

Entrambi gli eserciti erano affamati, infreddoliti e stremati da mesi di marce estenuanti. In queste condizioni non avrebbero potuto resistere a lungo prima di perdere qualunque efficienza combattiva. Ancora qualche giorno e Napoleone sarebbe stato costretto a riprendere la via della Francia senza quella vittoria così a lungo inseguita, un’umiliazione che lo abbandonava all’unico obiettivo di salvare quanto restava della Grande Armée. Anche per gli austro-russi, però, questo esito non poteva essere considerato una vittoria: il merito sarebbe stato ascritto per intero all’arrivo dei prussiani, una circostanza che avrebbe prodotto condizioni inaccettabili nel dopoguerra.

Giocare il tutto per tutto era una necessità per i Francesi ma non molto più che una tentazione per i coalizzati: Napoleone aveva intuito gli umori interni allo stato maggiore austro-russo e sapeva come manipolarli per condurli dove desiderava.
La giovane corte dello zar Alessandro, più che certa della vittoria, fremeva dal desiderio di battersi, e quando Napoleone offrì ai due imperatori colloqui di pace, questo fu interpretato come un inequivocabile segnale di debolezza: ma al contrario era solo la prima esca di un raffinatissimo gioco psicologico con il quale Napoleone stava irretendo i suoi avversari.

L’arroganza degli inviati della coalizione dovette essere una prova assai dura per l’enorme ego dell’imperatore, ma la preda aveva imboccato l’amo e non rimaneva che tirare. Dopo una serie di schermaglie, i francesi abbandonarono le posizioni più avanzate, attirando quasi con forza magnetica gli austro russi sulla collina di Pratzen da cui avrebbero potuto dominare le truppe francesi allineate dietro il torrente Goldbach.


Austerlitz battaglia

Austerlitz è l’unica battaglia in cui Napoleone scelse il terreno dello scontro: appoggiò  il suo fianco sinistro ai rilievi dello Zurlan e del Santon, tenne al centro consistenti riserve a scapito del fianco destro lasciato volutamente debolissimo, perché proprio qui voleva essere attaccato. Nel frattempo richiamò le sue truppe più lontane, tra cui la divisione del generale Friant del corpo d’armata del Marescialo Davout, che coprì 113 km marciando per 40 ore con sole 4 ore di riposo, affinché giungesse di sorpresa a sostegno del sua ala più debole.

E tutto il 2 dicembre, giorno della battaglia, seguì il copione scritto da Napoleone: le lunghe colonne austro-russe discesero dal Pratzen per piegare il lato debole dello schieramento francese. Ma la resistenza caparbia su quell’ala, sostenuta tra gli altri anche dagli italiani Tirailleurs du Po, bloccò nella nebbia del mattino l’offensiva austrorussa. I primi raggi del sole di Austerlitz ruppero la nebbia splendendo sul contrattacco francese, che colpì il centro degli avversari quando ancora percorrevano incolonnati le pendici del Pratzen, spezzandone in due lo schieramento. Tutto come previsto, tutto come pianificato dal genio militare di Napoleone, tranne l’ultima vittima della battaglia, il Primo Ministro inglese William Pitt, il cui fisico già debilitato non resse all’annuncio della sconfitta.