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LA BATTAGLIA DELLE NAZIONI

La battaglia di Lipsia (16-19 ottobre 1813)


nicola zotti



Il 1812 era stato l'annus horribilis di Napoleone. Purtroppo per lui solo il primo di una lunga serie. La disfatta in Russia aveva polverizzato il suo esercito, riducendolo dagli originari 600.000 uomini ad appena 30.000. Troppa sofferenza per l'ambizione di un solo uomo, e il consenso adorante che lo accompagnava dalla sua ascesa al potere era per la prima volta incrinato da dubbi e paure. Il suo stesso trono vacillava e i suoi alleati in Europa erano sgomenti e sempre meno affidabili. Soprattutto, però, la sconfitta lo spogliava dell'aura di invincibilità in battaglia che fino ad allora aveva schiacciato i suoi nemici con un insopprimibile complesso di inferiorità.

Napoleone nutriva troppa fiducia in se stesso, però, per scoraggiarsi o contemplare la resa. Dando prova della sua energia e dell'efficienza raggiunta dalla struttura amministrativa francese, creò dal nulla un nuovo esercito, più numeroso del precedente, con misure straordinarie che comprendevano l'arruolamento anticipato delle classi più giovani. La nuova Grande Armée poteva risolvere ogni problema: una vittoria non solo avrebbe riconfermato la sua autorità in Patria e rassicurato gli alleati, ma anche intimidito gli avversari, questa volta in modo definitivamente paralizzante.

Per l'imperatore iniziava una lotta contro il tempo. La schiera dei nemici della Francia, infatti, prendeva coraggio, divenendo di giorno in giorno più minacciosa. Nella penisola Iberica Portoghesi e Spagnoli, sostenuti dalle truppe inglesi guidate dal duca di Wellington, ottenevano i primi successi nella guerra di liberazione dal dominio francese. La Russia occupava il Ducato di Varsavia, spegnendone sul nascere l'indipendenza e costringendo alla fuga il leale amico della Francia principe Jozef Poniatowsky. Nel frattempo lo zar Alessandro procedeva speditamente alla ricostruzione del proprio esercito, prostrato come quello francese dopo le immani fatiche della guerra del 1812, al dichiarato scopo di violare Parigi come Napoleone aveva fatto con Mosca.

A questo fronte, proprio negli ultimi giorni dell'anno, si era aggiunta la Prussia. Il generale Ludwig Yorck, comandante delle forze prussiane alleate di Napoleone – in modo a dir poco riluttante – nella campagna di Russia, aveva unilateralmente firmato una tregua con il rappresentante dello zar, un altro Prussiano, destinato a diventare famoso non come militare ma come studioso, Carl von Clausewitz.

Sulla lista nera del re di Prussia Federico Guglielmo III, sotto la voce "traditori", il nome di Yorck si aggiunse così a quello di Clausewitz e di tanti altri Prussiani che avevano preferito la diserzione piuttosto che combattere al fianco dei Francesi. Ci rimasero ancora per poco. Alla notizia della "diserzione" di Yorck il popolo prussiano era sceso nelle strade a festeggiare, e la corte di Berlino colse l'occasione per rivelare i propri radicati sentimenti antifrancesi. Il 28 febbraio del 1813 Russia e Prussia siglarono un trattato di alleanza formando il nucleo iniziale di quella Sesta coalizione che finalmente sarebbe riuscita dove le altre cinque avevano fallito: porre fine alla parabola della Francia rivoluzionaria e al suo frutto più velenoso, il dominio imperiale di Napoleone.
Poco dopo la Coalizione si ampliò alla Svezia, il cui reggente Jean Bernadotte, già maresciallo e amico dell'Imperatore, accettando il titolo di principe ereditario di Svezia con il nome di Carlo XIV, aveva sposato senza riserve la causa e gli interessi dei suoi sudditi.

Con l'arrivo della Primavera iniziarono anche le operazioni militari sullo scenario principale della guerra, la Germania, ancora una volta terreno di scontro di eserciti stranieri.



Campagna 1813



Napoleone era riuscito a raccogliere sulla carta quasi 400.000 uomini, la maggior parte dei quali reclute dai 18 ai 20 anni. Si procedette ad addestrarli ed equipaggiarli durante il tragitto verso il fronte, riunendo compagnie in battaglioni e quindi battaglioni in reggimenti in punti di incontro preordinati. Il morale dei giovani soldati era soddisfacente, ma non così la loro salute, che risentì molto degli strapazzi della guerra cui non erano preparati. Pochi invece i veterani e quanti avessero comunque già conosciuto l'uso delle armi. Buone le condizioni dell'artiglieria, per la quale vennero impiegati artiglieri provenienti dalla Marina e dalle batterie costiere, ma pessime quelle della cavalleria. La Russia aveva sterminato non solo gli uomini ma anche gli animali e non era possibile rimpiazzarli in così breve tempo, e le reclute di cavalleria alle quali fu trovata una monta impararono a malapena a cavalcare, una debolezza che si rivelerà decisiva nella fase primaverile della Guerra.

Nel mese di maggio del 1813, infatti, Napoleone incontrò e sconfisse gli avversari in due grandi battaglie, a Lützen il 2 e a Bautzen il 20-21. In entrambe le occasioni sul campo di battaglia scesero complessivamente 250.000 uomini, e Napoleone inflisse pesanti perdite ai nemici ad un costo relativamente lieve delle proprie. Tuttavia il peso dei combattimenti era gravato sui pochi veterani di cui disponeva e la mancanza di un'adeguata cavalleria gli impedì di inseguire vigorosamente i nemici per ottenere una vittoria decisiva.

Nonostante le sconfitte, i Coalizzati rinfrancarono il loro moralo, soddisfatti di essere riusciti a non farsi distruggere e di aver costretto Napoleone ad accettare l'offerta di una tregua. Questi aveva assoluto bisogno di tempo per riorganizzare il proprio esercito e accrescerlo di nuove truppe, ma altrettanto intendevano fare i Coalizzati, che attendevano la discesa in campo di un altro potente protagonista: l'Austria.

L'Imperatore austro-ungarico Francesco I fino all'Estate era rimasto alla finestra seguendo l'evolversi della situazione. La sua neutralità non era dovuta al vincolo di parentela che lo legava a Napoleone, essendone diventato il suocero nel 1810 dopo il matrimonio con la figlia Maria Luisa, né a codardia e neppure ad opportunismo, ma aveva profonde motivazioni politiche. L'impero austriaco era molto diverso rispetto alle altre potenze europee. La sua natura di stato multietnico e multinazionale lo rendeva vulnerabile a ogni sommovimento europeo, che poteva diffondere al suo interno spinte disgregatrici. Il potere degli Asburgo non si era fondato nei secoli tanto sulla potenza militare, quanto sulle antiche regole delle successioni dinastiche, su un accorto intreccio di matrimoni e su ponderati compromessi territoriali, collezionando un coacervo di popoli di cui la corona era il solo minimo comune denominatore. La stessa autorità imperiale sugli stati tedeschi veniva esercitata non come un sovrano, ma come un Leader eletto secondo tradizione. Se la Francia rivoluzionaria e aggressiva di Napoleone preoccupava Francesco e il suo governo, presieduto da Clemens von Metternich, altrettanti motivi di inquietudine provenivano dal campo della Coalizione. Alla corte di Vienna non si era spento il ricordo della guerra contro la Francia del 1809 che l'Austria era stata costretta a combattere in solitudine per il rifiuto degli altri sovrani di venirle a sostegno. Dalla inevitabile sconfitta era seguita una pace umiliante e una crisi politica ed economica dalla quale l'Impero aveva appena iniziato a risollevarsi. Ora i Russi chiamavano quella nuova guerra "Grande guerra patriottica" e si impadronivano della Polonia, comprese le province un tempo asburgiche. Ancora peggio, i Prussiani la annunciavano come "Guerra di liberazione", dopo che il re di Prussia aveva emesso una combattiva levata alle armi con un proclama intitolato "Al mio popolo", rivolto non solo ai suoi sudditi ma a tutti i Tedeschi, in aperta sfida all'autorità imperiale.

All'abile politico e diplomatico Metternich e al suo sovrano apparve chiaro sia che l'Austria fosse ormai inevitabilmente costretta a scendere in guerra e sia che il nemico da scegliere dovesse essere Napoleone. Lo imponeva, infatti, l'esigenza di controllare i Coalizzati e di dettare loro precise condizioni per i futuri assetti europei "post-rivoluzionari": un confronto ormai iniziato e sul quale i 300.000 soldati che gli Austriaci potevano gettare nella mischia avrebbero avuto un decisivo peso contrattuale.

In un drammatico confronto con Metternich avvenuto a Dresda il 28 giugno, a Napoleone vennero presentate condizioni di pace tanto penalizzanti da costringerlo a rifiutarle con sdegno, fornendo all'Austria il pretesto per la dichiarazione di guerra.
Ora il compito più difficile non era solo sconfiggere Napoleone, comunque uomo da non sottovalutare, quanto creare una Coalizione in grado di farlo.

Le alleanze che lo avevano combattuto fino ad allora, si erano infatti ispirate al semplice e consolidato principio del bilanciamento tra potenze: un sistema di contrappesi nel quale ogni attore di un'alleanza decideva il campo in cui schierarsi esclusivamente sulla base dei propri interessi nazionali. Metternich riuscì a spiegare ai sovrani che questo non sarebbe stato sufficiente, ma occorreva individuare un obiettivo comune, un vero scopo "di coalizione" al quale sacrificare almeno in parte gli interessi particolari. L'equilibrio politico-diplomatico così raggiunto era la precondizione indispensabile ad agire come un unico organismo e con una sola volontà.

La riluttanza prussiana ad accettare queste condizioni fu vinta dal risolutivo intervento dello zar Alessandro, la cui influente costante presenza nel teatro delle operazioni lo aveva investito di una incisiva autorevolezza.

Anche la pianificazione delle attività militari ebbe vita difficile, sempre per l'opposizione prussiana, ma in conclusione fu accettato il piano del capo di stato maggiore austriaco Joseph Radetzky, un uomo che gli italiani avrebbero imparato a conoscere durante le guerre risorgimentali. I successi fino ad allora conseguiti da Napoleone erano dipesi dalla sua eccezionale capacità di combattere da una posizione centrale contro nemici che provenivano da tutte le direzioni: con una minima parte delle proprie truppe egli conteneva alcune delle puntate nemiche, e lanciava con decisione il grosso su un'armata più esposta delle altre, sconfiggendola. Una strategia facilitata dalla mentalità aggressiva dei Coalizzati, votati all'offensiva ad ogni costo. Radetzky rovesciò completamente questo approccio osservando come Napoleone, ossessionato dalla necessità che nessuno facesse ombra al suo protagonismo, avesse allontanato il suo migliore comandante Nicolas Davout, schierandolo dove avrebbe incontrato ben pochi motivi per riconfermare il proprio genio militare. Il punto debole dell'imperatore erano dunque i suoi marescialli e la scarsa autonomia decisionale che egli concedeva loro. Ritirandosi di fronte a Napoleone e attaccando invece i suoi marescialli si sarebbero erose le armate francesi fino a renderne inevitabile la sconfitta. Inoltre, a garanzia della fedeltà all'obiettivo comune della coalizione, le singole armate dovevano mischiare le nazionalità, subordinandole ad uno stato maggiore di coalizione efficiente, modellato su quello prussiano, capace di un vero lavoro collettivo e di produrre ordini coordinati per le diverse armate.

Mesi di questa strategia comportarono una sola sconfitta iniziale, a Dresda il 26-27 agosto. Contemporaneamente, però, sul fiume Katzbach in Prussia, il generale prussiano Blücher sconfiggeva pesantemente il maresciallo francese MacDonald. Una vittoria seguita da molte altre, che provocarono la defezione verso i coalizzati dei bavaresi, per giungere finalmente il 16 ottobre sul campo di battaglia di Lipsia, capitale della Sassonia: una battaglia il cui esito fu senza dubbio più importante di quello di Waterloo.

Poco meno di 200.000 francesi e loro alleati, tra i quali anche 10.000 italiani, furono attaccati da ogni punto cardinale con forze complessivamente più che doppie: quattro giorni di combattimenti feroci e disperati tra le strade e le case di Lipsia e dei villaggi circonvicini, durante i quali Napoleone fu abbandonato non solo da altri alleati, questa volta i Sassoni, ma anche dalla fortuna. Rotto l'accerchiamento ad occidente, il 19 ottobre la Grande Armée iniziò a ritirarsi attraversando l'unico ponte sul fiume Elster. Un caporale cui era stato affidato il compito di farlo saltare, eseguì l'ordine prematuramente, uccidendo quanti lo stavano attraversando e intrappolando la retroguardia francese. Napoleone aveva perso circa 60.000 soldati, tra i quali 51 generali e il principe Poniatowsky, contro i 90.000 degli alleati, ma, cosa per lui peggiore, aveva ormai di fatto perso il suo trono. Lo difese con la forza della disperazione nei due anni successivi, ma l'esilio sull'isola di Sant'Elena era definitivamente il suo unico orizzonte.