torna alla homepagetorna alla homepage
storia militare e cultura strategica
torna alla homepage
 
dalle discussioni
dell'area Warfare di MClink,
a cura di Nicola Zotti
  home > storie > Mata Hari


ricognizioni
in territorio ostile


recce team

storie
strategia
tattica
what if?
vocabolario
documenti
segnalazioni
link
scrivici


quelle piccole sciabole incrociate

quelle piccole spade incrociate

Viaggi nei
campi di battaglia d'Italia
sulle carte del Tci


UNA DONNA ENTRATA IN UN TRITACARNE

Mata Hari


nicola zotti



No, non voleva essere legata al palo. E nemmeno avrebbe consentito loro di bendarla. Le richieste erano state avanzate sommessamente e con gentilezza, e fu accontentata: affrontò il plotone di esecuzione senza battere ciglio.

Era stata svegliata alle 5 del mattino, in quella cella sudicia della prigione di Saint-Lazare, annunciandole che il giorno era giunto. Aveva indossato i propri vestiti migliori: leggere calze nere di seta, una camicetta scollata sotto un due pezzi da cavallerizza grigio tortora. Si acconciò i capelli come meglio poteva, ma dopo nove mesi di detenzione senza poterli lavare per bene e a maggior ragione senza l’aiuto di una parrucchiera che glieli tingesse, erano diventati indomabili e rivelavano irrimediabilmente i segni del loro prematuro incanutirsi. Quei capelli la invecchiavano ben oltre i suoi 41 anni: per nasconderli si aiutò con il cappellino, un tricorno, e solo quando fu soddisfatta del risultato, si appoggiò sulle spalle, come un mantello, il cappotto di un vivace blu che l’avrebbe protetta dal freddo di quella mattina autunnale.
Margaretha Zelle, condannata a morte con l’accusa di spionaggio, fu scortata a una macchina con i cristalli oscurati: velocemente avrebbe attraversato Parigi, la città che tanto amava, senza nemmeno poterle dare un ultimo saluto.

L’attendevano dodici soldati in uniforme cachi e fez rosso. Fece un cenno di saluto alle due suore che erano state il suo unico conforto durante i mesi in carcere e ora piangevano per lei, lanciò un bacio al sacerdote che le aveva dato l’estrema unzione e un altro al suo avvocato, in tempi passati suo amante.

Il cielo nuvoloso si aprì lasciando filtrare su di lei un timido raggio di sole e, come un segno del destino per una donna che il mondo conosceva come Mata Hari, in indonesiano “occhio del giorno” ovvero “sole”, i dodici soldati fecero fuoco. La donna cadde in ginocchio e così rimase, immobile, senza neppure cambiare espressione del volto, per poi piegare la schiena e cadere riversa all’indietro.

Il capo plotone, secondo prassi, si avvicinò a lei, le puntò la pistola alla testa ed esplose un singolo, ultimo colpo contro il suo cadavere.

Il 15 ottobre 1917 si era svolto l’atto finale di una vita non comune: Margaretha Zelle era stata moglie, madre, amante, danzatrice, cortigiana, prostituta, ladra, truffatrice, e altro ancora. Ma era stata anche una spia dei tedeschi? Per questa accusa l’avevano giustiziata: essere stata la causa della morte di 50.000 soldati francesi.

Ma più che per questa terribile colpa, che il tribunale non si affannò a dimostrare, Mata Hari fu condannata dalla fama di peccaminosa dea del sesso che lei stessa dandosi quel nome aveva costruito e alimentato. Fu anche l’unico fatto concreto che venne appurato durante il giudizio. Di più: che venne ritenuto sufficiente appurare. Nella Francia di quel 1917, con una guerra di violenza e crudeltà mai prima conosciute, quale nodo migliore di sfogare l’irrazionale isteria dei francesi alla ricerca di un responsabile per tutto quel sangue, che offrire loro come capro espiatorio una strega mangiatrice di uomini da bruciare? Mata Hari la seduttrice, la donna peccaminosa, promiscua e disinibita, agli occhi dei suoi persecutori incarnava perfettamente il degrado morale in cui nasce il più maligno dei peccati: il tradimento. Questo il teorema accusatorio. E con il tradimento si riescono a giustificare tante sconfitte, ogni errore compiuto in “buona fede” dai generali veniva dimenticato, passava in secondo piano, perché una pugnalata alle spalle spiegava gli ammutinamenti delle truppe esauste e disperate e la Francia sull’orlo del collasso, da solo redimeva ogni altra responsabilità.

Margaretha Geertruida Zelle aveva compiuto un lungo percorso di vita per riuscire a guadagnarsi questo ruolo di simbolo del male assoluto.

Era nata nel 1876 a Leeuwarden, una piccola cittadina olandese: dalla madre giavanese, Antje, aveva preso la carnagione olivastra, i capelli neri e il corpo morbido e flessuoso, dal padre olandese, Adam, l’altezza: 178 centimetri. Il risultato era una femminilità esotica eppure imponente, impossibile da ignorare, e certo Margaretha non aveva alcuna intenzione di passare inosservata.

Era la figlia maggiore con altri tre fratelli maschi: il padre, commerciante, finché ebbe successo, non lesinò nulla alla sua “piccola principessa”, facendole frequentare le migliori scuole e offrendole tutto il benessere consentitogli dalla sua condizione economica. Ma non durò molto. Quando Margaretha aveva 13 anni Adam Zelle fece bancarotta e improvvisamente la bambina ebbe la vita stravolta. I genitori divorziarono, sua madre morì poco dopo, fu costretta a trasferirsi dal padrino di battesimo che la parcheggiò in una scuola per maestre d’asilo. Qui, a 16 anni, fu travolta dal primo scandalo: conobbe le poco innocenti attenzioni del preside dell’istituto e le ricambiò. Dovette abbandonare la scuola, vergognosamente marchiata come precoce seduttrice. Oggi rivedremmo la vicenda sotto una luce diversa, ma nel 1893 non c’era spazio per possibili equivoci: lei era colpevole, lei e la sua immodesta fisicità adolescenziale avevano suscitato nel maturo insegnante sentimenti che un uomo non poteva frenare.

Per Margaretha, però, quell’episodio fu anche formativo per la sua personalità. Era una giovane naturalmente elegante, aveva ricevuto una buona educazione, parlava francese, inglese e tedesco, ma l’unica cosa che capì di saper fare bene, e forse anche l’unica cosa che le interessasse, era piacere agli uomini, ottenere le loro attenzioni. Era anche la sola certezza e il solo talento su cui poteva contare per trovare un sostegno in quella sua esistenza ormai diventata così precaria e insicura. Il suo sguardo iniziò a essere definito “impudente”, e da allora tale rimase, come abbiamo visto, anche davanti al plotone di esecuzione.

Pochi mesi dopo lo scandalo, Margarethe fuggì dalla casa in cui il padrino la teneva reclusa, andando a vivere da uno zio all’Aia. Qui la sua inquietudine la portò a rispondere all’annuncio in una rubrica di cuori solitari del capitano Rudolf MacLeod, appena tornato in patria dalle colonie olandesi delle Indie orientali per cercare moglie. Si incontrarono e si piacquero immediatamente, sposandosi nel 1895: lei a 18 anni, lui di vent’anni più vecchio. La coppia tornò a Giava, isola natale della madre di Margaretha, dove il capitano MacLeod aveva la sua guarnigione.

Le cose tra i due andarono subito male. MacLeod annegava nell’alcol la frustrazione per una carriera ferma al grado di capitano e priva di prospettive, diventava violento e non esitava a picchiare la moglie per ogni minimo motivo: a cominciare, ovviamente, dai sospetti di tradimento e proseguendo con le spese eccessive della donna, che incidevano sul bilancio familiare anche più dei debiti di gioco dell’uomo. Il capitano, per altro, non aveva dismesso le sue abitudini da scapolo: aveva apertamente una concubina e non disdegnava di frequentare anche prostitute. Nei bordelli di Giava aveva anche contratto la sifilide, un dettaglio di cui non aveva avvisato la futura sposa. Una moglie così intimamente disponibile a farsi corteggiare, però no, non riusciva a tollerarla.

Margaretha era giovane e molto graziosa, irresistibilmente femminile e sensuale, non nascondeva il malizioso compiacimento per le attenzioni che le riservavano i colleghi del marito e ogni altro uomo avesse intorno, e soprattutto non faceva nulla per scoraggiarle. Le occasioni per flirtare non le mancavano, perché la posizione di moglie di un ufficiale dell’Esercito olandese apriva a Margaretha i salotti e le feste della ristretta élite europea della colonia. Divenne in breve l’attrazione principale per gli uomini e il bersaglio preferito per le malignità delle donne, che già non le perdonavano quella carnagione olivastra, così simile a quella dei locali, e men che meno potevano sorvolare sull’interesse che sapeva suscitare nei loro mariti. Schiacciata tra snobismo e invidie, Margaretha non poté integrarsi nella comunità olandese locale, ma forse non fu mai nemmeno troppo interessata a riuscirci: semmai, per contrasto, tutta quell’oppressione le diede la consapevolezza del suo bisogno di libertà.

Diede sfogo a questo suo momento di maturazione personale, riscoprendo le proprie origini materne e immergendosi nella cultura giavanese, frequentando anche una scuola della caratteristica danza locale, apprendendo di quei complessi movimenti rituali quanto le fu sufficiente a entrare in una compagnia con il nome d’arte di Mata Hari e a divenire in seguito una celebrità internazionale.

Le scenate di gelosia, le violenze, le amanti, le continue e rozze critiche in pubblico di suo marito, erano pane quotidiano, ma non fu per quelle che il loro matrimonio finì.
La coppia aveva avuto due figli, un maschio e una femmina, purtroppo segnati dal passato dei genitori: nacquero affetti da sifilide congenita, che Margaretha aveva contratta dal marito. Il maschietto morì a due anni in circostanze mai chiarite: avvelenato da una domestica risentita, si disse, o forse anche da un nemico del marito. Un’altra ipotesi plausibile è che il medico di famiglia abbia ecceduto nelle dosi di mercurio, sostanza con cui allora si curava la malattia, somministrate ai due bambini.

La tragedia familiare fece precipitare una situazione già compromessa e i coniugi tornarono in Olanda dove si separarono nel 1902.

MacLeod si era congedato dall’Esercito, dove la sua carriera era da considerarsi ormai conclusa. Gentiluomo fino all’ultimo, fece pubblicare sui giornali un annuncio in cui rendeva pubblica la separazione da Margaretha avvisando i commercianti e quanti potessero essere interessati che non avrebbe più pagato i suoi conti. Neppure versò mai alla ex-moglie gli alimenti e a 26 anni dovette mettersi a cercare un lavoro: fece la modella e occasionalmente la prostituta.

L’Olanda, però, era troppo piccola per lei, e se doveva vivere con ciò che Madre Natura le aveva generosamente regalato, in Europa c’era una piazza migliore: Parigi.
Arrivò nella capitale francese nel 1903, trovando lavoro in un circo come cavallerizza. Ma fu come danzatrice esotica che ottenne un immediato e clamoroso successo. Ai primi del Novecento la danza era stata letteralmente sconvolta da personalità quali le americane Isadora Duncan e Ruth Saint Denis che avevano trovato nell’Egitto e nell’Oriente ispirazione alla loro arte. Ma a Parigi era comparsa dal nulla Mata Hari, una “vera” principessa indiana, a svelare agli europei i misteri del lontano Oriente. La madre era morta dandola alla luce e lei era cresciuta nella giungla di Giava penetrando fin dalla più tenera età i più arcani segreti delle danze sacre. Questa la sua nuova identità, e a raccontarla sembra di sentirla declamare dall’imbonitore di un circo di terz’ordine. Eppure nessuno andò a controllare il passaporto di Margaretha Geertruida Zelle, non ce n’era bisogno perché il suo corpo e le sue movenze parlavano per lei. I giornali la descrivono “felina, estremamente femminile, maestosamente tragica, le mille curve del suo corpo fremono di mille ritmi, esotica ma profondamente austera, sottile e flessibile come un serpente sacro”. Quello che non scrivono, ma che tutti sapevano, era che le “danze sacre” di Mata Hari, fino ad allora riservate ai sacerdoti di sconosciuti riti orientali al chiuso dei loro templi, consistevano in “danze dei sette veli” o, più banalmente spogliarelli, che si concludevano con la “danzatrice sacra” coperta solo da un’aderente calzamaglia del colore della sua carnagione, e un reggiseno gioiello che nascondeva il suo seno minuscolo.

Per i fortunati che potevano permetterselo, non disdegnava di danzare a feste o in spettacoli privati terminando l’esibizione completamente nuda, a parte il famoso reggiseno. Era un deciso passo avanti in un’epoca nella quale il massimo dell’erotismo era rappresentato dalle ballerine di “can can” del Moulin Rouge con le loro mutande al ginocchio.

Non dobbiamo pensare che si esibisse solo come danzatrice esotica: ottenne scritture in produzioni “serie”, anche se forse per la pubblicità che derivava dal mettere il suo nome sul cartellone, dimostrando comunque un certo talento come ballerina.
Vita e spettacolo si erano unite in una sola persona: ottenne denaro, ammiratori, successo come mai avrebbe potuto sperare. Tutti in Europa conoscevano Mata Hari: chi poteva permettersi il prezzo del biglietto l’aveva vista a teatro, i molto ricchi avevano avuto accesso a qualche cosa di più.

Nonostante i guadagni stratosferici e gli amici generosi, Mata Hari conduceva una vita al di sopra dei propri mezzi. E gli anni passavano, nuove ballerine molto più giovani la imitavano, e la sua sovraesposizione iniziava a stancare. I teatri non la scritturarono più con la frequenza e i cachet di un tempo, e iniziò a dipendere in modo sempre maggiore dai suoi numerosi amanti, non esitando nemmeno a prostituirsi se l’offerta era all’altezza.

Il suo poteva essere un tramonto dorato se non fosse scoppiata la guerra.
Una guerra che aveva cambiato il mondo, e Mata Hari non fece in tempo ad accorgersene che ne rimase travolta. Tutto ciò per cui era stata idolatrata improvvisamente le si ritorse contro. Frequentava le élite di tutto il mondo: non poteva essere una “patriota”. Era ricca, bella e famosa: dunque superba. Era una donna indipendente: totalmente contro natura. Ancor più riprovevole era la sua libertà sessuale e sentimentale: una donna così non poteva che covare intenzioni malvagie.
Chiese di poter visitare un suo amante ricoverato con gravi ferite in un ospedale militare. Il Deuxième Bureau subordinò il lasciapassare a che lei si prestasse a fare la spia. Sulla scheda che accompagnava il suo arruolamento, un commento rivelatore: “Senza scrupoli, abituata ad approfittare degli uomini, è quel tipo di donna nata per fare la spia”.

Era nota una sua passata relazione con il principe ereditario Guglielmo, figlio del Kaiser, e si pretendeva che lei lo incontrasse nuovamente per carpirne preziosissimi segreti militari. Il principe non solo sarebbe stato il futuro Kaiser, ma era addirittura il comandante in capo allo stesso tempo di un gruppo di armate e di un’armata: qualsiasi semplice confidenza intima avrebbero potuto dare una svolta al conflitto.

Questo in teoria, perché in pratica Guglielmo era un viziato cialtrone che trascorreva le giornate tra donne e alcol, e i comandi affidatigli erano puramente nominali. Forse la vera personalità del principe era il segreto meglio custodito della Germania, ma non ci voleva un genio militare per capire che nessun uomo al mondo avrebbe potuto comandare due grandi unità. Mata Hari fornì al Deuxième Bureau informazioni reperibili sulle pagine mondane dei quotidiane: gossip, si direbbe oggi. Purtroppo per lei, provò anche a contattare il principe ereditario, presentandosi all’addetto militare tedesco in Spagna affinché combinasse un incontro. Per spillare del denaro ai tedeschi, però, la donna si offrì loro anche come spia. Il solerte funzionario germanico comunicò subito l’avvenuto reclutamento della spia “H-21” a Berlino. La dettagliata descrizione della nuova spia viaggiò codificata con un cifrario che i tedeschi sapevano essere già stato scoperto dai francesi, in pratica consegnando loro Mata Hari già pronta per il plotone di esecuzione. Il suo arresto avvenne il 13 febbraio 1917. Pierre Bouchardon, il magistrato che condusse le indagini, e che poi durante il processo sostenne l’accusa, non aveva dubbi: «fin dal primo interrogatorio ebbi l’intuizione che lei era sui libri paga dei nostri nemici. Ho avuto un’idea fissa: smascherarla». Il suo compito fu facilitato da un processo farsa, impedendo ogni diritto della difesa, e dai servizi segreti francese e britannico che presentarono Mata Hari sotto la peggior luce possibile, non esitando a falsificare le prove per condannarla: d’altra parte prove per incriminarla non ce n’erano. La fucilarono per lo stile di vita, l’“immoralità”, la sua libertà, Era stata una “felina” mangiatrice di uomini, ma alla fine furono gli uomini a divorarla.