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UNA BATTAGLIA TRA CASO E NECESSITA'

Midway

nicola zotti

La battaglia delle Isole Midway (4-6 giugno 1942) decise le sorti della Seconda guerra mondiale nell’Oceano Pacifico.

Pregi e difetti delle Forze Armate imperiali trovavano contemporaneamente origine nella convinzione di essere predestinati: “sekai dai ichi”, primi nel Mondo. Un articolo di fede piuttosto diffuso all’epoca anche in altri popoli, che nel caso giapponese si basava sul mito dell’origine divina della stirpe, e trovava una concreta conferma in materia di supremazia militare nell’inviolabilità storica delle isole giapponesi e nella sequenza di successi iniziati contro la Russia zarista nel 1905 e proseguiti fino ai 100 giorni dopo Pearl Harbour, durante i quali i giapponesi avevano fatto strame dei letargici eserciti alleati. Il superuomo giapponese, animato dal “nihon seishin”, l’innato spirito nipponico, era destinato a prevalere sui suoi nemici in virtù della propria qualità morale. Una vittoria ineluttabile, indipendente da qualsiasi altro fattore.

In guerra, però, l’acritica presunzione di superiorità antropologico-culturale si traduce inevitabilmente in una serie di conseguenze negative che possono rimanere latenti e inespresse a lungo, oppure possono incontrare, come accadde a Midway, qualche minuscolo intoppo che diventa l’agente catalizzatore di un’immane catastrofe.

L’ammiraglio Yamamoto, che pure era la mente più aperta tra gli alti gradi imperiali e intimamente convinto che gli Stati Uniti fossero un avversario pericolosamente sottostimato, non si era però sottratto a questa epidemia di “malattia del vincitore”. Il piano elaborato dal suo staff prevedeva, infatti, di conquistare Midway in modo da costringere quanto rimaneva della flotta americana ad esporsi per poterla sconfiggere definitivamente nella “kantai kessen”, la battaglia decisiva che, negli auspici di Yamamoto, avrebbe convinto gli americani ad accettare una proposta di pace.

Di questi due presupposti strategici il primo, l’inerzia americana che consegnava alla flotta giapponese l’assoluta iniziativa, si sarebbe dimostrato errato, e avrebbe di conseguenza impedito di mettere alla prova il secondo, la presunta debolezza della fibra morale americana.

Dato per assiomatico che gli americani fossero marionette meccaniche i cui fili erano saldamente in mani giapponesi, nessuno nel quartier generale imperiale poteva dubitare che gli aerei imbarcati sulle portaerei avrebbero avuto il tempo di effettuare il bombardamento di Midway, ritornare, ed essere riarmati in tempo, prima che le portaerei americane uscissero da Pearl Harbour e si portassero a distanza offensiva utile. E quando questi dubbi vennero effettivamente sollevati, apparvero contestazioni scolastiche, e come tali vennero accantonate.

Gli americani avevano, però, crackato quanto bastava del codice della marina giapponese JN25 per conoscere a sufficienza le intenzioni degli avversari e la flotta americana era uscita da Pearl Harbour a fine maggio 1942 come quella giapponese e stava andandole incontro.

La “Rengo Kantai” era suddivisa in tre elementi operativi: il primo era diretto a Nord per effettuare una manovra diversiva tesa ad occupare capisaldi nelle isole Aleutine, il secondo, costituito dalle portaerei di Nagumo, e il terzo, con le navi da battaglia e le forze da sbarco di Yamamoto, avrebbero effettuato l’assalto a Midway. Una vittoria così certa che fu richiesto al servizio postale di inviare da metà giugno a Midway la posta diretta alle unità di occupazione dell’isola.

Ma l’intelligence giapponese non era così efficiente come i postini imperiali, né, tanto meno, dei servizi segreti americani. Una prevista ricognizione aerea di idrovolanti su Pearl Harbour, che avrebbe potuto stabilire la presenza – o l’assenza – della flotta americana, fu annullata perché il sottomarino che avrebbe dovuto rifornirli a metà strada, trovò il punto di incontro occupato da unità americane: nessuno, però, si curò di informare Yamamoto di questa preoccupante circostanza. D’altra parte lo stesso Yamamoto non ritenne opportuno verificare se Nagumo fosse a conoscenza dell’anomala quantità di messaggi “urgenti” che partivano da Pearl Harbour: che importanza poteva avere il fatto che gli impianti ricettivi di Nagumo fossero obsoleti e di fatto incapaci di intercettare alcunché? Nagumo proseguì nell’esecuzione del piano secondo gli ordini, nonostante fosse ormai assodato che la “sorpresa” era fallita: per tutti tranne che lui, che, per colmo di sfortuna, si accorse dell’arrivo della flotta statuntense con irrimediabile ritardo a causa di un ricognitore partito mezz’ora dopo il tempo programmato.

Così, il 4 giugno, primo giorno della battaglia, gli aerei di Nagumo, ritornati dal bombardamento di Midway, furono sorpresi dagli americani quando erano inermi sul ponte in fase di rifornimento e carbonizzati in un unico grande rogo con le portaerei e soprattutto i loro esperti e insostituibili piloti.

Nell’arco di 48 ore, 4 portaerei giapponesi colarono a picco, contro una americana, la Yorktown: una beffa aggiuntiva, perché i giapponesi credevano di averla già messa fuori combattimento, mentre invece i marinai americani dopo il primo attacco l’avevano riattata, dando l’illusione ai giapponesi di aver affondato due portaerei anziché una sola.