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LA VITTORIA CHE PORTO' ALLA SCONFITTA

Pearl Harbour

nicola zotti

 

Tra il 7 dicembre 1941 e il 9 settembre 1945 nelle acque dell’Oceano Pacifico si scontrarono due tra le organizzazioni militari più imponenti che la storia abbia conosciuto.

Due paesi, Giappone e Stati Uniti, investirono tutte le risorse esistenti e anche quelle inesistenti per assistere i propri apparati militari nello sforzo che dovevano compiere per prevalere l’uno sull’altro.

Leadership autorevoli ed esperte, a capo di mastodontiche ed efficienti burocrazie militari, uffici di pianificazione strategica nei quali si concentravano menti di prim’ordine: la guerra della civiltà delle macchine al suo zenith.

Eppure nonostante questo – o forse proprio in virtù di questo – la Seconda guerra mondiale nell’Oceano Pacifico fu decisa da una lunga sequenza di eventi “accidentali”, disseminati sul percorso di alcuni suoi appuntamenti chiave: a cominciare proprio dal suo esordio, l’attacco a Pearl Harbour. Granelli di sabbia che forse sarebbero stati stritolati da un meccanismo semplice, ma ne incepparono inesorabilmente uno altamente complesso.

Il divario tra i due sistemi industriali era incolmabile: la politica imperial-coloniale giapponese lo aveva reso meno abissale, in particolare per l’accesso alle materie prime e alle fonti energetiche coreane e soprattutto cinesi, ma aveva anche inesorabilmente condotto il paese verso la guerra. Una guerra che avrebbe anche consentito di ampliare ulteriormente questi possedimenti, fino al petrolio delle Indie olandesi e oltre, e che sarebbe dovuta servire a renderli definitivi.

Tuttavia nell’immediato e per molti anni ancora, l’industria americana, il suo esercito di operai e di tecnici, rappresentava per i giapponesi il vero nemico da battere.

In questo contesto, l’attacco di sorpresa a Pearl Harbour era l’unica soluzione strategicamente praticabile: si doveva colpire la flotta statunitense tanto duramente da impedire che potesse essere ricostruita entro i ristretti tempi dettati dalle esigenze della guerra, sfruttando al massimo il vantaggio che il Giappone godeva al momento in termini di qualità, se non di quantità, di uomini e mezzi.

Per salvare la faccia, i delegati giapponesi a Washington dovevano consegnare al governo americano un messaggio nel quale si constatava l’impossibilità di proseguire le trattative per la risoluzione delle questioni diplomatiche, con qualche anticipo rispetto all’ora alla quale sarebbe stata sganciata la prima bomba. Non era una dichiarazione formale di guerra, ma un semplice preavviso: i giapponesi la consegnarono solo 10 ore dopo aver conosciuto l’esito dell’attacco a Pearl Harbour. Anche quel messaggio arrivò però in ritardo, per la lentezza degli incaricati alla traduzione del codice. Più lesti nella decodificazione furono gli americani, che conoscevano il suo contenuto ore prima degli stessi giapponesi.

I tentativi di mettere in guardia i comandi delle Hawaii dell’imminente attacco però fallirono per l’inadeguatezza del sistema di comunicazione dell’esercito statunitense: alla fine fu un postino nippo-americano in bicicletta ad avvisarli con  telegramma, ma l’ultimo aereo giapponese se ne era già andato da alcune ore.

L’impreparazione americana favorì il successo dell’attacco a Pearl Harbour, ma il caso e una decisione da parte del comando giapponese, impedirono che il suo effetto fosse quello di rendere plausibile almeno una possibilità di vittoria finale.

Come è noto, nel porto di Pearl Harbour mancavano tre bersagli: le portaerei Lexington, Enterprise e Saratoga. Al di là di tutte le dietrologie, quest’ultima era negli Stati Uniti per riparazioni, mentre le prime due erano in mare, addirittura ad occidente delle Hawaii. La prima navigava in direzione di Midway, quindi incontro alla flotta imperiale giapponese, la seconda era in viaggio di ritorno verso Pearl Harbour e a causa di una tempesta non riuscì ad essere in porto in tempo per farsi distruggere.

L’ammiraglio Isoroku Yamamoto, comandante in capo della flotta combinata giapponese, considerò particolarmente grave questa circostanza, come giudicò infelice la decisione del viceammiraglio Chuichi Nagumo, responsabile della “kido butai”, la Prima flotta aerea imperiale che condusse materialmente l’attaco a Pearl Harbour, di rinunciare alla prevista terza ondata di bombardamenti. Naguno considerò già eccellenti i risultati fino ad allora conseguiti e, visto che l’antiaerea americana stava aggiustando il tiro, concluse che il rischio non valeva la candela e annullò l’attacco. Avrebbe dovuto essere diretto contro il naviglio minore e le installazioni della base e, se portato a buon fine, avrebbe reso Pearl Harbour un inutilizzabile cumulo di macerie, privando, oltretutto, le sopravvissute portaerei del necessario supporto logistico.

Nell’ammiragliato giapponese si scontravano due concezioni opposte della guerra marittima: Nagumo era rimasto legato alla più antiquata, che misurava le flotte in termini di navi da battaglia e di cannoni di grosso calibro, mentre Yamamoto apprezzava l’importanza crescente che stava assumendo il potere aereo sul controllo dei mari.

Il conto delle perdite americane – quattro corazzate affondate e 4 danneggiate – non sembrava lasciare spazio a repliche: ma erano le portaerei scampate che avrebbero fatto la differenza.