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Mozzare mani, cavare occhi


nicola zotti



Sono trascorsi 42 anni dal 1975, anno in cui la Guerra del Vietnam poteva dirsi ufficialmente conclusa con la vittoria della Repubblica popolare del Vietnam e la riunificazione del paese. Sembra un evento lontano nel tempo appartenente ad un'altra epoca, e tuttavia ci è familiare per i numerosi film – alcuni dei quali veri e propri capolavori – che ne hanno raccontato le vicende, enfatizzandone gli aspetti umani, psicologici e personali di chi ne fu coinvolto, come è naturale che sia in una rappresentazione cinematografica. La Guerra del Vietnam, però, ha una storia molto più ampia di quella che può essere racchiusa nelle due ore di un film: il Vietnam fu ininterrottamente in guerra dall'occupazione Giapponese delle colonie dell'Indocina francese durante la Seconda guerra mondiale fino a dopo la riunificazione, quando il Vietnam dopo aver invaso la Cambogia, nel 1979 si scontrò contro la Cina, precedentemente sua alleata.Nel 1980 il presidente americano Ronald Reagan denunciava la necessità da parte del suo paese di combattere la "sindrome del Vietnam". Dieci anni dopo un altro presidente, George Bush, poteva dichiarare che questa "sindrome" era stata finalmente debellata. Con l'operazione Desert Storm (17 gennaio – 28 febbraio 1991) una coalizione a guida statunitense aveva appena liberato il Kuwait, occupato mesi prima dall'Iraq di Saddam Hussein, ponendo fine alla Guerra del Golfo.

Che cosa fosse questa "malattia" e perché dovesse essere un obiettivo primario per gli Stati Uniti una completa "guarigione", lo spiegò lo stesso Ronald Reagan: gli americani potranno essere nuovamente "costretti a combattere" e se questo accadrà «dobbiamo avere i mezzi e la determinazione di prevalere, o non avremo ciò che serve ad assicurare la pace. [...] Mai più chiederemo ai giovani americani di combattere e rischiare di morire in una guerra che il nostro governo ha paura di lasciargli vincere».
Nonostante la determinazione di Reagan e l'ottimismo di Bush, però, di "sindrome del Vietnam" si risentirà parlare anche negli anni successivi e fino ai giorni nostri, segno che questo evento ha lasciato tracce molto solide nel nostro mondo.

Di più: non si può interpretare la nostra contemporaneità senza comprendere la Guerra del Vietnam e ciò che ha rappresentato non solo per gli Stati Uniti e per il Vietnam, che furono i paesi più direttamente coinvolti, ma per il mondo intero.
Un'osservazione superficiale e schematica di questa guerra potrebbe essere fuorviante: è stata un episodio della Guerra Fredda e ormai quell'epoca sembra ed è lontana nel tempo, ancor più remota di quell'angolo del sud est asiatico che ne fu il teatro. E se lasciano ancora impietriti le stime dei morti che variano complessivamente tra un milione e mezzo e tre milioni e mezzo, dei quali 58.318 americani, le due Guerre mondiali del Novecento con i loro morti che si contano a decine di milioni sembrano pesare enormemente di più nel freddo bilancio della Storia, per non parlare del genocidio perpetrato dai Khmer Rossi cambogiani contro il loro stesso popolo, che ha provocato lo stesso numero di morti del Vietnam ma su una popolazione nettamente inferiore.

Perché allora la guerra del Vietnam è così importante?
Per quanto cinico ci possa apparire, la rilevanza storica di un conflitto non si misura solo in termini di numero di vittime e nemmeno rispetto alla sua collocazione geografica più o meno periferica, ma sulla base di una valutazione dell'influenza che esso ha esercitato e su come ha plasmato il mondo. Usando questo metro di misura, il conflitto in Vietnam è stato sicuramente tra i più importanti eventi della seconda metà del XX secolo.

La guerra ha avuto luogo durante i turbolenti anni Sessanta e ha strettamente intrecciato il suo corso con i tellurici sommovimenti culturali e sociali che li caratterizzarono.

La miscela incendiaria costituita dal Vietnam, dalla controcultura e dal movimento per i diritti civili causò un'aspra crisi del corpo politico americano, con ripercussioni altrettanto acute nel resto del mondo, a partire dalle democrazie occidentali.
Nel 1968, con un'ondata di proteste seguite da violenti disordini e con gli assassinii di personalità del calibro di Robert Kennedy e Martin Luther King, la tensione sociale crebbe a livelli così alti che molti osservatori si convinsero gli Stati Uniti fossero ormai sull'orlo di una seconda rivoluzione americana. Gli scarsi risultati dell'impegno militare americano in Vietnam avevano provocato un mutamento dell'opinione popolare sulla guerra e già nel 1967, a soli due anni dall'arrivo di truppe combattenti statunitensi, i cittadini americani contrari alla loro permanenza avevano superato i favorevoli.

Gli Stati Uniti iniziarono un lento e difficile disimpegno da una guerra che si sentiva di non poter più vincere.
Negli anni trascorsi dalla fine del coinvolgimento americano nella guerra del Vietnam è apparso chiaro che il conflitto ha rappresentato uno spartiacque nella storia mondiale, con effetti come i campi di morte della Cambogia e la pulizia etnica dei tribù Hmong in Laos, gli sconvolgimenti sociali e politici in Europa, la crisi economica degli anni Settanta, e molto altro ancora.
La Guerra del Vietnam è stata di grande importanza anche in senso geopolitico, come momento tra i più critici della Guerra Fredda. Dalla conclusione della Seconda guerra mondiale, i paesi dell'Alleanza Atlantica e i paesi del Blocco sovietico si scontrarono in ostilità diplomatiche e ideologiche, evitando però che sfociassero in una guerra aperta.

Gli Stati Uniti non volevano uno confronto diretto con le nazioni del blocco comunista, per il rischio di un'escalation verso la guerra nucleare, ma erano intenzionati comunque opporsi alla sua espansione: si temeva che il successo della rivoluzione in un singolo paese, e il suo concomitante ingresso nell'orbita comunista, potesse provocare un concatenarsi di altre rivoluzioni e defezioni, come quando una tessera del domino cadendo ne fa cadere in fila molte altre. Nel Sudest asiatico il Vietnam sembrò essere proprio questa prima tessera, e qui dunque si concentrò l'impegno americano, inizialmente appoggiando i francesi nella loro antica colonia e quindi con un impegno diretto. Si vedrà poi però, che la riunificazione del Vietnam e la sua adesione al blocco sovietico non portò le conseguenze temute: durante gli anni dell'intervento americano le nazioni asiatiche alleate degli Stati Uniti si erano rafforzate, respingendo le pulsioni rivoluzionarie.
Paese leader del campo occidentale, gli Stati Uniti decisero comunque allora di contrastare la minaccia percepita della diffusione del comunismo in tutto il mondo facendo affidamento sul sistema del contenimento: il contrasto all'espansionismo comunista poteva essere attivo e contemplare l'uso della forza armata, ma in ogni caso si doveva evitare un coinvolgimento diretto delle superpotenze e con esso il pericolo di un'escalation verso la guerra nucleare globale.
Ma se si voleva evitare questo rischio catastrofico si dovevano imporre dei limiti all'uso della forza stessa, confini precisi che rendessero esplicita agli avversari, Unione Sovietica e Cina, la volontà americana di non provocarli, di non costringerli a intervenire in prima persona in un conflitto. Negli anni Sessanta il Vietnam divenne il principale esempio della politica americana della guerra limitata. Era una guerra che gli Stati Uniti si sentivano obbligati a combattere per contenere l'espansione del comunismo, e i generali americani erano sicuri di vincerla anche con una mano legata dietro la schiena.
Addestrati alle battaglie che avrebbero potuto svolgersi nelle pianure dell'Europa occidentale, i militari americani, con le loro armi di altissima tecnologia, si trovarono però coinvolti in una guerra contro guerriglieri del Terzo mondo. L'esercito statunitense, sconcertato dalle tattiche nemiche, rispose sostanzialmente in modo convenzionale, nella convinzione che la propria enorme potenza di fuoco potesse comunque piegare la volontà del nemico.
L'aviazione fece ricorso ai bombardamenti più pesanti nella storia militare, i soldati vinsero sul terreno ogni battaglia, ma era solo un'illusione, e la vittoria rimase un miraggio. Quei bombardamenti non distruggevano abbastanza, quelle vittorie in battaglia non avrebbero mai potuto lasciare abbastanza nemici morti sul terreno. I limiti che gli americani si erano posti erano troppo stringenti: forse erano necessari per evitare la guerra nucleare, ma così asfissianti da troncare in partenza ogni possibilità di reale vittoria tattica.

La Guerra del Vietnam era tante cose tutte assieme: era certamente un episodio della Guerra Fredda, ma era contemporaneamente una guerra di riunificazione nazionale, un'insurrezione armata, una rivoluzione sociale, la coda di una guerra coloniale iniziata molti anni prima.

I primi nemici da sconfiggere non erano i soldati nordvietnamiti o i Viet Cong, ma l'instabilità politica, la corruzione, l'inefficienza dei governanti sudvietnamiti, la miseria dei contadini. Con strategie diverse la guerra non si sarebbe mai potuta vincere, e i cittadini americani se ne accorsero prima dei media e soprattutto dei loro leader politici, iniziando a diffidare delle ripetute dichiarazioni di un'imminente vittoria, delle insistite assicurazioni che tutto andava per il meglio e che bastava solo attendere ancora un po' e inviare altri soldati, altre armi, spendere altri soldi.
Così gli americani e con loro tutti i popoli delle nazioni occidentali scoprirono che le democrazie potevano essere coinvolte in guerre moralmente molto più controverse rispetto alle nette contrapposizioni della Seconda guerra mondiale, che potevano sbagliare, nascondere la verità ai propri cittadini e anche commettere atrocità: una perdita dell'innocenza che è forse la conseguenza più importante della Guerra del Vietnam.

Il fatto che un parlamento democraticamente eletto dal popolo decidesse di impegnare le proprie Forze Armate in un conflitto non conferiva ad esso legittimità illimitata e tanto meno garantiva un incondizionato sostegno popolare. I militari compresero la lezione applicandola durante la Guerra del Golfo, permettendo al presidente Bush di rilasciare la sua trionfale dichiarazione sulla fine della "Sindrome del Vietnam": una generazione di alti ufficiali, veterani della Guerra del Vietnam come i generali Colin Powell e Norman Schwarzkopf, si era assicurata un chiaro obiettivo condiviso dai partecipanti di una coalizione molto ampia, accumulato grandi forze militari e con esse condotto una guerra breve e intensa, ritirandosi immediatamente dopo aver conseguito la vittoria e disarmato il nemico. Un ampio consenso politico internazionale e interno, un mandato e obiettivi altrettanto precisi, delimitati e chiari, la ferma volontà di non lasciarsi invischiare nella velenosa palude di una guerra senza fine, la convinzione che una vittoria militare non si ottiene senza una vittoria politica: tutte caratteristiche che alla guerra del Vietnam erano mancate.

Ma le lezioni come si imparano si possono anche applicare solo parzialmente, oppure male o persino dimenticarle, e gli avvenimenti dei giorni nostri lasciano qualche ragionevole dubbio che questo sia in effetti avvenuto: la sindrome del Vietnam è ancora presente nella società americana e in tutte le società democratiche forse perché non può essere debellata, ma anzi fa ormai parte integrante della loro natura più profonda.

La domanda su chi ha vinto e su chi ha perso la Guerra del Vietnam, e a maggior ragione sulle cause della vittoria e della sconfitta non possono avere risposte semplici. L'elenco degli sconfitti potrebbe essere molto lungo, perché vi sono buone ragioni per inserirvi tutti gli attori che in vari ruoli vi parteciparono e, a ben vedere, anche quelli che non vi parteciparono. Nel dopoguerra il Vietnam, ora unificato con un'unica bandiera e un unico governo, scontò pesantemente non tanto e non solo il costo della guerra ma soprattutto il piano quinquennale in stile sovietico che costrinse la popolazione del nuovo stato a privazioni ancora peggiori di quelle che avevano subito negli anni precedenti. Tra catastrofica incompetenza e corruzione galoppante, il Vietnam rimase per decenni uno dei paesi più poveri del Terzo Mondo, letteralmente alla fame, e ancora oggi è ben lontano dalla prosperità. Il regime comunista poteva vantarsi di aver fatto scappare la più grande potenza mondiale, ma il popolo verificò sulla propria pelle che la loro voglia di guerra non si era esaurita: il Vietnam invase la Cambogia filocinese e un altro conflitto scoppiò al confine con la Cina stessa, alleato tradito (e dunque da inserire nella lista degli sconfitti) nonostante gli aiuti ricevuti. Non ci fu nemmeno il tentativo di una riconciliazione nazionale: i morti cancellati passando con i bulldozer sulle loro tombe, i vivi costretti nella migliore delle ipotesi ai campi di rieducazione, nella peggiore torturati e uccisi.

Sconfitti dunque anche i vietnamiti che avevano creduto al sogno rivoluzionario, ma più di ogni altro le centinaia di migliaia di "boat people" che morirono in mare cercando di fuggire dal paese, seguiti dai 700.000 che riuscirono ad approdare vivi in Tailandia o in Malesia, sopravvivendovi per anni, indesiderati ospiti, prima di ottenere un visto per gli Stati Uniti (in maggioranza, oltre un milione), Canada, Australia e Francia e ricominciare un'esistenza degna di questo nome. Sconfitta l'intera Indocina con i campi di morte dei Khmer Rossi dove si compì il genocidio di un popolo. In tutta l'Indocina almeno 3 milioni di persone fuggirono in altri paesi e la crisi si chiuse solo nel 2008, quando gli ultimi 200 rifugiati nelle Filippine furono trasferiti in Canada, Norvegia e Stati Uniti.

Sconfitta l'Unione Sovietica? Meno di altri, forse, ma non vittoriosa: in Africa Angola, Mozambico ed Etiopia seguirono l'esempio del Vietnam, ed entrarono nel blocco sovietico, ma non fu né sufficiente né funzionale a garantire la sua sopravvivenza di fronte alle pressioni della storia, scomparendo nel 1989, assieme al muro di Berlino, dopo nemmeno 15 anni dalla fine della Guerra del Vietnam. Per non parlare, poi, del poco o nulla che l'Unione Sovietica aveva imparato dagli errori americani in Vietnam, andando ad invadere l'Afghanistan per sostenere un governo amico installatosi con un colpo di stato, e rimanendovi per più di 9 anni, dal dicembre del 1979 al febbraio del 1989, lasciandovi 15.000 morti.

Sconfitto anche il Mondo intero, per il dollaro che si indeboliva a causa dell'alto deficit americano e l'inflazione che cresceva, propagando e moltiplicando gli effetti negativi della crisi petrolifera del 1973. Questa fu causata dal sostegno dato dagli Stati Uniti a Israele nella Guerra dello Yom Kippur, ma una nazione che aveva già abbandonato un suo alleato, se minacciata con la giusta forza forse poteva abbandonarne anche altri, e il mondo arabo lo ritenne possibile.

Sconfitti anche gli Stati Uniti, pur senza mai aver perso una battaglia: e forse a ben vedere proprio per questo motivo. Dal punto di vista strategico, infatti, l'unica idea chiara nella varie amministrazioni che si succedettero da Truman a Nixon era la dottrina del contenimento e l'associata teoria del domino. Da questo punto di vista gli americani erano, paradossalmente, vincitori: niente era successo, nessuna tessera del domino era caduta. Gli anni di guerra avevano permesso agli alleati americani nel sud est asiatico di consolidare la propria società e la propria economia, di darsi un'ossatura politica capace di resistere alle ventate rivoluzionarie o al canto delle sirene della Guerra Fredda. Era l'obiettivo di fondo ed era stato conseguito. Qualcuno, uno su tutti l'ammiraglio Zumwalt, lo rivendicò anche, ma in realtà non era un argomento che ottenne una grande popolarità.

Non che l'America avesse la voglia di dimenticare il Vietnam: non ne aveva avuto un'idea ben chiara durante gli anni della guerra, immaginiamoci ora che questa era finita. Proprio non sapeva che pensare di se stessa, quale immagine di sé apparisse specchiandosi negli anni dell'impegno in Vietnam.

La Guerra del Vietnam non aveva percorso i binari di tutte le altre: non aveva avuto un vero e proprio inizio e dunque non si poteva nemmeno dire quando fosse effettivamente finita, e tra questi due estremi inesistenti le battaglie si erano susseguite senza una logica comprensibile. I leader militari americani ne trassero due conclusioni apparentemente opposte: in primo luogo se gli Stati Uniti avessero dovuto affrontare un'altra guerra, questa avrebbe dovuto essere breve, intensa e seguita da un immediato ritiro delle truppe, e non ad escalation graduale come era stata quella in Vietnam. Tanto meno ci sarebbero dovuti essere lacci e laccioli politici a condizionare le scelte tecniche dei militari. In secondo luogo, però, questa eventuale futura guerra avrebbe dovuto contare sull'incondizionato supporto della popolazione, perché nessuna futura generazione di soldati avrebbe accettato di combattere senza un fronte interno unito, almeno per il tempo necessario a vincere. Ma era possibile trovare un nuovo Hitler contro il quale la nazione si trovasse riunita a combattere? O forse la retorica dei politici durante il Vietnam (e qualche loro menzogna), e la cacofonia di giornalisti non sempre competenti ma molto spesso abbarbicati ad idee preconcette (con altro corredo di menzogne), avevano reso definitiva e non più ricomponibile la frattura di credibilità? Altre guerre sono seguite dopo quella del Vietnam, ma questo problema si è sempre ripresentato con la stessa forza.