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IL PREVALERE DELLA POLITICA SULL'ECONOMIA

La guerra della Rivoluzione americana


Nicola Zotti


Nel 1842 Mellen Chamberlain, che in seguito sarebbe diventato uno dei più importanti storici delle cause della Rivoluzione americana, intervistò alcuni dei pochi veterani di quella guerra. Tra loro il capitano Preston, novantunenne, che aveva partecipato all'azione del ponte di Concord.

Le sue risposte alle domande di Chamberlain sono la migliore sintesi di questo mio scritto, per cui siete autorizzati a leggere solo questa premessa:

Avete preso le armi contro intollerabili oppressioni?

Oppressioni? Mai provate.

Non vi sentivate oppressi dalla tassa di bollo?

Non ho mai visto uno di quei bolli e certamente non avrei pagato un penny per uno di quelli.

E che mi dice della tassa sul te?

Non ho mai bevuto una goccia di quella roba. Comunque i ragazzi l'hanno buttata a mare.

Suppongo comunque che abbia letto Harington, Sidney e Locke sugli eterni principi della libertà?

Mai sentiti. Noi leggevamo solo la Bibbia, il Catechismo, i Salmi di Watts e gli Inni, e l'almanacco.

Ma allora qual era il problema? E per quale motivo siete andati a combattere?

Giovanotto, il motivo per cui siamo andati contro le Giubbe Rosse era questo: ci eravamo sempre governati da soli e volevamo continuare a farlo. Loro non pensavano che dovessimo.

La straordinaria epopea che condusse all’indipendenza degli Stati Uniti d’America ebbe origine in un conflitto molto più ampio: la Guerra dei Sette Anni (1756-63). Fu, questo, il primo conflitto globale, una specie di anteprima della Prima guerra mondiale. Dal teatro europeo l’incendio contagiò l’Africa, l’Asia, le Americhe. In realtà, nell’America del Nord, Francia e Gran Bretagna si combattevano già dal 1754 in un’annosa lotta per la supremazia coloniale.

La Francia risultò sconfitta e la Gran Bretagna ne ereditò i domini: un’enorme striscia di terra tra le 13 colonie britanniche e il fiume Mississippi, che lambiva a Nord i ghiacci del circolo polare artico e scendeva a Sud fino al Golfo del Messico.


Rivoluzione americana

 

L’economia britannica, tuttavia, non trasse benefici dalla nuova conquista. L’altissimo costo della guerra aveva enormemente appesantito il debito sovrano e le inesplorate e selvagge praterie americane non producevano reddito, ma per il momento solo altre spese.

La Gran Bretagna aveva infatti l’impellente necessità di una radicalee costosa ristrutturazione amministrativa, organizzativa e militare di quella porzione del proprio impero. Nuove tribù indigene da controllare, 80.000 cittadini Franco-canadesi da assimilare, un bilancio coloniale che si era quintuplicato, passando da 70.000 a 350.000 sterline dal 1748 al 1763, richiedevano misure drastiche. Quelle militari, in particolare, prevedevano il permanente insediamento di almeno 10.000 soldati in un diffuso sistema di guarnigioni a protezione dei Coloni.

Un atto di attenzione verso la loro sicurezza che i coloni americani, però, non apprezzarono assolutamente. La Gran Bretagna aveva concesso grande autonomia alle Colonie fin dalla loro fondazione. Priva di una vera e propria politica coloniale, si era limitata ad applicare i dettami dell’economia mercantilistica, secondo i quali ogni commercio coloniale doveva transitare per la madrepatria e su vascelli nazionali. Il peso fiscale sui coloni non raggiungeva l’1%.

In un’economia come quella americana, dove 9 cittadini su 10 erano contadini praticamente autosufficienti, non solo si potevano facilmente evadere le tasse, ma era soprattutto difficile imporle ed esigerle

Il parlamento di Londra era a questo punto deciso a esercitare maggiore autorità sulle Colonie, riducendone gli ampi margini di autogoverno, e voleva contemporaneamente trovare un impiego ai 1500 aristocratici e influenti ufficiali britannici che, dopo la fine della Guerra dei Sette Anni, erano rimasti disoccupati. Si risolse quindi a procedere con inedita fermezza: una parte delle spese, in effetti abbastanza ridotta, doveva essere coperta con nuove imposizioni, mentre servitù militari avrebbero agevolato il transito e l'acquartieramento delle truppe.

Le proteste dei coloni furono immediate. Erano uomini in maggioranza dediti alla sola cura dei propri campi e senza letture alle spalle, a parte la Bibbia. Tranne i pochissimi che partecipavano ai fermenti illuministici coltivando idee repubblicane e liberali, gli altri sapevano per certo solo di essersi sempre governati da soli e di voler continuare a farlo.

Contestavano non tanto le imposte, quanto l’utilità stessa delle guarnigioni, soprattutto dopo l’allontanamento dei Francesi dal continente, e proponevano di utilizzare per i nuovi presidi le milizie locali, di scarsa reputazione bellica ma comunque all’altezza del compito, già finanziate dalle legislature locali.

Entrambe le questioni, comunque, toccavano corde sensibili per un cittadino britannico, come si consideravano ancora i coloni, indipendentemente dai loro sentimenti più o meno lealisti. Da secoli i sudditi di Sua Maestà britannica vantavano diritti tradizionali, tra i quali proprio quello di non poter essere tassati se non per decisione di propri rappresentanti e di venire adeguatamente consultati per ogni servitù militare.

Per quanto vago potesse essere all’epoca il concetto di “rappresentanza” (solo 1 cittadino britannico su 20 aveva diritto di voto), di fatto nessun parlamentare era eletto nelle 13 Colonie, il che rappresentava una contraddizione impossibile da risolvere.

Particolarmente controversa era poi la funzione dei presidi militari. Re Giorgio III, per consolidare i territori acquisiti, aveva garantito alle tribù native che ogni futuro acquisto di terre nella “Riserva indiana” sarebbe stato condotto consensualmente da ufficiali reali. La (fondata) convinzione dei coloni che quei presidi servissero a frenare, anche solo momentaneamente, la loro corsa verso il “West” li esacerbò ulteriormente.

Il decennio 1763-1773 fu un’escalation di nuove imposizioni e reazioni sempre più vivaci da parte dei coloni.

Una tassa sulle importazioni di zucchero, forti limitazioni alle emissioni di moneta cartacea, l’obbligo di sostenere le spese per l’acquartieramento delle truppe, un’imposta di bollo sulla carta stampata, ribadite dalla riaffermazione ufficiale da parte del Parlamento del diritto di poter legiferare per conto delle colonie senza alcuna limitazione.

Convinti delle proprie ragioni, gli Americani intrapresero la strada della protesta civile e non solo quella. Iniziarono un sistematico boicottaggio dei prodotti britannici e inviarono petizioni al re affinché li difendesse dagli abusi del Parlamento, ma al contempo i più accesi si accanirono contro chi vendeva i detestati bolli sulla carta stampata, i funzionari governativi e i collaborazionisti, alcuni dei quali subirono violente ritorsioni come l’umiliazione di essere coperti di pece e piume: il malcapitato veniva spogliato, cosparso di pece di pino e ricoperto di piume, quindi esibito per le strade cittadine a cavallo di un palo. La parte più dolorosa consisteva nel ripulirsi dell’appiccicosa mistura.

Per parte sua l’esercito britannico, responsabile del rispetto delle leggi, era quotidianamente impegnato a fronteggiare facinorosi e quindi esposto agli eccessi repressivi, che culminarono nel “massacro di Boston” del 5 marzo 1770, quando i fanti inglesi causarono 5 morti sparando su una folla di contestatori.

Il crescente livello di violenza aprì un solco tra gli stessi Americani, che si divisero sempre più nettamente tra lealisti filomonarchici e indipendentisti repubblicani: le parti, arroccate su questioni di principio, non intendevano cedere.

Una divisione veramente verticale. Le tribù native avevano reagito violentemente al passaggio alla sovranità britannica. I Francesi erano considerati degli alleati dalle tribù locali, mentre i Britannici se le inimicarono presentandosi come i nuovi padroni. Dal 1763 al 1766 li combatterono nella “guerra di Pontiac”, dal nome di uno dei loro leader, il capo degli Ottawa.

La ferocia della guerra aveva però convinto re Giorgio III a fissare il citato confine costellato da guarnigioni tra le 13 Colonie e la Riserva Indiana: decisione che come abbiamo visto fu una delle cause dell’insurrezione coloniale, ma anche motivo dell’adesione alla causa lealista di molte tribù. Con gli Americani si schierarono l'associazione Watauga, i Catawbae e i Lenap; con i Britannici Cherokee, Creek, Seminole, Chickasaws e Choctaws. Il vero sconvolgimento fu però provocato nelle 6 nazioni della confederazione Iroquese: Tuscarora e Oneida si schierarono con le Colonie, mentre Onondaga, Mohawk, Seneca e Cayuga rimasero fedeli ai Britannici. Il "Colonnello" Joseph Louis Cook fu il più famoso capo di guerra: un sangue misto afro-francese che guidò gli Oneida al fianco degli Americani.

La Rivoluzione americana divise anche agli afroamericani, liberi o schiavi che fossero: i primi in maggioranza vicini ai coloni, come Crispus Attucks, prima vittima del massacro di Boston, i secondi ai Britannici, che si pensava fossero intenzionati ad abolire la schiavitù. La concessione della libertà, promessa anche dalle Colonie settentrionali, provocò un esodo di massa dalle piantagioni del Sud, e una profonda crisi di manodopera che ebbe pesanti conseguenze nel dopoguerra, quando un intenso mercato interno degli schiavi provocò sconvolgimenti sociali e demografici. Molti degli Afroamericani filobritannici dopo la guerra scapparono in Canada e da qui seguirono strade diverse: alcuni rimasero in America, altri si trasferirono in Inghilterra e un'ultima quota ritornò in Africa, stanziandosi in Sierra Leone.

Alla prima ondata di provvedimenti fiscali seguirono tasse sulla carta, sul vetro e sul te, quest’ultima famosa per l’impresa del “Boston Tea Party”: il gruppo di coloni, alcuni dei quali travestiti da indiani, che il 16 dicembre 1773 reagì all’imposta scaraventando nelle acque del porto di Boston un carico di te della compagnia delle Indie. La risposta britannica fu una serie di misure coercitive, tra le quali il blocco del porto fino al pagamento dei danni, che per altro non fu mai effettuato perché gli eventi erano ormai destinati a precipitare verso la guerra.

Nel 1774 il primo Congresso continentale convocato a Filadelfia, in Pennsylvania, tentò la carta di un’ultima petizione al re, autoconvocandosi in un successivo secondo Congresso per discutere la risposta. In realtà ormai ogni stato si stava già preparando alla guerra armando e addestrando milizie e il primo scontro armato anticipò la decisione del re. Il 19 aprile 1775, a Concord, venne esploso, secondo le parole del poeta americano Ralph Waldo Emerson, il “colpo udito in tutto il mondo”: primo proiettile di una guerra destinata a segnare di sé la modernità. Una sfida all’assolutismo raccolta da re Giorgio III che, rinunciando al ruolo di paterna mediazione auspicato da molti moderati di qua e di là dell’Atlantico, si fece interprete del volto più truce e rigido del partito lealista, dichiarando che le Colonie erano in ribellione e che i sediziosi non meritavano altra risposta che la forza.

L’Esercito Continentale, come vennero chiamate le neo costituite Forze armate americane, poste al comando del virginiano George Washington, presero immediatamente l’iniziativa, attaccando i presidi nemici e obbligando, nella Primavera del 1776, tutte le truppe britanniche a ritirarsi nella base navale di Halifax in Nuova Scozia. Era il successo che i ribelli aspettavano per pronunciare, il 4 luglio, durante i lavori del secondo Congresso continentale, la propria dichiarazione di Indipendenza.

«Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità»: questa è la famosissima seconda frase della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, la chiave interpretativa, secondo Abramo Lincoln, di tutta la costituzione americana e del ruolo nel mondo degli americani come nazione.

Questa asserzione, inserita in tempo di guerra in un documento come una dichiarazione di indipendenza, non si riferiva evidentemente a un contesto privato e personale, ma vincolava la stessa funzione di governo non solo alla tutela ma alla promozione di quelle “verità evidenti”.

Le radici profonde di queste idee risalivano allo stoicismo di Seneca, alla Riforma protestante di Martin Lutero e al pensiero illuminista del filosofo John Locke: tuttavia agli estensori del documento, e in particolare al suo primo autore Thomas Jefferson, va dato atto di aver distillato questi precursori in una forma nuova e originale, che diede un impulso irresistibile alla Modernità.

L’attuazione di quei principi, nel 1948 ripresi dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, non sarebbe stata comunque né immediata né agevole, perché quelle parole, in apparenza così chiare, furono soggette alle più diverse interpretazioni e hanno ispirato i movimenti politici più inconciliabili.

La solerzia del Congresso dei neonati Stati Uniti d’America nel dichiarare la propria secessione, era più che opportuna: i Britannici stavano infatti lanciando una potente controffensiva, sbarcando a New York con 30 mila uomini al comando del generale William Howe, subito raggiunti dalla milizia cittadina che defezionò la causa indipendentista.

Dopo settimane di combattimenti, Washington fu costretto ad abbandonare la città, che divenne la principale base delle operazioni britanniche fino alla fine della guerra. Era un indubbio successo ma illuse i Britannici di poter vincere senza difficoltà. Per eccesso di sicurezza i Britannici si lanciarono in una complessa operazione a tenaglia lungo il fiume Hudson, intenzionati a dividere e imprigionare le forze nemiche. La prima offensiva, condotta da Nord dal generale Burgoyne si concluse invece con la sua resa il 17 ottobre 1777 a Saratoga, nello stato di New York. La seconda, partita dalla città di New York e mal coordinata con la precedente, fu contenuta da Washington e costretta a tornare sui suoi passi.

La vittoria di Saratoga rappresentò un punto di svolta nel conflitto. La Francia che fino a quel momento aveva aiutato segretamente la ribellione, uscì allo scoperto entrando nel conflitto, ansiosa di rivincita. A Parigi, Beniamino Franklin, rappresentante delle colonie ribelli presso la corte di Luigi XVI, aveva dimostrato sorprendenti doti diplomatiche e propagandistiche convincendo il re e il suo governo ad entrare in guerra fornendo agli Stati Uniti importanti contributi in uomini, navi e moneta sonante. La decisione francese fu seguita dall’adesione della Spagna, dell’Olanda e persino dal sultanato del Mysore in India.

La Gran Bretagna comprese di avere di fronte a sé un compito assai più duro del previsto: l’allargamento del conflitto non solo portava nuovi avversari sul teatro continentale, ma costringeva i Britannici a disperdere le proprie forze per contrastare i nuovi avversari nelle loro basi e nelle loro colonie. La Royal Navy, in particolare, sperimentò il radicale cambiamento della situazione trovandosi a fronteggiare non più solo contrabbandieri e pirati, ma intere flotte nazionali.

L’escalation della guerra e l’isolamento internazionale del proprio regno, tuttavia, non scoraggiarono affatto il re e il suo Governo, più che mai decisi a proseguire le ostilità fino alla revoca della dichiarazione di indipendenza.

La guerra divenne una specie di estenuante rompicapo per entrambi i contendenti. Le truppe del re, a prezzo di alti tributi di sangue, riuscivano quasi sempre a “liberare” città e province dall’Armata continentale. Tuttavia, appena abbandonavano una conquista per dirigersi verso altre zone, i ribelli invariabilmente ne tornavano in possesso cacciandone la guarnigione. Altrettanto delicati per i Britannici erano i rapporti con le popolazioni: la presenza di lealisti in ogni area delle Colonie impediva un uso indiscriminato della forza, per paura di innescare un sanguinoso volano di reciproche rappresaglie, un rischio che l’esercito del re non aveva conosciuto, ad esempio, in Irlanda e Scozia, dove la repressione era stata efficacemente spietata. Ad esacerbare i rapporti con gli Americani contribuirono comunque le decine di migliaia di Tedeschi arruolati dal re mediante contratti stipulati con i loro principi: la brutalità, i saccheggi e le distruzioni di cui si resero responsabili divennero leggendari anche per un’abile azione propagandistica dei ribelli.

Durante la guerra della Rivoluzione americana le operazioni di “Intelligence” ebbero un ruolo di fondamentale importanza. Un vero precursore in questo campo fu George Washington che allestì una ramificata rete di spie in ogni Colonia, attingendo informazioni vitali per l’esito della guerra e influenzando l'opinione pubblica locale con opere di controinformazione. Per i loro messaggi le spie americane utilizzavano uno speciale inchiostro simpatico, che reagiva solo a un segreto composto chimico.

A Washington si deve anche la creazione di un’organizzazione specificatamente dedicata al controspionaggio, istituita dopo un fallito attentato alla sua vita orchestrato dai Britannici.

Un altro protagonista della guerra di Intelligence fu Beniamino Franklin, che si dimostrò geniale anche in questa attività: per provocare la diserzione dei mercenari tedeschi diffuse una falsa lettera tra un loro non meglio precisato “principe” e il suo comandante in America dove si rivendicava un maggiore numero di morti tra i suoi soldati e quindi un più alto rimborso dai Britannici, mentre per sollevare lo sdegno della popolazione pubblicò un’edizione perfettamente credibile di un giornale dove si riportava che il governatore britannico del Canada pagava i suoi alleati indiani per ogni scalpo americano, anche di donne e bambini.

Gli Americani per parte loro furono irrimediabilmente angustiati dal rifornimento delle truppe, dal loro addestramento e soprattutto dal loro pagamento. Armi e munizioni non potevano essere prodotte a sufficienza in loco e dipendevano dalle importazioni via mare dai paesi alleati, subordinate alla spietata sorveglianza della Royal Navy.

In secondo luogo, gli Stati Uniti avevano iniziato una guerra senza una struttura militare e dovettero dotarsene a conflitto in corso. Le milizia cittadine, i cui uomini erano chiamati “Minutemen” perché dovevano rispondere alla chiamata alle armi “in un minuto”, erano troppo inaffidabili e inadatti ad una guerra di quella portata e, contrariamente alla convinzione che fossero delle specie di guerriglieri, vennero invece pazientemente trasformati in un esercito regolare e disciplinato.

Il problema di più difficile soluzione, però, fu il finanziamento delle spese di guerra: il Congresso ebbe le stesse difficoltà dei Britannici a riscuotere le tasse, che comunque da sole non sarebbero mai state sufficienti a finanziare le altissime spese del conflitto, data anche la penuria cronica di moneta circolante. Per pagare le truppe venne quindi stampata una grande quantità di moneta cartacea, i cosiddetti “Continentals”, con il risultato di provocare un’impennata dell’inflazione e il deprezzamento della moneta fino a un centesimo del suo valore iniziale. Una forma di tassazione indiretta.

Il coraggio costituì in molte occasioni la forza dell’esercito americano, troppo inferiore a quello britannico in altri aspetti bellici.

Gli episodi sono innumerevoli. Il generale Joseph Warren era un fervente indipendentista e, nell’imminenza della battaglia di Bunker Hill, il 17 giugno 1775, decise di combattere come soldato semplice. Si trovò così nel vivo dell’azione quando la difesa della ridotta centrale americana stava per cedere a un ennesimo assalto. Fu ucciso da un colpo di fucile mentre proteggeva la ritirata dei commilitoni e, riconosciuto dai nemici, il suo cadavere fu martoriato da innumerevoli, vendicative, baionettate.

Nella fase iniziale del conflitto una delle pochissime unità americane che poteva vantare un equipaggiamento completo, dalle baionette all’uniforme, era il 1º Reggimento del Delaware, 750 uomini che trovarono il proprio battesimo del fuoco durante la battaglia di Long Island, il 27 agosto 1776. Resistettero per ben 4 ore a ripetuti attacchi nemici condotti da forze molto superiori: era solo un’azione diversiva, ma i Britannici si intestardirono a piegare la resistenza dei Coloni, pagando un alto tributo di sangue: gli Americani avevano dimostrato di poter tenere testa alle migliori fanterie professionali.

Durante la battaglia di Princeton, il 3 gennaio 1777, Washington diede prova non solo del proprio carisma, ma soprattutto dell’efficacia della rete di spie che aveva organizzato nei territori occupati dai Britannici. Informato che la città di Princeton era scarsamente difesa, la attaccò dopo aver eluso nottetempo la sorveglianza delle truppe che lo fronteggiavano. La difesa fu comunque strenua e solo un suo intervento diretto convinse i miliziani in fuga a ritornare a combattere: al momento decisivo dello scontro, Washington addirittura guidò il fuoco dei suoi uomini spalle al nemico, come un direttore d’orchestra.

Una guerra solo nominalmente iniziata per motivi economici si stava trasformando in una crisi economica globale che minacciava di travolgere oltre la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, anche la Francia e i suoi alleati europei, fornendo solidi argomenti a quanti sostenevano la pace.

Il re Giorgio III e il suo Governo però scelsero di reagire con pugno di ferro. L’intento era quello di punire i ribelli dissanguandoli in una guerra che sarebbe stata vinta per lo sfinimento dell’avversario. Incuranti delle tragiche ricadute sui lealisti, si progettò di occupare solo alcuni capisaldi e di stringere le Colonie in una tenaglia: dal mare con l’assedio e il bombardamento delle città costiere e da terra dando il via libera ai raid delle tribù indiane.

Sconfitti nelle colonie del Nord, i Britannici cambiarono teatro cercando maggiore fortuna in quelle meridionali.

Le armate americane in quelle regioni vennero sconfitte una dopo l’altra, e dopo la resa di Charleston, il 12 maggio del 1780, la resistenza americana collassò quasi completamente, proseguendo solo nella forma di guerriglia da parte di formazioni di partigiani. Gli americani non erano però ancora sconfitti e lo dimostrarono inviando nuove truppe, con un nuovo generale, Nathanael Greene, e una nuova strategia di tipo “fabiano”, tesa ad evitare scontri decisivi con gli inglesi per logorarli invece nel lungo periodo.

“Combattiamo, veniamo sconfitti, risorgiamo e combattiamo ancora” era il motto di Greene che, validamente assistito dai suoi collaboratori tra i quali si distinse l’allora poco più che ventenne marchese di Lafayette, ottenne i risultati attesi. Incapace di distruggere le forze americane per il loro comportamento elusivo, il generale britannico Cornwallis provò ad affamarli attaccando il loro “granaio”, la Virginia. I suoi uomini erano però ormai troppo pochi per conquistare uno stato di quelle dimensioni e, complici anche le incomprensioni con il proprio comando generale, troppo distante dal teatro delle operazioni, l’invasione finì in un fallimento. Assediati nella città portuale di Yorktown da un contingente misto americano e francese, i britannici furono costretti alla resa il 19 ottobre 1781, dopo che la flotta francese aveva sconfitto l’estremo tentativo di quella inglese di tenere aperta una via di fuga marittima per la sfortunata armata.

La Guerra della Rivoluzione americana fu in realtà combattuta (e vinta) soprattutto sugli oceani.

L’economia di guerra americana dipendeva in parte fondamentale dalle importazioni marittime. Nei mesi immediatamente successivi allo scoppio delle ostilità, l’efficientissimo stuolo di contrabbandieri che avevano fino ad allora agito occultamente, aggirando le leggi britanniche, divennero il volano di scambi commerciali “legali”, con benefici effetti sull’economia americana.

Ben presto, però, la Royal Navy adottò adeguate contromisure, causando gravi danni all’apparato militare americano. Le importazioni americane dovettero così tornare a basarsi sulla flotta dei contrabbandieri, cui si aggiunsero i bottini della guerra di corsa, sostenuta da capitani che divennero veri “eroi americani”, come John Paul Jones, celebre per le sue incursioni sulla costa irlandese. La svolta, però si ebbe nel 1780, quando, a cominciare in quell’anno dalla Francia, le potenze europee iniziarono a schierare le proprie flotte al fianco delle Colonie in rivolta.

George Washington comprese subito l’importanza strategica di questo contributo.
La Gran Bretagna, infatti, iniziò ben presto a scontare il peso dell’isolamento internazionale e a patirne gli effetti, non solo sulle coste americane dell’Oceano Atlantico, ma ovunque vi fossero interessi britannici.

Incapace di lungimiranti scelte strategiche, l’Ammiragliato britannico disperse la Royal Navy, provando a bloccare gli avversari nei porti di ogni teatro di guerra, ma trovandosi così immancabilmente ovunque in inferiorità numerica. Il risultato più eclatante e decisivo fu la vittoria francese nella battaglia navale di Chesapeake, il 5 settembre 1781, che aprì le porte all'arrivo delle artiglierie pesanti francesi e chiuse quelle dei rifornimenti britannici, rendendo inevitabile la resa di Yorktown.

Nonostante la disfatta di Yorktown, re Giorgio III erasempre testardamente intenzionato a una guerra a oltranza, ma non così, ormai, la maggioranza del Parlamento, che lo costrinse ad avviare segreti colloqui di pace, mentre le operazioni militari continuavano, seppure con diminuita intensità.

Gli americani erano a un passo dalla vittoria e non se la lasciarono sfuggire. Per i due anni successivi intavolarono intense trattative, tenendone all’oscuro i loro alleati Francesi e Spagnoli. Con il trattato di Parigi del 1783 ottennero la certificazione della propria definitiva indipendenza e un trattato particolarmente favorevole, che pure lasciò aperto qualche futuro contenzioso sul continente, in particolare con le tribù native, che vennero private della protezione di re Giorgio III.

In cambio i Britannici, oltre la sovranità sul Canada, poterono stipulare trattati separati con Spagna e Francia, che furono però molto meno generosi, in particolare con la Francia di re Luigi XVI, che si ritrovò con un’economia in rovina per un debito alle stelle e una neonata Repubblica: un buon motivo per fare una rivoluzione e un modello da imitare per realizzarla.