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LA GUERRA POSSIBILE DELL'OCCIDENTE

L'Occidente e il complesso di Golia


Nicola Zotti


La politica delle democrazie occidentali ha ancora il conflitto armato tra gli strumenti a propria disposizione? La politica delle moderne nazioni democratiche può ancora proseguire il proprio intercorso mediante la guerra qualora lo ritenesse necessario?

Le risposte a questa domanda sono le più diverse. e di norma le "non-risposte", ovvero i fatti, insomma le guerre vere e proprie, intervengono nei momenti meno opportuni agitando le acque e confondendo le menti.

Ho dedicato a questo tema praticamente tutta la parte "politico-filosofia" di warfare.it comprese alcune delle cose migliori che credo di aver scritto: tra gli altri politica e guerra, vittoria, principi nuovi, una controrivoluzione militare, articoli che con l'occasione potete andarvi a rileggere, se non altro per constatare non tanto la mia coerenza intellettuale quanto la mia incapacità a dare al mio pensiero un respiro più ampio.

In queste poche righe, quindi, non tenterò di costruire un filo conduttore, ma, come mi capita spesso, di esaminare la stessa questione da un nuovo, differente, punto di vista.

Il dibattito sull'Occidente e la guerra è imprigionato all'interno del dilemma etico della "guerra giusta", un problema che la politica dell'Occidente riesce a risolvere solo affidando la legittimità di un conflitto ad un'entità più alta: l'Onu, preferibilmente, o in seconda istanza la Nato. Tanto maggiore è il consenso sovranazionale, tanto più difendibile è la legittimità di un conflitto nei confronti di una cittadinanza che in democrazia ha il diritto di esprimere la propria opinione promuovendo o licenziando i propri governanti.

Da qualche decennio, la legittimità di una guerra, quindi, ha cambiato origine: la Seconda guerra mondiale in Europa ha messo in durissima ed irreversibile crisi il principio di nazionalità e di interesse nazionale, che aveva fornito all'Occidente il miracoloso combustibile per alimentare secoli di guerre e di conquiste, in particolare dopo quell'eccezionale invenzione che fu la Rivoluzione francese.

Essa, infatti, mobilitò per la prima volta le popolazioni, fornendo alla guerra una giustificazione morale (la "grandezza") capace di scavalcare ogni dubbio etico, e in grado di far raggiungere alle energie di una nazione una massa critica di distruttività irresistibile.

Per un secolo queste energie furono impiegate all'esterno in modo molto più efficace e sistematico di quanto non fosse riuscito nei secoli precedenti alle monarchie assolutiste e al principio dinastico. Lo scontro all'interno della società europea ed occidentale fu limitato e rinviato nei limiti del possibile, ma la "guerra civile europea" date queste condizioni di partenza era inevitabile.

Persa la guida del nazionalismo siamo diventati "buonisti" capaci solo di farsi mettere i piedi in testa? Abbiamo paura ad esprimere la nostra forza in una guerra asimmetrica? E dove l'asimmetria appare, almeno dal punto di vista ideologico, tra i "nazionalismi" sparsi per il mondo e un Occidente apparentemente assai più timido ad esprimere i propri, a vantaggio di comunità sovranazionali alle quali, tuttavia, non è trasferito alcun reale potere politico.

In parte sì ed in parte no: non va dimenticato che la politica è e rimane ferina e che probabilmente hanno ucciso più africani certe decisioni economiche protezionistiche della comunità europea di quante vittime avrebbe fatto una guerra coloniale.

DI fatto i nazionalismi persistono dirottati lungo altri direttrici, non meno feroci, tuttavia, di quelle alle quali si è rinunciato, avocandole ad istanze "superiori".

Come non va dimenticato che le guerre asimmetriche sono la norma e non l'eccezione, costituita invece proprio da quelle simmetriche, che assumono rilevanza analitica solo se ci accontentiamo di una definizione molto benevola e particolare di "simmetria".

Per essere ancora più precisi, l'asimmetria non solo è una condizione oggettiva, ma anche un obiettivo perseguito con ogni mezzo disponibile che si concentra su due principali pilastri: la tecnologia e la tattica.

Nella loro concretezza, i romani facevano combattere tra loro gladiatori di pesi diversi, uno pesante contro uno leggero, raramente due leggeri tra loro e rarissimamente e solo in occasioni speciali veniva organizzato lo scontro tra due campioni pesanti: un metaforico e realistico rifiuto dell'agonismo simmetrico che tanto era invece amato dagli esteti greci.

Analogamente le guerre coinvolgono avversari di "peso" diverso che si affidano alle strategie e alle tattiche che vengono ritenute più congeniali e opportune nelle situazioni date: ed è il confronto tra queste -- più che tra le tecnologie impiegate -- a fare la differenza, spesso in modo sorprendente.

Così, tra Davide e Golia il più forte è Davide, mentre Golia è la vittima predestinata. Dio guida la mano di Davide, che tuttavia per precauzione è armata di una micidiale fionda capace di colpire precisamente e in modo letale a lunga distanza, con un proiettile per altro facilissimo da reperire, un sasso. Anche senza la protezione divina, Davide potrebbe contare su quella che gli conferisce la propria velocità, che lo rende imprendibile al limite dell'invulnerabilità, enfatizzata da un altro decisivo vantaggio di Davide: quello di essere minuscolo, mentre l'avversario è un gigantesco, facile bersaglio. Da ultimo, Dio garantisce a Davide la fermezza e il coraggio necessari ad essere consapevole della propria superiorità, impiegandola senza esitazione al fine della vittoria e all'uccisione del nemico, che per colmo di ironia sarà ottenuta con un'arma strappata proprio al suo avversario!

Golia non può fare nulla per modificare la propria natura: è grande e grosso perché da generazioni mangia in abbondanza per la ricchezza accumulata in innumerevoli vittorie ottenute contro nemici meno accorti di Davide: con la prima si è anche dotato di armi e armature preziose e terribili, con le seconde ha maturato l'arroganza e la sicumera necessarie ad impiegare quelle stesse armi senza esitazione.

La forza straripante di Golia sfugge ad ogni controllo, ma anche se la controllare, persino una frazione di essa sarebbe sufficiente a schiacciare inesorabilmente Davide se non intervenisse la dinamica delle tattiche con tutte le premesse che le rendono disponibili ai contendenti.

Golia non conosce "mezze misure" eppure proprio di queste avrebbe bisogno per sconfiggere Davide.

Per vincere, infatti, il povero Golia avrebbe dovuto attendere che Davide esaurisse i sassi, che il suo braccio si stancasse, che il fiato gli venisse a mancare rallentandolo e consentendo al filisteo di afferrarlo: quante condizioni, quanta attesa, quanta fermezza morale, quanta capacità di dosare il proprio impegno, quanta conoscenza di se stesso e dei propri limiti, prima ancora che delle qualità dell'avversario!

Oppure avrebbe dovuto avere l'accortezza di ritirarsi dalla lotta, facendosi sostituire, magari senza alcun annuncio, da una dozzina di arcieri mercenari e plebei, le cui frecce non avrebbero aumentato l'onore di Golia, ma certamente salvato la causa dei filistei.

Le nostre simpatie, tradizionalmente e non solo per le nostre radici giudaico-cristiane, vanno a Davide, ma mi pare chiaro che noi, l'Occidente, siamo Golia. E da quanto ho detto mi pare altrettanto chiaro che la leggerezza e la irriflessività con la quale prendiamo spontanemente le parti del "più debole" debba in qualche modo almeno accedere ad un supplemento di indagine.

Quando il "più forte" aggredisce il "più debole", le motivazioni di questo atto passano in secondo piano e il primo non riesce mai a guadagnarsi il sostegno alla sua azione, per non parlare di quanto spesso militarmente mal ponderata e spesso basata solo sul preconcetto e il luogo comune è la stessa distinzione iniziale tra "forte" e "debole".

Aumentare la propria forza con queste condizioni di partenza è una scelta che non risolve il problema, ma anzi lo peggiora.

Pensiamo, ad esempio, al ricorso alla tecnologia come risolutore di qualsiasi problema militare: dall'aumento della potenza distruttiva, alla trasparenza del campo di battaglia.

Questa ultima, in particolare, presentata sotto forma di innovazioni nella intelligence come panacea di tutti i mali, mi appare la più controversa. L'dea è quella di passare dal distruggere un intero banco di milioni aringhe oceaniche per eliminare le due o tre che ci minacciano, a una guerra condotta mediante un retino contro l'unico pesce rosso in una boccia d'acqua.

Intesa come linea tendenziale, e naturalmente all'inizio solo come annunci a sensazione di nuovi mirabolanti gadget tecnologici in fase progettuale, certo non ci aiuterà a valutare con maggiore obiettività i rischi e i costi di una guerra, o ad avere maggiore saggezza nel determinare chi è il più debole e chi il più forte in uno scontro o a orientare il nostro sostegno. O, infine, ad impiegare la nostra forza con l'oculatezza necessaria allo scopo.

L'Occidente non può trasformarsi da Golia in Davide per condurre le guerre che gli attraversano la strada, ma certo può cominciare almeno a rallentare la tendenza a gonfiarsi di anabolizzanti, a coprirsi di armamenti ormai neppure barocchi (la definizione è di Mary Kaldor) ma decisamente Rococò, a condurre guerre non sufficientemente analizzate sotto il profilo strategico e politico.

Tanto meno idee ha la politica, tanto più delega all'apparato militare il raggiungimento di una vittoria, qualunque essa sia, in virtù di forza schiacciante, strumento che si pensa di costruire con l'aiuto della tecnologia. Già così le cose andrebbero male, ma in tempi di crisi economica e di tagli ai bilanci militari, l'asimmetria attesa dalla tecnologia non solo è spesso più ipotetica che reale, ma soprattutto viene millantata anche come sostituto del numero, come avvenuto nelle recenti guerre d'Iraq e di Afghanistan, dove invece il controllo del territorio e la protezione delle popolazioni (per altro come in Viet Nam) è essenziale e richiede il concorso di grandi numeri che solo in minima parte possono essere sostituiti dalla tecnologia.

Se l'Occidente (politici, militari, cittadini) vuole ancora affrontare le guerre deve comprendere che essere Golia lo mette in condizioni di svantaggio contro Davide: e, esclusa la metamorfosi o la mutazione genetica, deve usare molto più le doti dell'analisi politica, strategica e tattica che la forza bruta, persino quella della tecnologia, nelle future guerre "asimmetriche", se vuole sperare di vincerle.