Ceti sociali premono per affermarsi, personalità nuove si danno obiettivi alti: se tra loro emerge un Napoleone o un Lenin nessun traguardo può essere irraggiungibile.
Anche l'Iran ha attraversato una fase "rivoluzionaria" e ha saputo reagire vittoriosamente all'aggressione di Saddam Hussein, che credeva di poter prevalere facilmente sul caotico Iran della rivoluzione islamica khomeinista.
Una guerra costata carissima ad entrambi i contendenti e che probabilmente Saddam Hussein non sarebbe riuscito a contenere senza il sostanziale aiuto di tutto il resto del mondo: carri armati russi, gas della Germania orientale e soldi occidentali per pagarli.
Solo Israele sostenne l'Iran, seppure di nascosto, vendendogli i preziosi pezzi di ricambio che consentirono agli aerei di produzione americana dell'aviazione iraniana di continuare a volare.
Il motivo per cui un fronte così ampio ha cercato la sconfitta dell'Iran è stata la paura che la rivoluzione iraniana si espandesse e intraprendesse il cammino verso la fase imperiale. Un risultato indubbiamente ottenuto.
Oggi il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad a quanto pare cerca di riprendere questo cammino interrotto, approfittando della situazione internazionale seguita alla guerra in Iraq: rivendica al suo paese un ruolo da potenza nucleare e rilancia la minaccia all'esistenza di Israele.
L'assenza di un leader arabo ambizioso e potente come era Saddam lascia indubbiamente un vuoto di potere nel mondo islamico che Ahmadinejad sta cercando di riempire: come avrebbero fatto Napoleone e Lenin.
Ma l'analogia con un Napoleone o con un Lenin
va anche oltre: anche loro cercarono di offire alla propria nazione un "grande nemico", ma non per affrontarlo e sconfiggerlo, ma solo come espediente per tenerla unita ed indirizzarla verso altre e più immediate conquiste.
Quando Ahmadinejad ha minacciato l'esistenza di Israele io non credo avesse realmente nel mirino questo obiettivo.
I primi ad essere colpiti dalla minaccia del presidente iraniano sono stati infatti i leader dell'islam moderato, quelli che sarebbero disponibili a giungere ad un accordo che garantisca Israele.
Ahmadinejad con le sue affermazioni ha sottratto ai leader mediorientali gran parte della credibilità agli occhi delle proprie popolazioni più affascinate dalla retorica estremista.
Li ha fatti sembrare molli e asserviti all'Occidente, privi di una strategia "rivoluzionaria": ovvero chiusi nell'oggi e incapaci di vedere nei secoli a venire, di rappresentare una speranza, quel riscatto messianico che tutte le rivoluzioni, figuriamoci poi una islamica, sanno invece offrire.
Ma, sottolineo, Ahmadinejad può mettere in crisi quei leader, non sostituirli, se non altro perché loro sono arabi e lui è persiano, loro sunniti, lui sciita: anche questo, dunque, non può essere l'obiettivo principale del presidente iraniano.
Noi occidentali -- e in particolare noi europei -- abbiamo il difetto di guardare al mondo solo dal nostro punto di vista: che non è né l'unico né il principale.
Dimentichiamo facilmente, ad esempio, la collocazione geografica dell'Iran: e per chi non lo ricordasse l'Iran è in Asia, e, dal Caucaso al Belucistan, confina con zone dove l'nstabilità politica e sociale è molto alta e non mancano motivi perché si accresca ulteriormente.
Molto al di là delle banalità della geopolitica, però, mi pare evidente che l'Iran cerchi di crearsi un proprio spazio continentale, mentre India e Cina si contendono il ruolo di leader asiatici e quindi globali: una lunga partita dalla quale non è affatto scontato esca vincitrice la Cina.
L'Iran non può rimanere indietro, isolato e lontano, senza industrie energetiche (è inutile essere tra i maggiori produttori di petrolio al mondo se si devono importare la benzina e l'olio combustibile), dietro stati islamici più popolosi, come l'Indonesia o meglio inseriti nel mercato come il Pakistan e la Malesia.
La storia e la cultura persiana hanno sempre guardato ad Occidente, non è detto che oggi non sia costretta a cambiare abitudini: a me pare qualche indizio ci sia.
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