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COME AFFRONTARE IL SECOLO DEL TERRORISMO

Trattare con i terroristi?

nicola zotti

Si può trattare con Bin Laden? Possiamo invertire la rotta dei nostri rapporti con il fondamentalismo islamico terrorista, trasformandoli da conflittuali a collaborativi?

Soprattutto: può il compromesso aiutare l'Occidente a vincere entro un secolo questa minaccia?

Una prospettiva di così lungo periodo non dovrebbe spaventarci: lo scontro con il comunismo è durato 70 anni, quello col fondamentalismo non può avere un orizzonte temporale molto diverso.

Osama Bin Laden

Nel conflitto dell'Occidente col comunismo il compromesso ha avuto un ruolo essenziale e ha consentito di farne una guerra "fredda", dalla quale alla fine l'Occidente è uscito vincitore in virtù della propria superiorità politica, culturale, economica e sociale e non per un vantaggio militare.

Inoltre il compromesso è una parte essenziale della politica e in democrazia anche nobile -- checché ne dica qualche moralista -- quando risolve creativamente conflitti a vantaggio della collettività.

Contro una strategia basata sul compromesso si potrebbe sollevare un'obiezione sostanziale.

L'idea di "compromesso", appunto perché intrinsecamente liberale, è estranea al fondamentalismo islamico: i nostri interlocutori potrebbero rifiutare e probabilmente rifiuteranno qualsiasi trattativa diretta, come pure non possiamo pensare che esista un limite alle loro richieste.

Le stesse profferte di trattativa pervenute in varie occasioni da Bin Laden hanno ancora il sapore di un espediente tattico e come tali non aprono un vero spiraglio. Se progetto di trattativa ci deve essere, deve concretamente partire dal campo occidentale.

Dobbiamo interpretare questa trattativa come un indefinito processo di concessioni unilaterli a lungo termine, scadenzate nel tempo, confidando come cercherò di spiegare in seguito, negli effetti indotti.

Naturalmente con un po' di ottimismo possiamo sperare in episodi di dialogo diretto più credibili di quelli avanzati da Bin Laden, mediante i quali lucrare qualche concessione insperata. Ci saranno sicuramente, ma non dobbiamo farvi affidamento, quanto individuare una strategia che prescinda da essi.

il processo che non dobbiamo ostacolare è quello noto come "restaurazione del Califfato", ovvero la diffusione graduale ma generalizzata dallo Xin Kiang all'Oceano Atlantico di nazioni governate dalla legge islamica, addossate ai confini storico-religiosi di un grande Califfato sunnita disteso tra Oceano Indiano, mar Mediterraneo e Mesopotamia.

Gli incerti confini fisici del Califfato e l'imprevedibilità degli obiettivi politici dei fondamentalisti islamici producono un "asintoto" irraggiungibile di richieste potenzialmente illimitate.

Un progetto di nazionalismo islamico per resuscitare in purezza lo splendore del governo aristocratico e teocratico dei Califfi dell'Impero arabo. Nulla a che vedere con le ideologie della liberazione o le dottrine comunitaristiche occidentali: il riscatto delle "masse diseredate" non avviene con rivoluzioni sociali, ma attraverso il ritorno integralista ad una concezione escatologica dell'esistenza.

Chiarisco subito di non avere alcuna fiducia in una politica basata sulla "cessione di terra in cambio di pace": ha mostrato di essere inadeguata per controllare i fondamentalisti -- anzi controproducente -- fin dal 1981, quando portò all'assassinio di Sadat.

Si tratta di una partita diversa, basata sul graduale trasferimento di sovranità statuale dagli arabi moderati a quelli oltranzisti.

I paesi arabi moderati non hanno saputo né tenere a bada gli estremisti, né democratizzare le proprie nazioni. E d'altra parte l'Occidente non ha fatto grandi pressioni in questo senso e il suo appoggio alle componenti più moderne e liberali del mondo arabo è risibile.

Un'analisi costi e benefici di metodi di confronto alternativi rispetto a strategie puramente repressive del fenomeno del fondamentalismo islamico è quindi anche razionalmente coerente con la linea tenuta dall'Occidente finora.

La repressione è costosa in termini materiali e umani, ha risultati imprevedibili e soprattutto all'interno delle nostre società è troppo controversa.

Quest'ultimo punto è particolarmente importante per le democrazie, basate sul consenso. Un consenso che è sempre meno quello caratteristico delle democrazie rappresentative (il consenso del cittadino elettore) e sempre più quello espresso emotivamente nei sondaggi di opinione (dalla "gente comune").

Compio in astratto questo percorso, nel mio piccolo, con la certezza che qualcuno tra i governanti del mondo lo ha già fatto, o commissionato a qualche analista, individuando innanzitutto alcuni obiettivi strategici. indicando poi gli strumenti per conseguirli e una possibile condotta operativa.

Obiettivo strategico numero 1: ottenere sicurezza immediata. Niente attentati terroristici sul suolo delle democrazie occidentali, nessun sostegno da parte dei fondamentalisti islamici a loro cellule in Occidente che devono essere abbandonate alla repressione delle nostre forze di polizia.

Obiettivo strategico numero 2: spostare l'attenzione dei fondamentalisti dall'Occidente ad altre aree, in particolare l'India e la Cina, accentuando le occasioni di attrito latenti, con il duplice effetto di consentire una valvola di sfogo al fondamentalismo e contemporaneamente rallentare l'impetuoso sviluppo dele economie emergenti.

Obiettivo strategico numero 3: lasciare ai figli dei nostri figli un mondo in cui il fondamentalismo terrorista è eradicato e le democrazie occidentali hanno una supremazia totale e incontrastata.

Essenziale a questo progetto è che l'Occidente nel suo complesso concentri con intensità le proprie energie verso lo sviluppo politico, culturale, sociale ed economico.

Se l'Occidente riuscirà a mantenere le promesse delle proprie tradizioni liberale e socialista democratica, negli anni a venire non solo questo ne consoliderà il consenso e il benessere, ma soprattutto dovrebbe rappresentare una terra promessa per le energie più vive sia delle nazioni interessate al progetto del Califfato e sia di quelle delle aree di crisi del resto del mondo.

I paesi occidentali dovranno agevolare e incentivare questa fuga di energie umane per accoglierle e integrarle al proprio interno. Spogliato di energie progressive, il Califfato procederà senza dissensi nel perseguimento ideologicizzato della islamizzazione della propria struttura culturale e sociale.

Nel medio-lungo periodo, questo porterà ad un depauperamento irrimediabile delle società basate sul fondamentalismo islamico, la cui capacità di governo e di comprensione della società post industriale è persino inferiore a quella mostrata dai regimi comunisti.

L'Occidente non deve neppure operare con particolare intensità per rimediare alla propria dipendenza dal petrolio: la ricattabilità dell'Occidente è positiva perché indurrà i paesi produttori a non modernizzare le proprie strutture economiche, e finché l'Occidente sarà un'indispensabile mucca da mungere, i fondamentalisti non solo non la uccideranno, ma saranno sempre più dipendenti dai suoi prodotti. Non sono necessarie fonti energetiche veramente alternative al petrolio prima di 50-70 anni, e non saranno comunque disponibili prima di quell'epoca.

L'Occidente dovrebbe annullare gradatamente tutte le "ingerenze" -- in particolare quelle politiche e militari -- sugli stati arabi moderati e avere un atteggiamento aperto anche nei confronti della propaganda fondamentalista nei nostri paesi. Comunque saremmo garantiti che non ci sarebbero sbocchi violenti nei nostri territori e questo ci deve bastare.

Eliminazione dello stato di Israele? Anche questo potrà accadere, diciamo entro il 2030: di fronte alla minaccia espansiva del Califfato Sunnita, sarebbero gli stessi israeliani in maggioranza a intraprendere una nuova diaspora, che avremmo tutto l'interesse ad agevolare.

Gli ostinati israeliani che inevitabilmente difenderanno l'esistenza propria e del proprio stato, ci sarebbero di grande aiuto: potremmo sostenerli nascostamente quando i nostri interlocutori fossero poco collaborativi e invece dimenticarcene quando i rapporti fossero positivi.

Molto simile, in linea di principio, si presenta il problema delle comunità cristiane che vivono nei paesi islamici: il disinteresse mostrato dall'opinione pubblica occidentale verso le persecuzioni di cui sono oggetto suggerisce, però, che anche in futuro la questione difficilmente verrà percepita in modo drammatico, interferendo con politiche di dialogo.

Nel giro di un'altra ventina d'anni, per il 2050, un primo ciclo sarebbe concluso: dall'Oceano Atlantico all'Oceano Pacifico, passando per l'Oceano Indiano e il Mediterraneo, la cartina geografica dovrebbe mostrare un paio di grossi blocchi, uno sunnita e uno sciita, e uno spezzatino di stati minori governati da fondamentalisti di varia natura che hanno concluso localmente i propri conflitti interni confidando sul benevolo lassaiz faire dell'Occidente.

Nei successivi 30 anni potremo svolgere una benevola opera di mediazione nei conflitti che dovessero insorgere tra sunniti e sciiti, pagando di tasca nostra ove fosse necessario, operando per contenere fuori dai nostri confini le risse nazionalistiche che dovessero divampare tra i vari fondamentalismi.

In questo lasso di tempo, i paesi fondamentalisti, esausti di guerre, con economie arretrate e riserve petrolifere in via di esaurimento, dipendenti dall'Occidente per i beni più elementari, non dovrebbero più rappresentare un pericolo per l'Occidente, ma saranno pronti per un vero processo di democratizzazione interna.

Esiste comunque la possibilità che i paesi fondamentalisti, spinti dalla disperazione di fronte ad un inevitabile declino, tentino un ultimo colpo di coda militare, che potrebbe effettivamente portare alla Terza guerra mondiale: è molto probabile, però, che il conflitto esploda lungo una faglia indo-pacifica, dall'Africa al sud est asiatico, e non interessi direttamente i paesi occidentali.

Un intervento occidentale non è comunque da escludere, qualora permetta un'accelerazione sostanziale dei processi che ho descritto.

Concettualmente tre problemi possono compromettere la realizzazione di questo scenario.

Il primo è insito nella sua grande complessità: prevede che l'Occidente riesca a gestire con coerenza e in modo unitario una strategia di così lungo periodo.

Il secondo è molto difficile. Può l'Occidente difendere i suoi valori senza comprometterli? Ovvero sarà capace di utilizzare mezzi che non corrompono irrimediabilmente il fine?

Infine il terzo è ancora più problematico. E' capace l'Occidente di riconoscersi in se stesso e nei valori che ha costruito storicamente? La risposta non è affatto scontata.