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75 ANNI FA, NEL LUGLIO 1936, INIZIAVA LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA

Una nuova ultima crociata

nicola zotti


Silenzio cosmico sul 75esimo anniversario dello scoppio della Guerra civile spagnola, che pure è tra gli eventi più importanti del secolo scorso e ci vide come italiani protagonisti su entrambi i fronti, quello repubblicano e quello nazionalista.

Troppi ne ho prodotti di borbottii sulla nostra memoria corta, per avervene proposto il ricordo con questo scopo.

Ammetto: ne avrei voglia, perché credo che quella guerra abbia fortemente influenzato la nostra cultura collettiva di italiani, e l'Italia di oggi, invece, sembra un bambino che non ha genitori a cui assomigliare e al quale nessuno cerca di trovare tratti somatici familiari: insomma un figlio anonimo e ignorato.

Allora vi parlerò dell'attualità della Guerra civile spagnola, di una storia che si ripete, per contraddire Marx, sempre in modo tragico:

Culture politiche. Le culture politiche degli individui nella maggior parte dei casi sono in varia misura confuse e incoerenti: sola coerenza quella di appartenere ad un unico individuo. Gli individui con una cultura politica prevalentemente chiara e coerente sono una minoranza. A maggior ragione questo è vero per i movimenti politici, nei quali si ritrovano più individui. E, passo ulteriore, è ovviamente ancora più vero per le alleanze politiche, che riuniscono in un fronte più movimenti. Se vi sembra che questo sia normale in un movimento politico democratico, in realtà è altrettanto normale per I movimenti totalitari, che non sfuggono a queste caratteristiche. In Spagna, ad esempio, il fronte nazionalista coniugava destra spagnola, fascisti italiani e nazisti tedeschi: nel 1936 le rispettive culture politiche di queste componenti l'alleanza erano veri e propri cataloghi di idee tecnicamente inconciliabili. Il fascismo italiano, ad esempio, era un coacervo di nazionalismo risorgimentale, anticlericalismo repubblicano, avanguardismo futurista, tradizionalismo cristiano controriformista. I nazisti paganeggianti combattevano assieme ai "requetes" cristiani ultraconservatori carlisti della Navarra, che pure dovettero con le cattive accettare l'annessione alla nazional-sindacalista Falange, al cui interno l'ultimativa coerenza fu per altro imposta con la forza da Francisco Franco. Per non parlare del fronte repubblicano ancora più frammentato, se è possibile, e nel quale, assieme a varie declinazioni della tradizione politica della sinistra, ritroviamo molte ideologie "coerenti" e la sedicente più coerente di tutte le ideologie organizzate: il marxismo-leninismo. Intendo, naturalmente, l'apparato ideologico di chi (un'élite di qualche centinaio di persone nel mondo) aveva studiato Marx in tedesco e Lenin in russo, tanto più spesso filtrati dallo stalinismo, perché nella vulgata del comunismo "partitico" che poi questa avanguardia intellettuale produceva ad uso e consumo delle masse, le differenze emergevano violentemente. Con quanto di tragico questo significò per la causa repubblicana in Spagna e per la sinistra europea negli anni dei successi del fascismo e del nazismo.
Nel caso si sia dimenticato, ricordo che la coerenza è considerata un valore positivo, ma insomma, qualora anche ciò avesse in politica un qualche senso, non mi pare il caso di operare una distinzione di valore in base a quanto le persone o le comunità politiche esprimano una cultura politica internamente coerente. Semmai, molto più interessante è analizzare la genesi della loro coerenza/incoerenza, il processo mediante il quale si è composto -- individualmente o nelle alleanze -- uno stridente, accozzato mosaico o una liscia ordinata figura e, come per le opere d'arte, che cosa comunica quella figura.

I simboli. Questo ragionamento mi porta a riflettere brevissimamente con voi sui simboli e sul simbolico. Il simbolico inteso come comunicazione, visiva ma non solo, evocativa e complessa, oggetto e stimolo di riflessioni e meditazioni. Ahimé la modernità ha portato l'uomo a inaridire la propria capacità di interpretazione del simbolico, in una ricerca di immediatezza e di univocità del messaggio. Pensate ai loghi, ai segnali stradali, alla pubblicità e a tanta della nostra comunicazione: tutto deve essere inequivocabile e non interpretabile. Persino i cartelli di direzione obbligata sono preferibili rispetto a quelli di divieto di svolta. Il resto è uguale: non abbiamo tempo di interpretare un contenuto simbolico, di rifletterci, di leggerlo per intero, come se stessimo guidando ad alta velocità. La Guerra civile spagnola, invece, fu anche una guerra di simboli, la prima guerra combattuta con slogan, coi manifesti e con i media in modo maturo e consapevole. Influì la sua natura politica: ma oggi questa comunicazione (pensate ai manifesti) ci risulta arcaica, oscura, complessa, troppo intensa: in una parola incomprensibile. Tuttavia il simbolico ha ancora i suoi estimatori. I frequentatori (non i cultori) moderni del simbolico sono i terroristi e gli estremisti: qualsiasi sia la loro origine e il loro scopo, il simbolico fa parte della loro natura e va letto e interpretato, come un dipinto del Medioevo, l'epoca durante la quale furono raggiunte le più alte e geniali vette rappresentative del simbolilco. Non si può fare una guerra al terrorismo se non si interpreta il loro simbolico e se non si fa la guerra anche sul terreno del simbolico.
La rozzezza di certi riferimenti simbolici moderni si è mostrata posticcia e folclorica, per non dire grottesca, e così è fallita, affogata nel ridicolo, soprattutto per l'assenza, nella sua origine, dei pensieri lunghi del simbolismo.

Internazionalismo/localismo. E come durante il medioevo, il linguaggio simbolico delle culture estremistiche ha la vocazione a essere universale. Proprio perché è un linguaggio. E un linguaggio comune serve quando si hanno obiettivi globali, in una situazione globale, e un destino internazionalista. E, naturalmente, la Guerra civile spagnola fu la guerra internazionalista per eccellenza, tra brigate internazionali e Corpo Truppe Volontarie e Legione Condor: in nome di due diversi internazionalismi. Ma se le culture terroristiche conoscono l'internazionalismo, pensate ail'afflusso di volontari quaedisti e mujaheddin in Afghanistan, si può dire altrettanto di quelle che a loro si contrappongono? È questo il senso e lo spirito delle varie missioni militari "internazionali"? O non sarà, forse, che i loro scarsi risultati derivano anche dalla mancanza nel retroterra comune di una vera cultura internazionalista?
Se la Guerra civile spagnola fu il terreno di scontro di opposte alleanze transnazionali su base ideologica, contemporaneamente e con sempre crescente forza nel corso degli anni, fu però anche la guerra tra l'ultranazionalismo di Franco e le ambizioni indipendentiste ed autonomiste delle "nazioni" iberiche. La potenza apparentemente pervasiva delle ideologie nei momenti più drammatici lasciò il posto ad aspirazioni più antiche e profonde, e alle ragioni di queste, anzi, si piegò. E se furono infine sconfitte, esse riemersero vitali nel dopo-Franco: superiori a decenni di ultranazionalismo onnipresente perché basate su radici solide.

Oggi. Anders Behring Breivik, il terrorista di estrema destra che ha assassinato 76 persone in Norvegia Venerdì 22 luglio 2011 ha agito da solo, molto probabilmente, perché non aveva necessariamente bisogno di complici per commettere la sua strage: la pericolosità globale del terrorismo è dovuta proprio alla semplicità caratteristica di un proposito stragista. Un individuo non ha bisogno di un intelletto superiore per fare il terrorista, anzi, potrebbe nuocere ai suoi progetti. Né gli servono particolari cultura o conoscenze. Al contrario si deve dotare di un apparato simbolico riconoscibile dal suo pubblico di riferimento per ottenerne il consenso e, come qualità umana, possedere una personalità ossessiva e organizzata, capace di dedicare completamente la propria esistenza (fino al contemplato sacrificio personale) alla propria impresa. In forza di questa banalità sostanziale ed essenziale, la personalità terroristica si dota di un apparato simbolico magari semplicistico, ma variegato e soprattutto facilmente assimilabile. È cristiano, ma a "modo suo", massone, ma sempre con un necessario distinguo, orgogliosamente assassino, e contemporaneamente capace di dichiararsi "non colpevole". La fisionomia della sua cultura politica di appartenenza richiama l'incoerenza e la disorganicità che segnalavo poc'anzi, facile a sintonizzarsi con culture politiche individuali altrettanto confuse e personalizzate della sua, e come la sua alla ricerca di appartenenza e di definizione. Inevitabile dunque che incontrino un consenso, come quello espresso dal parlamentare europeo della Lega Mario Borghezio dal suo collega Francesco Speroni, o da esponenti del Front National francese in nome della difesa dei valori dell'Occidente minacciato dall'Islam, e di quell'ineliminabile sentimento umano che è la paura del diverso, che nella sua forma più politica diventa xenofobia.
Fuori dalle ipocrisie, credo siano molte le persone capaci di trovare in alcune di queste posizioni qualcosa di proprio, qualcosa in comune, limitandosi a rifiutare il sanguinoso strumento impiegato per realizzarle. Io stesso ho denunciato e denuncio una metamorfosi dell'Occidente che ha portato alla perdita di alcuni suoi valori per me importanti: non sono gli stessi a cui si riferiscono Breivik e i suoi epigoni, ma questo vale solo per chi mi legge fino in fondo e se sono capace di spiegarmi. Altrimenti il calderone in cui si viene inzuppati è il medesimo. Le giovani vittime di Utoya secondo Breivik erano traditori dell'Occidente e dei suoi valori, e Vittorio Feltri, in un discusso articolo intitolato "Quei giovani incapaci di reagire", osserva sgomento che quei giovani nel loro complesso rappresentano un'umanità che ha perso "l'abitudine e l'attitudine a combattere in favore della comunità di cui fa parte". Una tesi che in termini antropologico-militare è assolutamente priva di sostanza, e per di più -- ecco che rispunta l'incoerenza delle culture politiche personali -- pur provenendo da un liberale individualista, chiedeva ai giovani norvegesi di comportarsi come solo alcuni insetti fanno, nemmeno fossero automi senza identità e volontà propria. Ebbene a questo punto non sono sicuro che qualcuno, ad una lettura affrettata, possa vedere una differenza sostanziale, e sottolineo sostanziale, tra il pensiero di Feltri e il mio.

Conclusioni. La Guerra civile spagnola fu definita dai falangisti "l'ultima Crociata". Forse invece era la penultima, perché si evoca la necessità di combatterne un'altra contro l'invasione islamica. Affermazione rivelatrice, perché con Crociata, così come si è definita storicamente, si intende un atto intrinsecamente violento compiuto per motivi ideali da un'alleanza di forze transnazionali contro un nemico comune rappresentante di altri ideali inconciliabil con i primii. Una guerra di conquista o se vogliamo di liberazione di territori oppressi. Ma esistono questi presupposti? Quali sono gli effettivi contorni di questa minaccia? Una Crociata è la via giusta per contrastarla? E quali valori dell'Occidente dobbiamo difendere?
Domande tutte senza risposta da parte della classe politica europea, non solo italiana.
E la causa è nella sua mancanza di memoria storica, delle sue idee confuse prima che incoerenti, della conseguente incapacità di produrre complessi ragionamenti strategici: provate voi a rispondere a quelle domande: è la condizione necessaria perché inizi a cambiare qualcosa.