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DA UN RACCONTO DI BARTOLOMEO BERTOLINI

La cavalleria regolare contro i cosacchi

nicola zotti


Bartolomeo Bertolini racconta nel suo libro di memorie "La mia prigionia in Russia" (Milano, 1863), come venne preso prigioniero dalle truppe dello Zar.

Prima di questo avvenimento, però, Bertolini riferisce un interessante episodio che fa luce su un aspetto poco approfondito della tattica dell'epoca napoleonica: lo scontro tra la cavalleria regolare e i cosacchi.

La sera della battaglia di Borodino (7 settembre 1812), Bertolini viene incaricato di cercare foraggio per il suo reggimento. Con 50 volontari e due carri, verso le 20,00, Bertolini si inoltra tra i boschi e la campagna, colmi di cadaveri e di moribondi, trovando infine un campo con avena e fieno mietuti.

Stipati i carri e avviatili verso l'accampamento, Bertolini e i suoi si preoccupano delle proprie esigenze trovando, ormai a notte inoltrata, un castello, che raggiunsero ottenendo dal proprietario viveri ed ospitalità.

Ma lasciamo proseguire Bertolini (pagg. 34-37).

«Non era ancora scorsa la mezz'ora, che lieti di aver trovato nel mezzo di quei luoghi selvaggi un così ospitale asilo, seguitavamo a mangiare e bere trattenendoci sopra le particolarità di quella sventurata giornata e su quelle del nostro notturno viaggio, senza darci il più piccolo pensiero di stare in guardia; quando tutto ad un tratto ci ferì l'orecchio uno strepito come di calpestìo di cavalli, che viemmaggiormente rendeasi fragoroso in mezzo alla tranquillità ed al profondo silenzio della notte.
A quello strepito cadde la benda che ci avea posta sugli occhi la fallace accoglienza del proprietario del castello, il quale al nostro primo vederci, aveva divisato d'ingannarci crudelmente sotto il manto d'ospitalità: a tale uopo si ritirò simulando di essere occupato nel dare ordini a' suoi famigli, perché fossimo acconciamente serviti in ogni nostro desiderio, e spedì frattanto un suo valletto ad avvisare della nostra venunta il capo-schiera dei cosacchi, che sapeva di là non lontano, e che tosto venne con una forte mano dei suoi cavalieri a sorprenderci, e menare su di noi aspra vendetta per la sanguinosa rotta in quel giorno toccata all'armata russa.
Non appena avevam noi sospettato dell'inganno, e rizzatici in piedi tendevamo gli orecchi per assicurarci, se quello strepito fosse realmente prodotto dall'avanzarsi di un corpo di cavalleria, e ci guardavamo l'un l'altro silenziosi e stupefatti; che quelli, tra i nostri, che erano rimasi fuori alla custodia dei cavalli, scoperto l'inimico, diedero l'allarme; sicché noi impugnate le nostre armi (per buona cautela, in tali occasioni sempre approntate), uscimmo precipitosi dal castello, in un balemo fummo in arcioni, e ci mettemmo schierati in doppia fila. In un momento ci vedemmo circondati da tutte le parti, e tolta ogni via di scampo.
Con tutto ciò, anziché scemare il coraggio, lo raddoppiammo, ed il nostro furore pell'orrido tradimento fu tale, che ci scagliammo addosso a quei barbari cavalieri scaricando una sol volta le nostre armi da fuoco, e menando colpi terribili di punta e di taglio, non risparmiando dall'ira nostra né cavalli né cavalieri.
Ma tutti gl'incredibili nostri sforzi non valsero a frenare quei selvaggi combattenti, che fanno consistere la scienza militare in una disordinata carica che danno al nemico, quindi si sparpagliano a guisa d'uno sciame d'api, per tornar indi a replicare simili attacchi.
Quando mi ero accorto che gl'infelici compagni mi cadevano a lato, vittime di quegl'irregolari assalti, risolsi di giovarmi meglio che poteva dei consigli strategici acquistatimi in tante campagne colla mia esperienza militare, e sotto a più esperti maestri di guerra. Per la qual cosa ordinai che i miei dragoni si separassero in due piccoli plotoni, per frenare l'impeto suo, poiché continuava l'intrapresa carica sopra di noi.
Così indietreggiammo verso ad un prossimo bosco, tenendosi il primo plotone alla destra ed il secondo alla sinistra. Per tal modo, sempre combattendo, seguimmo quel difficile movimento finché giungemmo ad internarci tra il folto delle piante, ove quei cosacchi non osarono inseguirci».

Fin qui il racconto di Bertolini: in quel bosco troverà ad attenderlo la fanteria russa che lo farà prigioniero.

Ripercorriamo il racconto di Bertolini. Lui e i suoi uomini vengono sorpresi durante le ore notturne, si armano rapidamente e altrettanto rapidamente riescono a montare a cavallo e a disporsi su due fila.

La meccanicità del processo di schieramento doveva essere veramente ben assimilata da tutti gli uomini, e ciascuno prendeva un posto nello schieramento senza che lo conoscesse in precedenza.



Di fronte al confuso assalto dei cosacchi, i dragoni si dispongono ordinatamente su due fila. Rinunciano ad una difesa passiva, ma, di fronte a forze tanto superiori, si predispongono a cercare una qualche via di fuga con una tattica di contrattacchi calibrati.

Per massimizzare il proprio potenziale offensivo scaricano le armi da fuoco nel momento immediatamente precedente il contatto e quindi affrontano i cosacchi, che probabilmente impugnano lance, con le loro sciabole.


La decisione dell'azione ha l'effetto desiderato: la mischia sorprende gli avversari che perdono l'iniziativa.

I numeri, però, hanno il loro peso e le perdite si fanno sentire.


I cosacchi, come è loro abitudine, di fronte ad un nemico aggressivo, rispondono cedendo il campo e disperdendosi in mille direzioni.

A questo punto un inseguimento sarebbe un atto azzardato, che favorirebbe i cosacchi, permettendo loro di assalire i dragoni sparpagliati e disuniti.


Il tempo gudagnato con la carica iniziale consente ai dragoni superstiti di riorganizzarsi e di schierarsi in due linee affiancate che iniziano un movimento retrogrado: mentre una linea indietreggia, l'altra la copre dal possibile attacco nemico, alternatamente.

La salvezza è a portata di mano.