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LA VITTORIA DELLA TATTICA SULLA STRATEGIA

Agincourt, 25 ottobre 1415

nicola zotti



La notte del 24 ottobre 1415 il ventottenne re Enrico V di Inghilterra non poteva avere dubbi che la mattina successiva si sarebbe decisa la sua sorte.
L'11 agosto era salpato da Southampton conducendo oltre la Manica un esercito di 2.500 uomini d'arme e 8.000 arcieri alla conquista della piazzaforte di Harfleur per rivendicare i propri diritti sul continente conquistando una base militare più vicina ai suoi perduti feudi della Normandia. La città era caduta dopo un oltre un mese di assedio, costato 2.000 morti tra i suoi uomini solo per la dissenteria causata dalle cattive condizioni igieniche e dai molluschi della zona, mentre almeno altrettanti erano stati uccisi nei combattimenti o erano ripartiti per l'Inghilterra feriti o malati.

Con forze quasi dimezzate non era certo in condizione di continuare la campagna, ma neppure riteneva di poter riprendere la via della madrepatria senza un ulteriore gesto che dimostrasse la forza delle proprie rivendicazioni e, nonostante il parere contrario dei propri consiglieri militari, decise che avrebbe ripreso il mare dal proprio possedimento di Calais. Appena una settimana di viaggio attraverso la Francia sventolando la bandiera in aperta sfida più che al re Carlo VI, le cui precarie condizioni mentali non erano un mistero, quanto all'interna nobiltà francese che lo osteggiava ferocemente.

Nessuna armata nemica aveva interferito con l'assedio di Harfleur, e forse Enrico V riteneva che neppure adesso, quando ormai era sulla via di partenza, avrebbero osato farlo. Anche se in ritardo, però, la Francia stava mobilitando i propri contingenti feudali e recuperava rapidamente il tempo perduto animata da una forte volontà di riscatto. I nobili e le municipalità armarono le proprie notevolissime risorse umane: le forze disponibili superavano quelle che potevano essere condotte e soprattutto alimentate il tempo previsto per la campagna, per quanto breve, e una gran parte fu congedata. Gli oltre 30.000 uomini selezionati avevano comunque una superiorità schiacciante sugli inglesi, una vera e propria garanzia di vittoria.

Di quanto a questo punto fosse precaria la propria situazione, Enrico V si accorse l'11 ottobre quando, dopo tre giorni di viaggio, raggiunta la Somme ad Abbeville, trovò i francesi ad aspettarlo. Forzare il passaggio era impossibile, non restava che marciare verso sud risalendo il corso del fiume, alla disperata ricerca di un guado incustodito. Una vera e propria lotta contro il tempo perché gli inglesi avevano con sé solo i rifornimenti sufficienti alla settimana di viaggio prevista. Invece ci vollero ben altri 8 giorni perché Enrico e l'ormai esausto e affamato esercito inglese riuscissero ad attraversare il fiume indisturbati, immaginiamo per il provvidenziale suggerimento di una spia, e da quel momento incominciare a risalire verso nord e verso Calais.

Enrico sapeva quanto fossero provati i suoi uomini, ma per quanto alta fosse la tentazione di disertare e abbandonarlo al suo destino, li legava a lui non solo la fedeltà, quanto la circostanza di trovarsi in territorio ostile, dove disertare significava divenire una preda braccata crudelmente da ogni contadino francese. Nonostante questo il re inglese sorvegliò personalmente il guado del fiume e ogni fase della marcia che doveva portarli verso la salvezza.

Le possibilità di superare in velocità l'esercito francese che ormai li seguiva a poca distanza erano però minime e Enrico iniziò ad indossare le proprie insegne, un'azione che un re compiva solo nell'imminenza di una battaglia, e diede disposizione ai propri arcieri di dotarsi di un palo di un metro e ottanta appuntito alle estremità: piantato nel terreno con una punta rivolta al nemico avrebbe fornito loro una minima protezione contro le cariche di cavalleria.

Come previsto i francesi riuscirono agevolmente a tagliare la strada alla colonna nemica erigendo un muro umano tra questa e Calais, su un terreno arato in prossimità del villaggio di Agincourt. Ormai la battaglia era inevitabile e gli inglesi l'avrebbero affrontata stanchi, affamati, soffrendo ancora i postumi della dissenteria e con un'inferiorità numerica di 5 a 1.

A queste condizioni è comprensibile che nel campo francese si ostentasse sicurezza: il vantaggio strategico acquisito dai francesi era enorme.

Il comando dell'esercito di Carlo V era affidato a un consiglio di guerra, al quale partecipavano militari esperti come il maresciallo Boucicault e il connestabile d'Albret. Fu elaborato un piano di battaglia forse complesso ma che in teoria rispondeva all'esigenza di minimizzare il pericolo rappresentato dagli arcieri inglesi e dalle loro micidiali salve di frecce. La numerosa cavalleria, partendo dalle retrovie, avrebbe effettuato manovre a tenaglia su entrambe le ali: sulla sinistra inglese con un movimento aggirante contro il campo inglese, su quella destra con un attacco in forze sul fianco avversario. Mentre gli arcieri inglesi venivano impegnati dalla cavalleria, sulla loro fronte sarebbero intervenuti anche i tiratori in forza all'armata francese, sostenuti da fanterie, distraendone ulteriormente l'attenzione dall'attacco principale, che sarebbe stato condotto centralmente in due ondate successive dagli uomini d'arme appiedati contro i loro omologhi inglesi. Quelli sprovvisti di armi da corpo a corpo se ne sarebbero dotati accorciando le proprie lance.

Poteva funzionare, non fosse altro per la quantità delle forze che gli uomini di Enrico V avrebbero dovuto affrontare e che sarebbero riuscite a logorare truppe ben più numerose e fresche delle sue. L'armata francese, tuttavia, era troppo indisciplinata e abituata ad antiche logiche feudali, e far rispettare queste consegne sarebbe stato difficile anche in presenza di un autorevole e rispettato comando unico. Possiamo anche immaginare quanto fosse irritante per i nobili francesi che si assumessero tante cautele tattiche potendo godere di una superiorità così marcata: era un comportamento interpretabile come timoroso e come tale inaccettabile e origine di inevitabili reazioni.

La mattina della battaglia lo schieramento francese si presentò, infatti, molto diverso da quello concordato: l'attacco principale fu ancora affidato agli uomini d'arme appiedati (circa 8.000 uomini), ma in loro supporto non vi erano, come preventivato, contingenti di tiratori, ma le più tradizionali ali di cavalleria: 800 uomini alla loro destra e 1.600 alla sinistra. Gli oltre 5.000 arcieri e balestrieri – un numero di tiratori forse solo di poco inferiore a quelli inglesi – furono spinti indietro e un cronista francese riferirà che non effettueranno un solo tiro in tutto lo scontro. Una seconda linea è composta da altri 5.000 uomini d'arme appiedati e una terza e ultima da 10.000 cavalieri: in tutto gli oltre 30.000 francesi si accalcarono in uno spazio di 700 metri o poco più di fronte, non di rado scegliendo di schierarsi in una linea o nell'altra a seconda di come ritenessero fosse più onorevole per il proprio nome.

Ben diversa la situazione nel campo inglese dove Enrico V si dimostrò ancora una volta un leader attento e capace di trasferire ai propri uomini la fiducia in se stessi di cui avevano bisogno. Il re combatterà assieme ai 1.000 uomini d'arme che gli sono rimasti, occupando il centro dello schieramento, mentre equamente divisi sui fianchi, 5.000 arcieri forniranno il loro formidabile supporto di tiro. Davanti ai suoi uomini schierati Enrico V pronunciò un'esortazione non meno efficace di quella che gli attribuisce William Shakespeare nel dramma storico a lui dedicato («…di questi noi felicemente pochi, di questa nostra banda di fratelli», Enrico V, atto IV, scena III), durante la quale non mancò di ricordare ai suoi arcieri la promessa del re di Francia di far tagliare a quelli di loro che fossero stati catturati, indice, medio e anulare della mano destra per impedirgli per sempre di scoccare frecce: in pratica condannandoli alla disoccupazione.
Viene quindi ordinato agli arcieri di piantare per terra i loro pali appuntiti: tutto è pronto allo scontro.

I francesi però non si mossero. Le ore del mattino scorrevano, ma l'attacco francese si faceva attendere: la situazione suggeriva loro che prima o poi gli inglesi si sarebbero dovuti arrendere per pura consunzione.

agincourt 1


Perfettamente consapevole di questa eventualità, alle 11 del mattino, dopo un rapido consiglio di guerra, Enrico decise che non aveva nulla da guadagnare a rimanere inerte e decise di prendere l'iniziativa: gli arcieri divelsero i propri pali e lentamente e ordinatamente la formazione inglese avanzò nei campi arati. L'armatura appesantiva gli uomini d'arme e la terra inghiottiva i loro piedi rendendo faticoso ogni passo, ma procedendo senza affanni e con opportune pause riuscirono ad economizzare le poche energie che erano loro rimaste.
Percorsi così 700 metri e giunti a circa 200 dalla linea francese, gli inglesi si fermarono. Era la massima distanza alla quale il tiro degli archi lunghi poteva risultare efficace: gli arcieri conficcarono nuovamente i loro pali nel terreno morbido e attesero l'ordine per incominciare il tiro. I francesi avevano assistito all'avanzata inglese senza reagire – perdendo l'occasione di vincere la battaglia – ma tra poco sarebbero stati costretti a farlo. Infatti, ad un segnale convenuto, gli arcieri inglesi iniziarono un fitto lancio di frecce. Ne avevano abbondanti riserve ma è probabile che i primi tiri non fossero effettuati alla velocità massima che poteva raggiungere le dieci frecce al minuto: tendere l'arco lungo era estremamente faticoso e le energie dovevano essere conservate per tutto il tempo necessario.

agincourt 2


I primi tiri furono comunque sufficienti a obbligare la cavalleria francese schierata di fronte a loro a reagire con una carica. Le ore trascorse in attesa avevano provocato l'allontanamento della gran parte dei cavalieri sulle ali e i pochi rimasti risposero alla provocazione con lo scarso impeto consentito dal terreno molle. Le frecce, compiendo una parabola, colpivano i cavalieri dall'alto, senza arrecare grandi danni agli uomini – pare che alla fine i morti furono solo tre, schiantatisi contro l'improvvisata barriera di pali – ma ferendo e innervosendo i cavalli meno protetti da armatura. Verificata l'impossibilità oltre che l'inutilità dell'attacco, i cavalieri presero la via del ritorno inseguiti dalle frecce inglesi che proseguirono spietatamente a tormentare gli uomini e soprattutto gli animali: in breve la ritirata si trasformò in una fuga che ebbe un imprevisto effetto disastroso. Nel frattempo, infatti, gli uomini d'arme della prima linea francese erano partiti all'attacco. Le condizioni del terreno che dovevano percorrere erano persino peggiori di quello attraversato dagli inglesi, perché per tutta la notte i loro valletti vi avevano fatto scaldare i cavalli, intirizziti dal freddo, trasformandolo in una specie di palude accidentata. Ora, affondati nel fango, vennero travolti dalla propria stessa cavalleria in rotta e, per cercare di sottrarsi a quel pericolo, si schiacciarono verso il centro della propria formazione trasmettendovi il caos.
agincourt 3


Era solo l'inizio della fine. Infatti le frecce degli arcieri inglesi, provenendo dai due lati, accentuarono la caotica spinta degli uomini d'arme dai fianchi verso il centro della formazione francese, sconvolgendone completamente l'assetto. In queste condizioni gli attaccanti avevano perso qualsiasi parvenza di ordine e di coesione, ma erano solo un ammasso confuso di uomini stanchi, con le gambe infilate nel fango fino al ginocchio e la testa bassa per evitare la pioggia di dardi.

Mano a mano che la distanza si riduceva, aumentava la letalità del tiro degli arcieri che a breve distanza non ferivano solo penetrando fortuitamente un punto scoperto, ad esempio le fessure per gli occhi, ma potevano perforare anche la lamiera metallica dell'armatura usando apposite frecce. Così accalcati l'uno sull'altro, procedendo alla cieca trascinati dalla massa, in alcuni casi sanguinanti, i francesi giunsero al contatto con gli inglesi senza praticamente riuscire ad esercitare la pressione che il loro numero avrebbe dovuto garantire. Il combattimento fu comunque molto cruento e gli inglesi dovettero comunque dare prova della loro grande fermezza e solidità.

Anche gli arcieri dai fianchi si gettarono nel vivo dell'azione con le poche armi che possedevano, a volte solo il martello con il quale avevano conficcato il proprio palo, confidando nella propria mobilità e riuscendo ad avere facilmente la meglio sugli esausti ed immobili uomini d'arme francesi. Re Enrico partecipò alla mischia, rischiando la vita e salvandosi solo grazie al pesante elmo da torneo che indossava al posto di quello da battaglia.

Il sopraggiungere della seconda linea in soccorso della prima non modificò l'andamento della battaglia, ma anzi lo peggiorò creando nuova insostenibile pressione sulla prima linea, i cui appartenenti iniziarono ad arrendersi in massa. Chi poteva fuggì con le poche forze che gli rimanevano, seguendo le orme della gran parte dei cavalieri della terza linea che, dopo aver assistito impotenti al massacro, se ne erano già andati, lasciando gli inglesi padroni del campo.

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Poco dopo mezzogiorno la battaglia di Agincourt era virtualmente finita, ma né i francesi né gli inglesi se ne erano ancora resi conto. Nelle retrovie inglesi si stavano radunando migliaia di prigionieri francesi per i quali si poteva chiedere un oneroso riscatto, quando giunsero allarmate notizie di due nuovi attacchi: uno alle spalle contro l’accampamento inglese e un rinnovato attacco frontale di cavalleria. Minacciati da due lati e preoccupati che i prigionieri potessero raccogliere le armi che avevano abbandonato, Enrico V prese una decisione destinata a gettare il disonore su di lui e sulla sua stessa vittoria: lo sterminio dei prigionieri. Nessun uomo d’arme volle eseguire l’ordine del re, assassinando a sangue freddo dei propri pari, e il crudele compito venne affidato a 200 arcieri. Quando le due velleitarie minacce furono sventate, e le esecuzioni vennero interrotte, rimanevano vivi circa 1.500 prigionieri.

Carlo VI non aveva perso solo una battaglia, ma il fior fiore della propria classe dirigente e dei propri sostenitori, lasciandolo solo e incapace di organizzare qualsiasi reazione.
L'esito inequivocabile della battaglia nella mentalità medioevale aveva la forza di un pronunciamento divino del quale Enrico V seppe approfittare dando inizio ad un lungo periodo di superiorità inglese nella guerra dei Cento anni.

Agincourt fu sicuramente una vittoria completa, i cui frutti però maturarono col tempo. Accolto in patria come un eroe benedetto da Dio, Enrico rinsaldò oltre ogni contestazione la legittimità della dinastia Lancaster, mentre i sovrani europei, ad esclusione ovviamente di Carlo VI, incominciarono a considerare le sue pretese e le sue future campagne militari sul suolo francese come la semplice difesa dei suoi diritti.

In Francia la guerra civile tra la fazione armagnacca, che aveva pagato ad Agincourt il più alto tributo di sangue, e quella borgognona, che invece era rimasta sostanzialmente neutrale, si riaccese volgendo a favore di quest'ultima. Il caos che ne scaturì diede ben 18 mesi di tempo ad Enrico per i preparativi militari e diplomatici della ripresa delle ostilità. Ci vollero ancora alcuni anni affinché Enrico riuscisse a raggiungere i suoi obiettivi, ma finalmente con il trattato di Troyes nel 1420, stringendo un'alleanza con i borgognoni e sposando Caterina di Valois, figlia di Carlo VI, fu dichiarato erede al trono di Francia. Lo fermò solo dalla morte avvenuta due anni dopo: il centro della scena passava ora all'umile pastorella Giovanna d'Arco.