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STORIA DI UNA RIVOLUZIONE LENTISSIMA

Introduzione alla storia dell'artiglieria


nicola zotti



Quando il primo colpo di cannone esplose fragorosamente su un campo di battaglia, dando avvio alla più grande “rivoluzione” della storia militare, il materiale che fece da propellente al proiettile non fu la polvere da sparo, ma la mente degli uomini. Quel giorno era iniziata la corsa a rendere sempre più letale il connubio tra un tubo metallico e il suo contenuto, una gara intellettuale di cui ancora non vediamo la fine.

L’invenzione della polvere da sparo, miscuglio di salnitro, carbone di legna e zolfo, è immersa nelle nebbie della storia. Forse i Cinesi disponevano già prima dell’anno mille di qualche mistura incendiaria, più simile ai fuochi di artificio in realtà che alla polvere da sparo, basata sul salnitro. È infatti questo sale la componente fondamentale della polvere da sparo, perché contribuisce al composto con le sue qualità ossidanti, ovvero fornisce l’ossigeno necessario affinché il carbone di legna finemente triturato bruci così velocemente da produrre un’esplosione. Migliore la qualità del carbone di legna e maggiore sarà lo scoppio, ma qualsiasi materia organica altamente infiammabile può essere usata al suo posto. Lo zolfo, la parte minore del composto, fa praticamente solo da innesco, avendo una temperatura di infiammabilità inferiore a quella del salnitro. L’accensione della polvere provoca la subitanea produzione di gas che moltiplicano il volume originario della miscela e generano l’effetto esplosivo.

Tutto apparentemente semplice, con materiali conosciuti fin dall’antichità, compreso il nitro che è citato da Plinio Seniore nella sua “Storia naturale” e forse persino nella Bibbia. Eppure tutto anche tremendamente complesso, perché imbrigliare l’energia prodotta dalla polvere da sparo e scoprire come usarla efficacemente in guerra fu un processo secolare, lento ma inarrestabile, alimentato dalle menti di innumerevoli protagonisti.

La prima “ricetta” affidabile della polvere da sparo è descritta dal frate francescano e alchimista inglese Ruggero Bacone a metà del XIII secolo nell’opera “De Secretis Operibus Artis et Naturae" e consiste di 7 parti in volume di Salnitro, 5 di carbone di nocciolo e 5 di zolfo. Bacone tiene a precisare che il composto è “ben noto a tutti”, dato l’uso che già allora se ne faceva per disturbare e spaventare le persone, aggiungendo che basterebbe creare ordigni più grandi con involucri in materiale solido per provocare danni molto maggiori.

Per inciso, questa polvere non è affatto nera, ma assume tonalità che vanno dal grigio al color caffé: divenne nera a metà Ottocento quando le fu aggiunta polvere di grafite per renderla meno igroscopica e per ditinguerla dalla "polvere bianca", quella senza fumo.

La granata esplosiva suggerita dal francescano alchimista, però, non fu la prima linea di utilizzo della polvere da sparo. Nei primi decenni del Trecento in tutta Europa sono infatti già diffuse le armi da fuoco, la cui sola presenza è sufficiente per costringere alla resa fortificazioni considerate imprendibili: a Ghent, in Belgio, sono presenti nelle armerie dal 1313, vengono usate in Francia nell’assedio di Metz del 1323, e a Firenze si ordinano palle di ferro e “canones” nel 1326. In questo stesso anno abbiamo la prima immagine di un pezzo di artiglieria: l’erudito inglese Walter de Milemete lo illustra a uno studente di eccezione, il futuro re Edoardo III: è un “vaso di ferro” dal quale fuoriesce una pesante freccia scagliata contro le mura di una città, mentre un artigliere innesca l’esplosione con un ferro incandescente infilato in un foro dell’ordigno. La forma è proprio quella di un vaso, forse perché familiare ai fonditori di campane che erano gli unici all’epoca ad avere le necessarie competenze metallurgiche.


cannone medioevale


Ben presto, però, i cannoni assunsero la forma tubolare che hanno ancora oggi, saldando tra loro barre di metallo attorno ad un cilindro di legno e poi tenendole strette con altre robuste cinture metalliche, come le doghe di una botte, e il fondo veniva poi chiuso avvitando una culatta.

Da quel tubo si continuarono a sparare grosse frecce, ma anche, e presto soprattutto, palle di ferro e di pietra: queste ultime con il vantaggio della comodità di poterle preparare direttamente sul luogo del combattimento.

La metallurgia dovette rispondere alla “esplosiva” domanda di armi con un enorme sforzo organizzativo e inventivo. Venne utilizzato ogni tipo di metallo e di lega, scegliendo poi prevalentemente bronzo e ferro, gli unici abbastanza resistenti da garantire un uso sufficientemente sicuro e prolungato nel tempo.
In questa prima corsa agli armamenti, però, l’ostacolo maggiore era reperire gli ingredienti per la polvere da sparo: non il carbone di legna, perché la carbonizzazione era un procedimento ben conosciuto, né lo zolfo ma soprattutto il salnitro.

Lo zolfo migliore d’Europa proveniva dalla Sicilia, e giacimenti si trovano un po’ dovunque: più è puro il minerale, più semplice distillarlo per ottenerne i cristalli.

Il salnitro, invece, richiede anni per essere prodotto e raffinato. La sua efflorescenza spontanea sui muri umidi è ovviamente insufficiente, e si ricorse inizialmente all’importazione dall’Oriente. Ma la produzione diretta divenne ben presto la principale fonte di approvvigionamento, nonostante la sua laboriosità: i letti di coltura composti da animali e vegetali in decomposizione devono essere bagnati di letame e urina, che appositi addetti procurano “ripulendo” le fattorie, sfondando persino i pavimenti delle stalle. Il processo di fermentazione dura tre anni, durante i quali la massa putrescente va rivotata e areata costantemente, e nutrita con calcinacci, ceneri e scarti della fabbricazione del sapone. Poi la materia grezza così ottenuta è purificata in successivi lavaggi prima di essere distillata.

I tre ingredienti vengono mescolati nel luogo di utilizzo, perché altrimenti durante il trasporto si separerebbero: è solo uno dei compiti, e nemmeno il più importante, di nuove consorterie di professionisti altamente specializzati, gli artificieri e gli artiglieri. Sanno leggere e scrivere, hanno competenze che si estendono dalla matematica, alla chimica, e persino all’ingegneria, perché le pesantissime armi da fuoco sono legate a postazioni fisse su piazzole che devono essere abbastanza resistenti da sopportarne il tremendo rinculo e bisogna schierarli là dove faranno il danno maggiore, perché spostarli sarebbe problematico. Sono civili assoldati a contratto, guardati con timore dagli altri uomini per la loro familiarità con quel fuoco “infernale”: a poco servono per riabilitarli i periodi di cristiana contrizione a cui si dedicano dopo ogni impiego bellico.

Dalla collaborazione tra militari, fonditori e artiglieri nacquero armi sempre più efficaci, letali e specializzate: tozzi mortai a tiro curvo e gigantesche bombarde per gli assedi, più agili colubrine, falconi e falconetti in battaglia. Un’effervescenza creativa con scopi dichiaratamente letali, a volte forse ingenua e bizzarra, ma più spesso fertile e portatrice di preziosi contributi.

Con l’invenzione nel Quattrocento degli orecchioni, perni che si prolungano ai lati della canna fissandola all’affusto, il tiro può essere elevato a piacimento, mentre dotando gli affusti di ruote si conferisce alle artiglierie una prima rudimentale mobilità. Sempre nel Quattrocento si scopre la “granulazione” della polvere da sparo, che viene bagnata, essiccata in fogli e quindi triturata in grani: questo permette di trasportarla finalmente pronta all’uso e la rende più uniforme e infiammabile. Proprio nel Quattrocento la ricetta della polvere da sparo si perfeziona, stabilizzandosi attorno a proporzioni che rimarranno valide per i successivi 4 secoli: rispetto alla formula di Bacone si riducono le quantità di zolfo e carbone a vantaggio del salnitro, per ottenere una polvere più “vivace” e che lascia meno pericolosi residui incombusti nella canna.

La guerra dei Cent’Anni (1337–1453) tra Francia e Inghilterra è il primo conflitto che vide un uso esteso delle artiglierie e forse il primo impiego su un campo di battaglia ad opera del già citato Edoardo III a Crecy nel 1346, ma fu solo con la campagna d’Italia del re francese Carlo VIII (1494-1497) che venne formato il primo vero treno di artiglieria: 300 pezzi di cui 70 d’assedio, che costituivano il cuore dell’armata.

Durante le guerre rinascimentali italiane le linee di sviluppo tecnologico e di impiego tattico dell’artiglieria sono già tutte tracciate: l’artiglieria deve collaborare con la sua insuperabile forza distruttiva alle operazioni militari integrandosi con le altre armi. Deve diventare più mobile, più rapida nel tiro, più potente e micidiale. Queste armi ancora rudimentali riescono a sparare solo pochi colpi al giorno, eppure nessun esercito pensa di potersene privare. Ricordo anche che per lungo tempo i cannoni furono praticamente immobili sul campo di battaglia, divenendo spesso inutili dopo i primi colpi, perché impossibilitati a seguire il corso dell’azione. Chi attaccava doveva spesso avanzare davanti ai propri cannoni, impedendo loro di tirare e in caso di sconfitta l’artiglieria rimaneva inevitabilmente preda del vincitore.

L’invenzione della polvere da sparo e del cannone uno stimolo incredibile per gli studiosi rinascimentali. Gli alchimisti medioevali avevano consegnato loro un sistema d’arma di enorme potenza, non solo sul campo di battaglia, ma anche per la suggestione che sapeva creare alle menti creative. Tra i più coinvolti non poteva mancare Leonardo da Vinci, che produsse studi all’altezza del suo genio sulla balistica, sulle tecniche d’assedio, e giungendo persino a progettare un predecessore del carro armato. L’eccezionale capacità di osservazione di Leonardo nei suoi disegni riuscì a fissare la parabola di volo dei proiettili esplosivi lanciati da un mortaio, ipotizzando anche il primo esempio di bombardamento a tappeto, realizzato mediante il successivo spostamento di una ghiera dentata che orientava l’alzo del pezzo.

Scienza, tecnologia e industria devono rispondere alle esigenze tattiche e strategiche, ma nell’attesa queste ultime si adatteranno a ciò che è disponibile al momento. Il Cinquecento ad esempio porta nuove tecniche metallurgiche: si riescono a realizzare i cannoni in un’unica fusione, il centro della quale è occupato da un cuore di creta. Il risultato è un cannone più robusto e di un calibro che più esattamente può corrispondere a quello dei proiettili. Vi sarà quindi meno dispersione di gas (in termini tecnici il “vento”) durante l’esplosione e un tiro più potente e preciso. A parità di calibro rispetto al passato, i cannoni possono essere più leggeri e hanno bisogno di meno carica per esprimere la stessa potenza, perché la sfruttano meglio. Le artiglierie pesanti sono ancora praticamente statiche, ma altre (molto) più leggere possono combattere in supporto ravvicinato della fanteria e sostenerne lo sforzo anche in attacco e non solo in difesa.

La standardizzazione dei calibri e dei modelli non è più un miraggio e i principali innovatori militari del Seicento, come il re Gustavo Adolfo di Svezia (1594-1632), se ne fanno i propugnatori, semplificando di molto l’apparato logistico. Riducendo, infatti, la tipologia dei cannoni a pochi essenziali modelli, si razionalizza il problema di rifornirli di proiettili.

Il processo produttivo, però, rimase ancora a lungo sostanzialmente artigianale, con tutti i pregi e i difetti che ne sono caratteristici. Per un artigiano, infatti, era impossibile produrre cannoni in serie, con le medesime caratteristiche e soprattutto con calibri perfettamente identici, ma ogni arma era un pezzo unico, diverso da tutti gli altri, perché lo stampo andava perso durante la fusione. Nel Seicento, però, l’abilità di questi artigiani aveva già raggiunto livelli di eccellenza e risultati sorprendenti. Le officine del sopracitato Gustavo Adolfo erano ad esempio capaci di produrre cannoni con differenze di calibro effettivo inferiori al 2%. L’opera degli artigiani raggiungeva però il suo apice nelle decorazioni che “abbellivano” e rendevano ancora più unici i propri lavori, a volte trasformandoli in un oggetto d’arte. La potenza e il prestigio dei re si misurava anche con la loro attenzione verso questi dettagli all’apparenza trascurabili.

Verso la fine del secolo gli Svedesi introdussero per primi l'Obice, un pezzo la cui lunghezza è da 15 a 25 volte il calibro (quelli più corti sono i mortai, quelli più lunghi i cannoni): un pezzo multiruolo a tiro più curvo del cannone, la cui elasticità e leggerezza lo rese molto utile sui campi di battaglia per il tiro di bombe esplosive o per la mitraglia a distanza ravvicinata.

Il Seicento porta anche i primi studi scientifici sulla balistica ad opera di Francois Blondel (1618-1686) che applica all’artiglieria l’opera di Galileo Galilei sulle leggi del movimento: la strada è aperta, e il matematico francese Bernard Forest de Bélidor (1698-1761) darà alle stampe nel 1731 “Le Bombardier français”, contenente le prime tabelle balistiche, con le quali dimostra che le cariche in uso all’epoca sono troppo potenti e non solo sprecano inutilmente polvere nera, ma consumano prematuramente i cannoni.

Con una carica dimezzata i cannoni possono essere ancora più leggeri e, quindi, più mobili e più rapidi da caricare: un processo al quale contribuiranno a metà del Settecento lo svizzero Jean Maritz (1680–1743) prima e il francese Jean de Gribeauval (1715–1789) poi, che introdussero la tecnica della costruzione dei cannoni mediante alesaggio: il foro prodotto nella fusione perfezionava ulteriormente la corrispondenza tra le pareti della canna e la palla, permettendo un nuovo, decisivo, alleggerimento dell’arma e fornendo a Napoleone Bonaparte lo strumento agile e potente di cui aveva bisogno per le sue tattiche aggressive. La parabola del letale connubio tra polvere da sparo e cannone era giunta al suo apice: finalmente gli eserciti disponevano dello strumento che fino ad allora avevano solo immaginato, capace di muoversi sul terreno in cooperazione con le altre armi, per concentrare in un punto preciso e al momento voluto, sufficiente potere distruttivo da decidere le battaglie. Con affusti e carriaggi di poco più pesanti ma anche molto più resistenti, anch’essi invenzione di de Gribeauval, e gli artiglieri montati a cavallo, i cannoni potevano addirittura seguire gli spostamenti della cavalleria, appoggiandone l’azione con il proprio tiro ravvicinato: è la specialità dell’artiglieria a cavallo piemontese durante le guerre risorgimentali che le meritò il nome di “Voloire”, artiglieria “volante”.

Una “evoluzione” quella dell’artiglieria, dunque, più che una rivoluzione, eppure era tutta già scritta fin dal Medioevo, con scienziati e tecnici a rendere reali con le loro intelligenze i desideri dei comandanti militari: un’unica storia che già contiene episodi come il “tritacarne di Verdun” della Prima guerra mondiale, la battaglia di annientamento pianificata dal generale tedesco Erich von Falkenhayn, che dal 21 febbraio al 19 dicembre 1916 distrusse le vite di 300.000 soldati francesi e tedeschi, ferendone tre volte tanti, usando armi gigantesche come i mortai da 42 cm, meglio noti come “Dicke Bertha”, la Grossa Bertha: il migliore acciaio delle fabbriche Krupp e i più potenti esplosivi di ultima generazione, avevano raccolto la letale eredità di fonditori e alchimisti di molti secoli prima.