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UN SOGNO DIVENTATO INCUBO

L'Invincibile armata


nicola zotti



Mai un'Armata è passata alla storia con una qualifica (invincibile) tanto inappropriata. In realtà non apparteneva nemmeno al suo vero nome, ma tant'è, così, inoppurtunamente, la ricordiamo oggi.

Filippo II aveva ereditato nel 1556 dal padre Carlo V un impero sterminato e responsabilità altrettanto grandi, la principale delle quali – per suo profondo convincimento – era la difesa del primato del Cattolicesimo nell’età della Controriforma.

Due le minacce principali: gli “eretici” protestanti e gli Ottomani musulmani, alleati contro di lui in uno sforzo di fatto convergente. Gli attacchi portati dalle varie confessioni protestanti travalicavano le diversità di interpretazione della dottrina di Cristo per assumere il profilo di fermenti nazionalistici e di lotte per la supremazia in Europa e sulle ricche colonie.

Quest’ultimo in particolare il campo di lotta privilegiato dalla vitale e prorompente Inghilterra elisabettiana.

La figura della regina Elisabetta I di Inghilterra ci colpisce ancora oggi con un carisma che il tempo non ha affievolito.

La ricordiamo come una donna energica e volitiva, progenitrice di un’Inghilterra orgogliosa, e capace di coltivare e realizzare un sogno imperiale. Con questa immagine ha sostenuto il popolo inglese nei periodi bui e lo ha aiutato a celebrarsi in quelli gloriosi. È però legittimo anche descrivere un’Elisabetta diversa.

Ultima esponente della dinastia Tudor, non poteva certo sottovalutare i rischi che aveva corso il suo paese durante le guerre civili ricordate come “Guerre delle rose”. In un’Europa travagliata da conflitti intestini, l’Inghilterra elisabettiana si distinse per una sostanziale concordia interna della quale la stessa regina andava particolarmente fiera. E all’origine della potenza di Elisabetta e del suo regno c’era indubbiamente questa pace interna con la quale poteva indicare al suo popolo interessi nazionali condivisi

La regina Elisabetta, che pure era stata in predicato di sposare Filippo, era divenuta sostenitrice della rivolta dei Paesi Bassi spagnoli ed ora sosteneva la confederazione secessionista delle Province unite.

La comune adesione al movimento protestante della regina e degli Olandesi faceva da sfondo al progetto condiviso da entrambi di aggredire i possedimenti coloniali spagnoli e i Galeoni con i quali portavano in patria fiumi di oro.

Era un duro colpo per la Spagna, che dall’Olanda riscuoteva gran parte delle proprie tasse e Filippo reagì avviando contro l’Inghilterra un conflitto mai dichiarato ufficialmente con il quale immaginava di raggiungere il duplice scopo di sottrarre ai ribelli un importante sostegno e di dare un colpo decisivo alle ambizioni (e alla pirateria) degli inglesi.

Un’impresa militare grandiosa che prevedeva di portare la guerra direttamente sul suolo inglese con lo sbarco di una grande armata: in realtà, però, si trattava di un fallimento annunciato, un’operazione che nessuno spagnolo, tranne ovviamente Filippo, credeva veramente realizzabile. Perché vincere sarebbe stato possibile solo per miracolo, e il re di Spagna credeva fermamente che l'intervento divino avrebbe assistito la sua flotta portandola alla vittoria, assicurandosi, coerentemente, più della presenza a bordo delle sue navi di preti che di esperti artiglieri.

La flotta con la quale nel 1588 Filippo II intendeva invadere l’Inghilterra era forte di 130 navi. Un numero assai considerevole per l’epoca, che giustifica ampiamente almeno la prima parte dell’appellativo con il quale venne chiamata: “Grande e Fortunatissima Armata”.

In realtà il progetto originario del re di Spagna era ancora più grandioso e doveva comprendere ben 500 imbarcazioni, facendo giungere nei porti spagnoli sull’Atlantico, anche buona parte della flotta mediterranea.

Nel 1571 la flotta spagnola nel Mediterraneo era stata protagonista della coalizione che aveva sconfitto i Turchi Ottomani a Lepanto e vantava un’altissima reputazione. Sguarnire il fianco meridionale dei possedimenti spagnoli in Europa venne ritenuto troppo azzardato e la spedizione partì dal porto di La Coruña in Spagna con “solo” 22 galeoni e 108 mercantili convertiti per l’occasione in navi da guerra: in tutto trasportavano oltre 25.000 uomini e quasi 2.500 cannoni.

Il Galeone spagnolo era una nave robusta (talmente robusta che gli inglesi dovevano avvicinarsi a distanze di tiro inferiori a cento metri per riuscire a perforarne lo scafo), fatta per resistere ai lunghi viaggi transoceanici, capiente, sufficientemente maneggevole e veloce, anche se solo i galeoni più grandi avevano quattro alberi: albero prodiero e maestro con vela quadra, albero di mezzana e di bonaventura con vela latina. Simili in questo alle Caravelle, ma più grandi e con un profilo ribassato che garantiva stabilità. Le proporzioni tra lunghezza e larghezza erano studiate per raggiungere un compromesso soddisfacente tra la capacità di trasporto e quella di solcare le onde.

Detto questo, va ricordato che la stiva dei galeoni spagnoli dell’Armata era appesantita di rifornimenti per la prevista invasione, con una sensibile riduzione della manovrabilità. Le artiglierie che li armavano erano cannoni “terrestri” imbarcati per l’occasione e non armi specificatamente navali. Il ponte erainoltre ingombro di rifornimenti di ogni tipo e gli uomini avevano pochissimo spazio di manovra durante i combattimenti.

I galeoni spagnoli si dimostrarono un osso molto duro da rodere per i galeoni inglesi, che pure erano imbarcazioni specificatamente progettate per la guerra sui mari dall’ammiraglio John Hawkins: con un profilo ancora più basso e una sezione più sottile per una maggiore manovrabilità. Anche i cannoni inglesi erano di qualità migliore rispetto a quelli spagnoli, e montati su affusti a quattro ruote per aumentare la stabilità del tiro e rendere più rapido il caricamento.

Queste differenze rispondevano ad una diversa dottrina di impiego tattico: gli spagnoli prediligevano ancora l’abbordaggio, gli inglesi preferivano la manovra e il combattimento a distanza con l’artiglieria.



armada


Il piano di invasione della flotta spagnola prevedeva che essa si facesse strada nel Canale della Manica fino a raggiungere il porto di Gravelines, nei Paesi bassi spagnoli. Qui avrebbe imbarcato l’esercito di invasione, forte di 30.000 uomini al comando del duca di Parma, uno dei principali estensori del piano.

La flotta spagnola, guidata dal Duca di Medina-Sedonia, lasciò il porto di La Coruña in Spagna il 23 luglio e fu avvistata dagli inglesi al largo della Cornovaglia il 29.

Il giorno dopo fu immediatamente attaccata senza successo dall’ammiraglio inglese lord Howard, uscito con ben 200 navi dal porto di Plymouth.

L’Armata riuscì a proseguire la navigazione nonostante il pressante inseguimento di lord Howard e numerosi combattimenti, ma giunta a destinazione davanti al porto di Gravelines, fu subito chiaro che non era possibile caricarvi a bordo come preventivato l’esercito di invasione. L’azione di disturbo congiunta nelle acque basse del naviglio leggero inglese e olandese sconsigliava ai barconi carichi di soldati di raggiungere la flotta: un impedimento che Filippo II per incauto ottimismo non aveva voluto prendere in considerazione.

Dopo alcuni giorni furono gli inglesi a prendere l’iniziativa trasformando un fallimento in una catastrofe. La notte dell’8 agosto attaccarono l’Armata con 8 “brulotti”, piccole imbarcazione incendiare: i danni furono minimi, ma lo schieramento dell’armata fu rotto e molte imbarcazioni dopo aver mollato gli ormeggi si diedero alla fuga.

La tattica inglese prevedeva di avvicinarsi ai vascelli avversari per combattere da distanza ravvicinata: sotto i 100 metri se volevano perforare lo spesso scafo delle galee spagnole.

Gli spagnoli invece combattevano sparando una sola salva di fiancata per poi prepararsi all’abbordaggio: gli inglesi trovarono le stive delle navi catturate ancora piene di polvere da sparo.

Alla fine, la battaglia di Gravelines causò la perdita di 5 navi spagnole.

Avrebbero potuto essere di più, ma gli inglesi avevano esaurito le riserve di polvere, ridotte dai combattimenti dei giorni precedenti, e si ritirarono.

A Medina-Sedonia non rimaneva che fuggire verso nord, compiendo il periplo delle isole Britanniche. Il viaggio durò 44 giorni e fu funestato da tempeste che dispersero quanto restava della flotta, e da venti fortissimi che schiacciarono contro gli scogli della costa irlandese numerosi vascelli: solo 68 di riuscirono a fare ritorno in patria.