Ricordo certi film di Kung Fu degli anni Settanta: c'era sempre un maestro che ricercava e alla fine trovava un colpo imparabile che lo rendeva invincibile. Oppure un altro che possedeva una tecnica speciale che lo faceva diventare invulnerabile. O anche un guerriero così veloce da essere inafferrabile e al contempo dotato di colpi inarrestabili.
E non ho ancora finito con quest'orgia di avverbi, perché mi torna in mente un famoso dilemma logico: «chi avrebbe la meglio tra una palla di cannone irresistibile e un pilone inamovibile?"
L'uomo spaventato per poter dormire deve augurarsi di sognare
l'onnipotenza. E tutti noi siamo uomini spaventati, chi più chi meno.
Il punto è non comportarsi come tali quando ragioniamo come comunità.
In guerra, infatti, l'invincibilità non è contemplata. La nostra ragione, nei processi di analisi delle condizioni di vittoria, può considerarla come argomento per la manipolazione degli entusiasmi, ma se finisce col credere alle proprie costruzioni ideologiche è destinata al disastro.
In matematica esiste il concetto di infinito. Nelle religioni è necessario e intrinseco. In politica (ovvero in guerra) e in tutto ciò che riguarda l'agire del genere umano, no.
Alcune menti astratte
hanno provato ad introdurlo nel pensiero e nell'esperienza sociale, ma anche se le loro idee non hanno attecchito universalmente, un qualche lascito nel pensiero comune è rimasto: cioè che chi agisce puntando al bene assoluto, magari giungerà al di sotto di questo obiettivo, ma otterrà comunque risultati positivi. Mentre al contrario chi ragiona per obiettivi limitati sarà sempre contenuto dentro di essi e mai ci regalerà la sopresa di una performance superiore.
Incontriamo questa opinione in talmente tante occasioni che non ci facciamo neppure più caso. Eppure è sbagliata.
A volte, ad esempio,
il concetto ci arriva nella sua forma negativa, o se preferite "debole", che io chiamo "benaltrismo": c'è sempre qualcuno che dice che i problemi sono "ben altri" e "ben altre" le soluzioni. Per loro si vola sempre troppo bassi e per volare veramente alto bisogna puntare all'infinito.
L'invincibilità, in realtà, è un concetto passivo: semplicemente significa che il soggetto non può essere sconfitto. Non indica, se non in senso lato, che il soggetto debba uscire ineluttabilmente vincitore da un conflitto.
L'invincibilità, dunque, è la qualità che attribuiamo a chi vince "al limite": ovvero per la consunzione dell'avversario, il quale, constatata l'impossibilità di imporre la propria volontà all'avversario, si ritira dalla lotta.
Presuppone, dunque, la praticabilità di quella "guerra assoluta" che von Clausewitz definisce una "fantasia logica", la guerra "in pura teoria",
per distinguerla dalla guerra "reale", l'idealtipo al quale la guerra vera può solo approssimarsi.
La Genesi (11, 1-9) racconta che gli uomini costruirono una città e una torre per raggiungere il cielo e dunque Dio, con la concomitante intenzione di farsi "un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma Dio ha altri progetti per loro: la disunione e lingue diverse "perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro".
L'ultimo atto unitario del genere umano concordato tramite una lingua comune -- e quindi il presupposto stesso del conflitto -- è dunque proprio la tensione al limite, e la disunione il motivo primo della rinuncia definitiva a questo obiettivo, o meglio a realilzzare in questo modo il più alto obiettivo del genere umano.
Non un atto di superbia, ma di ricongiungimento con Dio, un atto creativo (costruire e farsi un nome) e unitario, perché è nella sua completezza che il genere umano vuole ricucire lo strappo originario che li ha separati da Dio, quando Adamo ed Eva si cibarono del frutto dell'albero del Bene e del Male, acquisendo anche condizioni necessarie al conflitto: la conoscenza e la mortalità.
C'è così una profonda analogia simbolica tra la "tendenza al limite" e il conflitto. Una vera e propria consequenzialità, anzi, della quale dobbiamo tenere conto, perché rappresenta lo scenario nel quale si muove la guerra "reale" descritta da von Clausewitz.
Ogni parte in un conflitto si dichiara "invincibile". Non avrebbe la forza morale di incominciare una guerra se emotivamente non si ritenesse tale, ma in realtà non lo è e non lo può essere, perché la guerra reale ha limiti, magari non perfettamente noti, ma veri e insuperabili, e la determinazione
di questi limiti, propri e dell'avversario, è uno delle principali esigenze dei confliggenti.
Su di essi, sul presupposto della loro esistenza, ovvero su basi concrete, deve avvenire la commisurazione e l'impiego razionale
delle risorse: avere, al contrario, fondamenti irrazionali rende irrazionale anche il processo logico.
L'invincibile Viet-Nam, l'invincibile Afghanistan, l'invincibile terrorismo sono miti: meno interessanti di quello della "torre di Babele" e alimentati da quanti non hanno saputo trovare i confini di quella "vincibilità" o, peggio, hanno misurato male la propria di invincibilità, basandola su presupposti errati.
Ad esempio la superiorità tecnologica, come pensava Re Archidamo III, citato in testa a questa voce, convinto che essa avesse annullato il potere del valore dell'uomo.
Perché la guerra reale può assolvere chi crede alle proprie costruzioni ideologiche, ma non ha pietà per chi, con la propria ragione dormiente, non sa trasformarle in idee concrete rispettose della logica della guerra.
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