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LA PRIMA LEZIONE DI FEDERICO II DI PRUSSIA

Mollwitz 10 aprile 1741

nicola zotti


Ambiziosi si nasce, grandi si diventa.

Federico II di Prussia aveva di natura indubbiamente la prima caratteristica e il padre lo aveva fornito, con la sua maniacale dedizione e le sue geniali intuizioni, dello strumento per praticare la strada della grandezza: un esercito straordinario e senza eguali in Europa.

Come Alessandro, aveva ricevuto in eredità dal padre, Filippo II, una formidabile macchina da guerra, ma diversamente dal Macedone viveva in un mondo con regole più stringenti e convenzioni più difficili da aggirare.

L'occasione per agire gli venne fornita da una complessa situazione dinastica legata al diritto di successione al trono degli Asburgo, che aveva permesso l'accendersi generalizzato degli appetiti dei potenti d'Europa sui territori della prima erede femmina della famiglia imperiale, Maria Teresa.

Federico, con la bizzarra pretesa di anticipare l'aggressione di altri (in particolare da parte della Sassonia), il 16 dicembre 1740 diede il via alla guerra di successione austriaca nella sua fase detta della prima guerra di Slesia, invadendo ed occupando in larga parte appunto questa provincia sulla quale rivendicava dei diritti, aggredendo di fatto l'Austria.

La reazione dell'energica Maria Teresa non si fece attendere e in breve si preparò all'offensiva.

Di Alessandro, Federico condivideva anche una certa irruenza e sconsideratezza e, in questa fase della sua vita, non ancora trentenne e senza grande esperienza diretta di questioni militari, aveva un'idea eroica del proprio ruolo che lo mise in serio pericolo quando, nel febbraio del 1741, rischiò la vita durante una perlustrazione condotta personalmente, cadendo nell'imboscata tesa da panduri austriaci e salvandosi di un soffio.





All'inizio della Primavera del 1741, un'armata austriaca di circa 15.000 uomini al comando del feldmarescaillo Neipperg era radunata a Olmütz, l'attuale Olomuc (A), ed altri se ne sarebbero aggiunti in seguito, mentre il grosso delle forze prussiane erano a Jägerndorf, l'attuale Krnov (B).

Abilmente, Neipperg dissimulò le proprie intenzioni e aggirò i prussiani puntando a liberare la piazzaforte di Neisse (Nysa) nella quale resisteva ancora una guarnigione austriaca.

Accortosi tardi della manovra, Federico si trovò aggirato e costretto ad una lunga corsa per riprendere le comunicazioni con la propria base delle operazioni a Breslau (Wroclaw).

Ne doveva scaturire una drammatica corsa che terminò a Mollwitz (C), sulla strada per Olawa.

Una sconfitta avrebbe avuto effetti disastrosi per le ambizioni di Federico.
Le forze in campo favorivano comunque numericamente i prussiani: Federico poteva contare su 23 battaglioni di moschettieri, 7 di granatieri, 1 della guardia, 30 squadroni di cavalleria a cui si dovevano aggiungere 3 squadroni di ussari, e 53 cannoni, per un totale di 17.000 fanti, 4.500 cavalieri e 300 artiglieri: mentre Neipperg aveva con sé 16 battaglioni di fanteria di linea, 14 compagnie di granatieri, 55 squadroni tra corazzieri e dragoni, 2 reggimenti di ussari, e 19 pezzi di artiglieria, per complessivi 9.000 fanti, 8.500 cavalieri e 400 artiglieri.

Lo spazio ristretto del campo di battaglia, chiuso tra torrenti e numerosi centri abitati, non consentì però a Federico di schierare i suoi uomini in modo da sfruttare la propria superiorità numerica.

Complice anche un suo errore di valutazione degli spazi, ne uscì uno schieramento sbilenco che teneva in seconda linea una parte eccessiva delle sue forze, esponendo nel contempo la propria ala destra di cavalleria -- vanamente rinforzata da due battaglioni di granatieri -- alla forza preponderante dell'ala sinistra avversaria.



Si accorse di questo il generale austriaco Römer, che appunto comandava l'ala sinistra austriaca: contravvenendo agli ordini di Neipperg, che gli aveva intimato di attendere il completo schieramento dell'esercito, questi si mosse al con tutte le proprie forze contro i suoi avversari.

Tra di essi si trovava lo stesso re di Prussia.


La mischia che ne seguì ebbe poca storia: i numeri e la forza della cavalleria austriaca ebbero la meglio sugli avversari e li mandarono in rotta.

I granatieri prussiani furono costretti ad aprire il fuoco contro i propri stessi commilitoni per evitare di venire travolti dalla loro fuga e in questa occasione a Federico fu risparmiata la sorte toccata ad un altro grande, Gustavo Adolfo di Svezia, che in simili circostanze ci lasciò la vita.

La resistenza dei granatieri ebbe però poca fortuna e gli austriaci, seppure a caro prezzo, avevano in poche battute distrutto l'intera ala destra prussiana.


Ciò che ne rimaneva venne rafforzato, per quel che si poteva, dal suo comandante von der Schulenburg raccogliendo fuggitivi e squadroni ancora non impegnati: ma invano, ed egli stesso cadde in combattimento.

La situazione si era fatta caotica: Neipperg si era trovato costretto a rafforzare Römer prelevando forze dalla sua ala destra, ma al contempo aveva lanciato anche questa, guidata dal barone von Berlichingen, verso i prussiani all'ala sinistra, e ordinò a parte della sua fanteria di sostenere lo sforzo di Römer.

Questi, infatti, dopo i successi iniziali si trovò di fronte ad una situazione inaspettata: la fanteria prussiana della seconda linea, niente affatto impressionata dal suo aggiramento, aveva manovrato in perfetto ordine e ora lo fronteggiava con furibonde scariche di fucileria.

Ancora più sorprendentemente, la cosa impressionò più gli austriaci che Federico: temendo la battaglia fosse già persa si fece convincere dal suo comandante più alto in grado von Schwerin, ad abbandonare il campo di battaglia per porsi in salvo.

L'episodio ha gettato un'equivoca luce sui due protagonisti: Federico -- che cercò in seguito di cancellare dalla storia quest'onta -- per la facilità con la quale si era "piegato" alla necessità di proteggere la sua persona -- e von Schwerin per aver esercitato questa pressione, quando poi ai suoi subalterni che gli chiedevano da che parte ci si potesse ritirare spiegò che la linea di ripiegamento "sarebbe corsa sui cadaveri dei nemici".


La battaglia, in effetti, era praticamente finita, ma a favore dei prussiani, come von Schwerin aveva probabilmente capito. Nei vani e sempre più disperati attacchi sui fianco sinistro della cavalleria austriaca, Römer stesso perse la vita. Né migliore sorte conobbero i due attacchi orchestrati da Neipperg al centro e sull'ala sinistra: entrambi vennero respinti con gravi perdite.

Sparando 4-5 colpi al minuto, il maggiore rischio la fanteria prussiana lo corse quando le munizioni iniziarono a scarseggiare e i moschettieri dovettero ricorrere alle giberne dei morti e alle baionette.



Von Schwerin ordinò a questo punto l'avanzata generale delle unità prussiane ancora disimpegnate contro quanto rimaneva dell'esercito austriaco, che venne letteralmente annichilito da una pioggia di piombo e costretto alla fuga.

In quanto a fughe, Federico provò a concludere la sua ad Oppeln (Opolen) dopo aver cavalcato con pochi accompagnatori per 40 km. E quasi ci riuscì perché la città, invece che ospitare una guarnigione prussiana, come credeva, era presidiata dagli austriaci, che non si fecero pregare e catturarono tutta la comitiva, tranne un soldato e Federico stesso.

Il re affranto e terrorizzato ritornò velocemente sui suoi passi e trascorse la notte nascosto in un mulino a poca distanza da Mollwitz.

Qui lo raggiuse, all'alba, la notizia della sua prima vittoria.


PS - La lezione di strategia e arte militare che la battaglia di Mollwitz aveva illustrato a Federico era un po' troppo corposa e complessa perché egli la potesse assimilare nella sua intierezza. Comprese la qualità della propria fanteria, ma quando la fiducia divenne sicumera la sottopose a sacrifici inutili, che alla lunga la distrussero; vide i limiti della cavalleria di fronte alle canne dei cannoni e dei moschetti della sua epoca, ma non ne preconizzò un nuovo ruolo, che si configurò solo in epoca napoleonica; divenne più prudente nell'amministrare la propria presenza sul teatro delle operazioni, ma rimase disposto a giocare il tutto per tutto nelle sue strategie politiche.
Ma se Federico per i suoi contemporanei è "il Grande", e tale è rimasto per noi, a questo mirabile impasto si deve e non ad altro.