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UNA BATTAGLIA IMPORTANTE

Il ruolo di Solferino nell'evoluzione dell'arte militare moderna

nicola zotti


 

La seconda guerra di indipendenza scoppiò senza preparazione, ebbe uno sviluppo disordinato, privo di acuti strategici, e si concluse nelle campagne tra San Martino e Solferino con una battaglia che rispecchiò fedelmente premesse tanto opache.

Eppure ebbe anche una seminale influenza sullo sviluppo dell’arte della guerra nel XIX secolo, modellando le dottrine e gli eserciti che più di 50 anni dopo si sarebbero scontrati nelle trincee della Grande guerra.

La modernità era da poco scesa sulle carte geografiche degli Stati Maggiori con le inedite linee dei binari ferroviari e del telegrafo, moltiplicando le potenzialità strategiche, ma anche ponendo problemi difficili persino da concepire.

La ferrovia rendeva possibile trasportare in combattimento gli eserciti nazionali di massa e i loro ingombranti equipaggiamenti, ma contemporaneamente li saldava ai propri binari come un cordone ombelicale: più grande l’armata, più rapidamente si sarebbe dissolta qualora il nemico lo avesse tagliato. Il telegrafo, per parte sua, aveva finalmente concretizzato l’antropomorfizzazione degli eserciti, che per millenni era stata solo metaforica: tra il “cervello” politico-strategico e le sue “membra” combattenti si era generato un sistema nervoso a comunicazione elettrica, che consentiva un controllo e un comando letteralmente fulminei. Tuttavia, a quegli statici pali e cavi del telegrafo altrettanto staticamente legava le armate, rafforzando ciò che già facevano i binari della ferrovia, e congiurando verso un ammassamento di forze impossibile da sostenere materialmente per lungo tempo, e che, secondo le parole di Helmut von Moltke – capo di stato maggiore prussiano in quegli anni e lucido interprete di questi segnali – non offriva alle armate alternative tra l’opzione di muovere e quella di sopravvivere.

Se lo sviluppo tecnologico trainava campagne militari brevi, concluse da un decisivo scontro tra enormi eserciti concentrati, sul campo di battaglia la tendenza era diametralmente opposta. L’introduzione di fucili a canna rigata sempre più perfezionati, come il fucile austriaco Lorenz o il fucile Minié in dotazione ai cacciatori francesi, obbligava infatti le truppe a disperdersi e a combattere in lunghissime incontrollabili catene di tiratori che si schiacciavano contro ogni minima protezione offerta dal terreno, occultandosi e distanziandosi dal tiro nemico tanto quanto dal controllo dei propri ufficiali superiori, per non parlare dei comandanti in capo.

Questi ultimi, nella campagna del 1859 non si dimostrarono all’altezza della sfida, ma va riconosciuto che difficilmente avrebbero potuto esserlo. Napoleone III era uno studioso di storia militare e apprezzato autore di un’opera sull’artiglieria che condusse a progressi nell’arma e a innovativi pezzi che portano il suo nome. Non aveva però mai fatto il soldato, né aveva alcuna esperienza sul campo: l’estraneità all’ambiente militare congiunta a questo intellettualismo – pernicioso sempre, ma in guerra inevitabilmente mortifero – e alla sua intima natura di dittatore, allontanavano da lui chi avrebbe potuto discuterne le decisioni: quanto meno imprudente da parte di chi avrebbe manovrato 200.000 uomini. Re Vittorio Emanuele era un uomo concreto ed esperto, aveva combattuto con coraggio, ma indubbiamente non era uno stratega. Francesco Giuseppe, neppure trentenne, si è occupato di problemi militari e non solo ha la convinzione di intendersene, ma soprattutto l’ambizione e la necessità di affermarsi in questa guerra come “Capo” dell’esercito. È consapevole, infatti, che esso è il fondamento del suo multietnico e turbolento impero, e vuole cogliere l’occasione per rinsaldarne sotto di sé almeno i componenti in uniforme.

Il 23 aprile 1859 le trattative diplomatiche tra Italia e impero austriaco si interruppero bruscamente per scegliere la guerra: la politica era stata risoluta e brutale e, di conseguenza, l’azione militare avrebbe dovuto interpretarne fedelmente la volontà, conformandosi alle analisi di Carl von Clausewitz che nel “Della guerra” spiega come «lo scopo politico, motivo primo della guerra, darà dunque la misura, tanto dell’obiettivo che l’azione bellica deve raggiungere, quanto degli sforzi che a ciò sono necessari». Al contrario, il comandante austriaco Gyulai si dimostrò incerto e titubante. Apertesi le ostilità, anziché puntare risolutamente su Torino – al momento e per altre 2-3 settimane difesa solo dalle truppe piemontesi in attesa di quelle francesi – l’esercito austriaco fu a dir poco prudente e circospetto. E può far sorridere, ma non stupire, che l’occupazione di Trino (nel vercellese) provocò a Vienna, prima che l’imbarazzante equivoco fosse chiarito, l’intonazione del tedeum e dell’osanna.

Più che l’offensiva, Gyulai cercava l’occasione per ripararsi nella rassicurante, carismatica ombra del maresciallo Radetzky, ovvero in una strategia di difesa e contrattacco condotta all’interno dell’inespugnabile “Quadrilatero”.

Dopo la sconfitta a Magenta (4 giugno), l’imperatore in persona rilevò Gyulai nel comando, ma la strategia che questi aveva perseguito sembrava ormai obbligata, imponendo alle armate austriache un triste ripiegamento a est, oltre il Mincio e l’Adige, mentre gli eserciti alleati le inseguivano ammassati in un’unica elefantiaca colonna senz’altro obiettivo, speranza e condanna che continuare ad avanzare.

L’impazienza del giovane Francesco Giuseppe e il nervosismo del suo capo di stato maggiore, generale Hess, preoccupato da (assai sovrastimate) iniziative secondarie francesi sul suo fianco sud e da un possibile sbarco adriatico, provocarono l’imprevedibile svolta.

Il 22 giugno, gli esploratori austriaci riferirono che l’avanguardia francese sembrava essersi imprudentemente distanziata dal corpo principale. Era l’occasione attesa per un ritorno all’offensiva, progettando di annichilire la prima per poi affrontare la seconda con una manovra avvolgente che la schiacciasse contro le Alpi. Il giorno 24 l’effetto sorpresa fu totale, ma reciproco: 150mila austriaci e 120mila franco-piemontesi si scontrarono in modo casuale, secondo l’ordine di marcia che li distribuiva su un arco di circa 20 chilometri.

Gli austriaci si attestarono sulla difensiva e i fucili Lorenz si dimostrarono assai efficaci: contro le truppe, ma in particolare per la precisione con la quale colpivano gli ufficiali e persino i serventi dei pezzi.

Tra le pieghe delle colline, però, il Lorenz non trovò campi di tiro sufficientemente ampi per sfruttare in modo sistematico le proprie potenzialità e i danni vennero limitati dall'addestramento francese (e italiano) agli assalti ad ondate veloci, alla "zuava" (o alla bersagliera), con i quali vennero annullati i differenziali nei campi di tiro.

Là dove invece la pianura era ampia, e dove gli austriaci intendevano effettuare la programmata manovra avvolgente, il Campo di Medole, la superiore artiglieria francese fu decisiva nel respingere sanguinosamente l’attacco. La sconfitta austriaca fu ineluttabile: in circa 14 ore di combattimenti rimasero sul terreno 4.723 morti e 22.959 feriti, oltre ai brandelli di innumerevoli “dispersi”.

Gli analisti dell’epoca rfletterono lungamente sulla battaglia di Solferino arrivando a conclusioni dottrinali che sopravvissero praticamente indiscusse fino alla Grande Guerra.

Da un lato, ai problemi causati dalla tecnologia – come avviene ancora oggi – si pensò che avrebbe risposto la tecnologia stessa, perché l’acritico ottimismo modernista non concepiva che senza prudenza, consapevolezza e analisi, maggiori dosi di tecnologia potessero comportare anche maggiori problemi.

Dall’altro, si riconobbe anche una lezione “antropologica”: il 1859 è l’anno della pubblicazione de «L'origine delle specie», e la spiegazione “scientifica” della vittoria franco-piemontese riflette il controverso clima culturale che accolse l’opera di Darwin. Niente e nessuno avrebbe potuto arrestare un fante armato di baionetta e spinto ad usarla dal proprio ardore nazionale e dalle proprie innate caratteristiche etniche. E il corpo ufficiali doveva solo inflessibilmente ricordargliele. I campi della Somme, di Verdun e dell’Isonzo erano già pronti.