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UNA RISPOSTA A DUE LETTORI

Misura per misura nelle strategie dell'Occidente

Nicola Zotti

Il lettore Fabio Bozzo in un suo sintetico scritto riassume alcune convinzioni piuttosto diffuse in una parte dell'opinione pubblica: ovvero che l'Occidente dal dopoguerra ad oggi si impegni in conflitti senza la determinazione necessaria, si leghi le mani affidandosi per vincerli a "mezze misure", per propria natura inadatte allo scopo.

Avversari dediti esclusivamente alla guerriglia in questo modo hanno avuto facilmente la meglio nello sconfiggere non tanto le nostre forze militari, quanto i nostri piani politici.

La questione mi è stata sottoposta, seppure da una prospettiva diversa, anche da un altro assiduo lettore, Gianluca La Posta, che, riferendosi alle missioni militari italiane sparse per il Mondo, si domanda e mi domanda:

«A cosa serve la nostra partecipazione in quei teatri operativi? Quali sono le utilità che l'Italia ricava dall'impegno dei nostri militari?
[...] Da normale cittadino che vuole valutare la politica e le scelte da essa fatte, tuttavia, mi sfugge qualche passaggio ed al di là del rispetto degli impegni presi dall'Italia con la Nato, o del prestigio a livello internazionale della partecipazione attiva alla lotta al terrorismo, vorrei comprendere meglio aspetti che per miei limiti non vedo.»

I due lettori a prima vista sollevano problemi diversi: Fabio Bozzo ci sembra affrontare una questione di più ampio respiro, sistemica, mentre Gianluca La Posta, appare chiedermi ragione di un problema tutto italiano, completamente racchiuso nei ristretti limiti del nostro già angusto spazio politico.

In realtà a me pare proprio un problema unico, ma prima però di spendermi in quello che al momento può apparire un gioco di prestigio, o ancor peggio una forzatura, è necessario fare un po' d'ordine nell'analisi di Fabio Bozzo cercando di depurarla da luoghi comuni e scorie relativi all'uso della forza nei cosiddetti conflitti asimmetrici.

E così veniamo ai fatti, o meglio alla guerra che Bozzo cita come esempio più lampante per corroborare il proprio ragionamento: la guerra del Viet Nam, emblematica, secondo il lettore, di una guerra combattuta con "mezze misure", persa a causa di un'opinione pubblica che ha costretto il governo al ritiro, o per citare le sue parole:

«In tale guerra gli USA ed alcuni alleati intervennero massicciamente (ma legatissimi politicamente) per evitare il crollo dell’inaffidabile alleato sud-vietnamita. Per ben 10 anni le forze Occidentali tennero sotto torchio quelle comuniste infliggendogli pesanti sconfitte tattiche e perdite disastrose (ben più di 1.000.000 di morti tra i comunisti a fronte di 58.226 Americani). Ma dopo 10 anni l’opinione pubblica USA si stancò dell’infinito mezzo intervento vietnamita (e diamogli torto…) obbligando il proprio governo al disimpegno. Col risultato che l’Occidente subì una sconfitta strategica grave seppur non disastrosa e una sconfitta politica (quella si) a dir poco devastante».

Mi è difficile condividere questa analisi: quando si invia nel teatro la USS Constellation, 5 acri di territorio americano invulnerabile dal cielo, dal mare, dalla terra e dallo spazio esterno, nonostante i nemici siano piccoli uomini con cappelli di paglia, quando si schierano 1.700 elicotteri e li si mette in grado di essere perfettamente operativi, quando si sganciano qualcosa come 6 milioni di tonnellate di bombe, solo per citare qualche dato, non si può proprio parlare di "mezze misure", a meno che per misura intera non si intenda l'uso della bomba atomica.

Per un parallelo più recente, credo che i russi in Cecenia abbiano spinto l'uso della forza ad un limite per lo meno paragonabile a quello americano in Viet Nam: con risultati che, nonostante le condizioni particolari e circostanziali, possiamo considerare altrettanto ambigui e non definitivi.

Piuttosto, mi pare abbastanza ovvio che un governo democratico non possa ignorare l'opinione pubblica dopo 10 anni di guerra condotti, lo ripeto, senza mezze misure, con spese tanto ingenti da rovinare l'economia mondiale per il decennio successivo, con decine di migliaia di morti, con scopi per lo meno discutibili, tra i quali quello di difendere un alleato "inaffidabile".

In realtà, lo scopo politico dell'intervento americano in Viet Nam era il punto debole di tutta la vicenda: la presenza militare americana era ritenuta necessaria perché si pensava che la caduta in mani comuniste del Sud Viet Nam avrebbe provocato un "effetto domino" e il cedimento di tutti i governi del sud est asiatico.

Se questo effetto non ci fu, delle due l'una: o dieci anni di guerra ebbero un qualche effetto positivo, oppure non c'era alcun reale pericolo di "effetto domino". Ho l'impressione che la verità sia un po' più sposata verso la prima ipotesi, ma è indubbio che se si fosse presentata l'occasione di un vuoto di potere, qualcuno avrebbe potuto provare, magari con iniziale timidezza e circospezione, ad approfittarne.

Ed è anche fuor di dubbio che la direzione strategica del conflitto avesse le idee assai poco chiare e fosse incapace di risolvere le proprie contraddizioni: certo era aurduo alla lunga difendere la tesi della lotta tra democrazia e comunismo, se l'alleato che si difende è difficilmente definibile come un paladino della democrazia, se la soffrenza delle popolazioni vietnamite fu grande e il miglioramento delle loro condizioni economiche minimale: tanto che non seppero distinguere chi era loro amico e chi loro nemico, in particolare nei confronti di un alleato americano sempre altrove a caccia di avversari, invisibili ovunque tranne che nei villaggi dove esercitavano spesso in modo terribile la propria pressione politico-militare.

E se altrettanto vaghe come abbiamo visto erano le basi della teoria del domino, alla politica non restava che aggiungere, assecondando le richieste dei militari, misure su misure per aumentare lo sforzo militare, proprio come se fosse un succedaneo alla mancanza di una strategia politica.

Oggi la politica mondiale delle democrazie occidentali sconta la stessa incapacità di definire una strategia, tanto che, per arrivare alla risposta al lettore La Posta, l'imbarazzo di questi ad individuare un motivo alle nostre missioni militari all'estero non riesce a trovare una spiegazione che trascenda la nostra adesione ad un'alleanza: e, paradossalmente, è difficile reperirla persino nei privati interessi economici di questa o quella "multinazionale".

Si sbaglierebbe pensando che questo sia esclusiva colpa delle amministrazioni americane che si sono succedute: è evidente che le democrazie occidentali scontano un limite più profondo e più difficile anche solo da scalfire dall'analisi: io l'ho chiamato il complesso di Golia.