torna alla homepagetorna alla homepage
storia militare e cultura strategica
torna alla homepage
 
dalle discussioni
dell'area Warfare di MClink,
a cura di Nicola Zotti
 
home > strategia > Come arrivare a Falluja passando per Verdun


ricognizioni
in territorio ostile


recce team

storie
strategia
tattica
what if?
vocabolario
documenti
segnalazioni
link
scrivici


quelle piccole sciabole incrociate

quelle piccole spade incrociate

Viaggi nei
campi di battaglia d'Italia
sulle carte del Tci


LA STRATEGIA NELLA LOTTA AL TERRORISMO

Come arrivare a Falluja passando per Verdun

nicola zotti


Ecco come si è presentato il mondo agli Stati Uniti d'America dopo l'11 settembre.

Un universo che nascondeva nel cuore un'organizzazione terroristica che associava i suoi destini in modo difficilmente distinguibile con un'entità propriamente paramilitare, dedita alla guerriglia quando non essa stessa ad attività di terrorismo.

Attorno ad entrambe, un liquido nutritivo fatto di fiancheggiatori estranei ad azioni armate, dai quali potevano attingere reclute, sostegno logistico, protezione. Una massa di manovra politica più che militare.

Un ultimo cerchio esterno era costituito dalle popolazioni simpatizzanti con la causa del terrorismo, per il momento "neutrali" ma forse in attesa solo dell'occasione per essere reclutate tra i fiancheggiatori quando non direttamente in una delle due componenti armate.

Così descritta la situazione strategica mostrava subito due livelli di intervento necessari e convergenti, da porre in essere contemporaneamente.

Mentre si dava luogo alla "caccia ai terroristi", alla loro distruzione fisica, si doveva impedire i salti di livello dalle fasce esterne a quelle interne: da quella degli indifferenti, verso i simpatizzanti, e da quella dei simpatizzanti a quella dei fiancheggiatori, chiudendo, insomma, gli ingressi rappresentati nello schema dalle frecce A e B.

Il fatto che le organizzazoni terroristiche si esprimessero anche in forme quasi convenzionali o comunque guerrigliere facilitava la possibilità di "fissarle" in una guerra guerreggiata.

Questi due indirizzi di intervento (in estrema sintesi) avrebbero garantito che mentre si svuotava una minaccia, sarebbero diminuite le possibilità che si riempisse di nuovo.

Articolando questa strategia il quadro si fece più complesso, più o meno quello che vedete qui sotto.


Il terrorismo internazionale si disegnava in una mappa policentrica con rare connessioni individuabili e, seppure riproponesse lo stesso schema di fondo, lo distribuiva in modo particolarmente complesso.

In alcune nazioni (gli stati canaglia: Rogue States) era, di fatto, al governo. In altre si proponeva come alternativa politica al governo effettivo, esprimendo una forza insurrezionale organizzata, in alcune -- tra le quali anche nazioni occidentali come la Gran Bretagna -- agiva come un'organizzazione terroristica autoctona e autonoma o semi-autonoma con elementi provenienti da cittadini di seconda o addirittura di terza generazione.

Se negli ultimi due casi si poteva contare sull'impegno dei governi legittimi che potevano agire con azioni di polizia e di intelligence più o meno convenzionali, nel primo caso diventava invece necessario un intervento diretto delle forze armate americane.

I primi stati canaglia individuati furono Afghanistan e Iraq, e uno dopo l'altro vennero attaccati applicando quella strategia su due leve che ho descritto: sostituzione del potere politico e esportazione della democrazia per sgonfiare i centri di reclutamento e sostegno, e operazioni militari contro il nocciolo duro del terrorismo, laddove si esprimeva in modo convenzionale, esponendosi ad essere un bersaglio più facile da individuare di cellule terroristiche.

Queste "operazioni convenzionali" ricalcavano il modello seguito da Erich Georg Anton Sebastian von Falkenhayn quando progettò la battaglia di Verdun: l'attacco a quel santuario terrorista che è uno stato canaglia, aveva un tale valore simbolico che avrebbe chiamato alla sua difesa tutte le forze dispoinbili del terrorismo internazionale esponendole ad una battaglia di attrito durante la quale la potenza di fuoco dell'esercito americano si sarebbe fatta sentire.

L'esempio era già stato adottato dai russi nella prima e nella seconda guerra di Cecenia e aveva funzionato, seppure al prezzo di migliaia e migliaia di morti tra i civili e dolorosissimi colpi di coda da parte dei terroristi nella stessa Mosca. Per non parlare delle stime che contano in almeno 20.000 i morti nelle forze armate della Federazione russa.

In loco, tuttavia, un problema parzialmente previsto in Afghanistan, e forse non attentamente soppesato in Iraq, manifestò i suoi effetti, che non sembrarono immediatamente condannare la strategia così come era stata pensata, ma certo complicandone parecchio la realizzazione.

La società di quei paesi si rivelò fortemente frammentata al suo interno e in modo altrettanto plurale si espresse la minaccia terrorista: il terrorismo era policentrico e replicava all'interno di quei paesi lo schema valido a livello internazionale.

Questo con l'andar del tempo complicò enormente tanto l'implementazione della strategia di isolamento dei terroristi, quanto quella della loro distruzione sistematica: il successo politico con una fazione in campo poteva infatti aumentare l'insoddisfazione di un'altra e quindi la sua deriva antagonista; ad una "Verdun" se ne aggiunsero tante altre.

Quello che diventava via via sempre più difficile era il controllo del territorio: nelle intenzioni doveva essere un compito da affidare alle forze di polizia e/o all'esercito riformati del nuovo stato, ma questo era reso impossibile dalla frammentazione politica e dall'assenza di un governo centrale in grado di esercitare credibilmente il potere politico.

D'altra parte il protrarsi del conflitto e la diffusa attenzione mediatica tagliò le gambe alla stessa strategia militare di concentrazione e distruzione modello Verdun: a Falluja, tanto per ricordare una delle situazioni più conoscute, gli americani non poterono agire come i russi a Grozny.

Un circolo vizioso senza apparente soluzione che non fosse quella di rilanciare pesantemente l'impegno militare, garantendo quell'occupazione (e normalizzazione) del territorio che non poteva contare sull'impegno delle forze armate locali.

Ma l'esercito americano è troppo poco numeroso e troppo soggetto a vincoli di bilancio per supplire alla mancanza di un intero apparato di sicurezza nazionale come quello necessario all'Afghanistan o, peggio, all'Iraq.

Sempre per rimanere all'esempio delle guerre di Cecenia, per piegare la resistenza locale i russi impegnarono forze pari a 10 volte gli insorti, ricorrendo a bombardamenti a tappeto, e ad assedi privi di corridoi umanitari che servissero ad alleviare le sofferenze dei civili, tra i quali per di più erano presenti anche numerosi cittadini di origine russa.

L'esercito israeliano nella crisi libanese del 2006, e non solo, ha utilizzato una tecnica diversa tanto da americani quanto dai russi e che mi è sembrata, al contrario di quanto si è letto e sentito, la più efficace per un paese con forti vincoli politici e di rapporti con la comunità internazionale che deve risolvere problemi di terrorismo.

Israele, infatti, ha innanzitutto delimitato un confine lungo il quale concentrare e circoscrivere il conflitto. In questo modo ha evitato di invischiarsi in un territorio a macchia di leopardo.

Quindi ha accettato lo scontro a distanza sapendo che Hezbollah non solo aveva costituito con l'aiuto dei siriani un'efficiente rete di capisaldi ma anche di vie mascherate per lo spostamento delle proprie batterie di missili che ne avrebbero complicato l'individuazione e la distruzione.

La Verdun "alla israeliana" è quindi una versione molto simile all'originale di von Falkenhayn: una guerra di posizione di lungo periodo nella quale l'artiglieria (o l'aviazione) distrugge e la fanteria occupa.

Principale ostacolo a questa strategia è stato però il tempo: i missili di Hezbollah hanno infiltto un consistente numero di vittime e l'attacco di terra è forse dovuto partire con troppo anticipo rispetto a quanto preventivato.

Circa i 2/3 delle vittime delle forze armate israeliane (80 soldati su 119 morti e 30.000 uomini complessivamente impegnati) sono infatti dovute a scontri a fuoco e oltre la metà di queste da missili anticarro, che si sono rivelati particolarmente letali: segno anche dell'efficacia delle postazioni difensive predisposte dai siriani e di tattiche forse non perfettamente adeguate da parte dell'esercito di Israele.

L'altro lato della medaglia è stata tuttavia un pesantissimo tributo di sangue da parte di Hezbollah, la cui capacità militare è stata probabilmente annientata: su una forza valutata al massimo in 1.000 guerriglieri, con 3-5 mila rincalzi immediati e 10.000 riservisti, le perdite di Hezbollah sono state attorno alle 700 unità.