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L'ANTI-CLAUSEWITZ

Erich Ludendorff e la guerra totalitaria

nicola zotti

Il ventennio tra la fine della Prima e l’inizio della Seconda guerra mondiale ha visto confrontarsi in Germania tre diverse concezioni del rapporto tra guerra e politica.

Di una di queste, il principale interprete fu Erich Ludendorff, che nella Prima guerra mondiale, come secondo in comando dopo Hindenburg, aveva detenuto la massima responsabilità.

Ludendorff si scontrò aspramente contro le altre concezioni, quella della repubblica di Weimar e quella di Adolf Hitler, fallendo in entrambi i casi il tentativo di imporsi alla nazione tedesca come leader.


La repubblica di Weimar perseguì una strategia clausewitziana di subordinazione dello strumento militare alle strategie, alle esigenze e alle restrizioni politiche. Il generale Hans von Seeckt realizzò questo obiettivo con abilità e grandissima determinazione, restituendo all’esercito tedesco quella capacità di deterrenza che gli era stata sottratta dagli accordi di pace.

Quando Adolf Hitler nel 1933 assunse il cancellierato si trovò così a disporre dell’esercito più moderno, meglio condotto ed addestrato del mondo e purtroppo per il mondo aveva anche una precisa idea di che cosa farne.

Ma andiamo con ordine. Nel 1916 Erich Ludendorff, appena diventato capo dello staff di Hindenburg, rafforzò il rapporto con le grandi industrie tedesche, la cui produzione alimentava il vorace sforzo bellico, e nel giro di pochi mesi riuscì ad esautorare di fatto sia il Reichstag e sia l’imperatore Guglielmo II, instaurando una vera e propria dittatura industrial-militare.

Solo negli ultimi giorni di guerra Ludendorff e Hindenburg reintegrarono il Reichstag: Ludendorff fu costretto alle dimissioni e dopo l’armistizio, l’11 novembre del 1918, fuggì in Svezia.

Negli anni dell’esilio, si dedicò a ricostruire le vicende di cui era stato protagonista, sistematizzando le sue esperienze in un vero programma politico.

Tornato in Germania nel 1920, Ludendorff rispose alla “coltellata nella schiena” inflitta dalla politica all’esercito impedendogli di vincere, in due libri: “Kriegführung und Politik” (Conduzione della guerra e politica, 1922) e “Der totale Krieg” (La guerra totale, 1935).

Se la guerra è la più alta espressione del diritto alla vita di una nazione, sostiene Ludendorff, allora ogni energia nazionale deve essere potenziata e amplificata al suo limite, precettata per la guerra e indirizzata agli scopi che essa si pone, senza le dispersioni, le vaghezze e le debolezze della politica.

Sarà la vittoria nella “guerra totalitaria”, quando verrà, a rendere attuabile qualsiasi programma politico.

Ludendorff dilata la sua esperienza di dittatura industrial-militare degli anni della guerra individuandone gli elementi che l’hanno resa imperfetta e, in conclusione, portata al fallimento.

L’inadeguatezza della politica, in particolare, non ha permesso “l’unità psichica del popolo germanico”, indebolendone la capacità di sacrificio e la dedizione agli scopi ultimi della guerra: una volontà che doveva far accettare con sereno furore, se non reclamare addirittura, piatti vuoti nelle case, turni doppi alle catene di montaggio, disciplina mistica nelle trincee.

Chi oggi ripensa ai sacrifici che le popolazioni delle nazioni belligeranti sopportarono a causa del nazionalismo e il cieco orgoglio con il quale quegli stessi sacrifici venivano celebrati in nome della “nazione”, ha difficoltà a pensare che si potesse chiedere di più ed ottenerlo: eppure questa era la proposta e lo scopo di Ludendorff.

Il generale tedesco individuava nel potere economico di una nazione autarchica la sorgente del potere militare e questo probabilmente lo induceva a trovare negli industriali quelle qualità di sacrificio e di dedizione che non sapeva riconoscere al resto del popolo tedesco.

La repubblica di Weimar aveva un conto in sospeso con la classe dirigente militare che aveva condotto la guerra e non prestò ascolto alle tesi di Ludendorff.

Hans von Seekt, che aveva partecipato alla guerra e si era disinto già allora per le idee tattiche innovative e per la capacità di comando, aveva riflettuto sull’andamento del conflitto ed era giunto a conclusioni diverse rispetto al suo antico superiore.

La teoria della “coltellata alla schiena” non resse all’esame delle commissioni istituite da von Seeckt: la guerra era stata persa perché i militari ne avevano assunto la direzione e l’avevano condotta senza altro orizzonte strategico che non fosse la guerra in sé.

Priva di obiettivi metabolizzabili dalla politica, la guerra era diventata lotta per metri di terreno, per conto di morti, per puntigiio di generali: non solo massacro senza un fine, che già è crudeltà inammissibile, ma massacro come fine.

Il lavoro di von Seeckt raggiunse l’obiettivo di riconferire capacità di deterrenza all’esercito tedesco, ma chi se ne avvantaggiò non fu la repubblica di Weimar, bensì il nazismo.

Adolf Hitler fu compagno di strada di Erich Luendorff, letteralmente fino alla tomba, perché partecipò al suo funerale.

Ma fu un sodalizio di convenienza: le basi da cui partivano e gli obiettivi che si ponevano erano diversi, e le polemiche tra i due non mancarono: tanto più che Hitler preferì Hindenburg a Ludendorff come alleato privilegiato.

Lo “stato totalitario” nazista era inconciliabile con la “guerra totalitaria” di Ludendorff: nello stato totalitario potere economico e politico sono tutt’uno col potere ideologico e ad esso subordinati. Nessuna quota di potere può essere delegata ad altri soggetti, tanto meno ai professionisti nell’uso della forza.

I militari tedeschi, educati ad un'interpretazione letterale e parziale del pensiero clausewitziano, trovarono ineluttabile sotto il nazismo e comodo dopo la sua caduta, consegnare completamente la propria volontà nelle mani del potere politico e alle aberrazioni dell’ideologia.

Hitler sarebbe stato d’accordo con John Keegan quando sostiene che “la politica si pratica al servizio della cultura”: Il diritto del popolo (Volk) tedesco a governare il mondo, infatti, derivava dalla mistica relazione tra sangue e suolo (Blut und Boden) tedeschi, dalla quale i nazisti ritenevano scaturisse la propria superiorità culturale totale.

In nome di quella superiorità, il popolo tedesco poteva usare qualsiasi strumento, “perfino” la guerra, per rivendicare la propria supremazia ed eliminare gli ostacoli dalla sua strada.

Finché gli fu consentito, Hitler utilizzò ai suoi scopi la diplomazia e la politica, con ottimi risultati andrebbe aggiunto, e fu costretto alla guerra solo dalla volontà di Francia e Gran Bretagna di fermare la sua ascesa.

Ludendorff, accantonato da Hitler, sfogò contro di lui e contro Hindenburg il suo risentimento: Hitler non perseguitò il vecchio livoroso generale, che morì nel 1937 a 72 anni.

Le idee di Ludendorff sono comunque rimaste nel dibattito politico. Il concetto di “guerra totalitaria” con la connessa necessità di una dittatura industrial-militare, sono state rielaborate e riadattate dal pensiero marxista-leninista, nella forma di “guerra imperialista” o “guerra capitalista”.

Anche questa formulazione riveduta e corretta, però, pur passando dal campo delle prescrizioni a quello delle descrizioni, non ci ha guadagnato, e comunque ha perso tutta la sua brutale sincerità.