torna alla homepagetorna alla homepage
storia militare e cultura strategica
torna alla homepage
 
dalle discussioni
dell'area Warfare di MClink,
a cura di Nicola Zotti
 
home > strategia > Libia: le occasioni perse


ricognizioni
in territorio ostile


recce team

storie
strategia
tattica
what if?
vocabolario
documenti
segnalazioni
link
scrivici


quelle piccole sciabole incrociate

quelle piccole spade incrociate

Viaggi nei
campi di battaglia d'Italia
sulle carte del Tci


ANCORA SULLA LIBIA, MA NON SOLO

Libia: le occasioni perse


Nicola Zotti



Approfondiamo assieme, a bocce in movimento (siamo a marzo 2011), il motivo per il quale il mese scorso ho scritto che il trattato Italia-Libia è stata un'occasione persa del nostro governo per fare qualcosa di buono e acquisire un po' di autorevolezza sullo scenario internazionale, mentre abbiamo un bel po' di responsabilità in negativo sul come si è evoluta la situazione in Libia e, di rimbalzo, nel complesso del mondo arabo.

Anzi, già che ci siamo, allarghiamo il discorso, perché, benché io sia convinto che le colpe degli altri le devono denunciare altri, le responsabilità sono ben distribuite a tutti i governi occidentali.

Diciamo che il comportamento del nostro Governo (ma il giudizio può essere senza fatica esteso all'intero nostro ceto politico) è utilmente esemplare.

Stiamo parlando di strategia, ovviamente: una merce rara al giorno d'oggi. Per cui può essere utile alla generale comprensione dell'argomento, introdurlo con un minimo di astrazione.

Le situazioni politiche sono entità dinamiche che si mantengono in equilibrio in virtù di una forza di inerzia: le strategie rappresentano le misure tendenti a prolungare stabilmente questa inerzia o a rovesciarla per stabilire un nuovo equilibrio strutturale.

Volutamente ho usato una terminologia presa in prestito dalla fisica per poter subito precisare che formulare una strategia non è una "scienza esatta", ma un'arte: per quante statistiche, diagrammi, calcoli probabilistici, ecc. si possano effettuare, a nulla servono senza un'intelligenza umana che stabilisca quali obiettivi si vogliono raggiungere e se per farlo è necessario e possibile cambiare l'inerzia del citato "equilibrio in movimento", oppure è sufficiente adattarsi e accompagnare in qualche modo le sue dinamiche spontanee.

Con il trattato Italia-Libia noi non abbiamo prodotto nessuna analisi di questo genere e i risultati sono visibili.

Abbiamo solo fatto affari con la Libia e anche se va riconosciuto che, per quanto non sia affatto chiara l'entità e le condizioni di queste commesse, Gheddafi avrebbe potuto firmare contratti con chiunque altro anziché noi, dobbiamo notare che non era sufficiente, come gli eventi hanno dimostrato.

Ricordiamo infatti che gas e petrolio si possono vendere ed acquistare liberamente, non è necessario stringere accordi politici compromettenti con un Paese per garantirseli. Tanto meno se nell'accordo sono previsti molti miliardi di euro di sovvenzioni, perché non esiste un paese al mondo che li rifiuterebbe.

Depurata di queste scorie propagandistiche la questione nuda è solo strategica e ha un orizzonte più ampio di quello, pur legittimo, degli "affari", costituendo la premessa indispensabile per la loro attuazione.

Tanto maggiore è l'importanza che si vuole conferire ai rapporti economici con un altro stato, tanto maggiore dovrebbe essere l'attenzione verso la sua affidabilità di lungo periodo. Tanto più alta è la posizione di privilegio e di amicizia si vuole conferire ad uno stato, tanto più alta la consapevolezza che è necessario intessere con esso un sistema di relazioni a tutela dei rischi e delle criticità connesse.

Se ci si impegna a non interferire negli affari interni di un paese, né a consentire che qualcuno lo faccia usando il nostro suolo, si dovrebbero chiedere delle garanzie che il futuro non proponga occasioni di rompere quel patto.

Se impostiamo con un paese africano una politica di contenimento dei flussi migratori provenienti dal continente africano, non possiamo limitarci a considerarlo il "cancello" di un carcere, perché quel cancello si aprirà e si chiuderà innanzitutto secondo dinamiche politiche continentali di cui non potremo avere il controllo, mentre avremo contemporaneamente fornito uno strumento di ricatto con la minaccia dell'apertura di quel cancello, e un elemento di scambio politico in più a quel paese nei confronti dei suoi vicini.

In sintesi, avevamo l'occasione di fare grande politica con un paese che naviga su due faglie strategiche, quella africana e quella dell'Islam, e non l'abbiamo colta. Potevamo almeno creare i presupposti per un rapporto politico privilegiato condizionato a obiettivi politici alti e non l'abbiamo colta.

Poi allo scoppio della rivolta, abbiamo inanellato un'interminabile sequenza di gaffe, di ripensamenti, di ingenuità, ma la filosofia alla quale abbiamo conformato la nostra politica è contenuta tutta già in quel "non voglio disturbare" con il quale il nostro presidente del consiglio commentò gli esordi della rivolta libica. [oggi 24 ottobre 2011 è uscita questa notizia "Il raìs ad agosto si appellò a Berlusconi": a dimostrazione di quanto sarebbe stato lungimirante un nostro intervento all'epoca, ma ci sarebbe voluto il coraggio e il carattere di un vero statista]

E così, rinunciando noi a "disturbare", cioé ad intervenire politicamente in modo fermo e deciso, abbiamo rinunciato a difendere il nostro ruolo nell'area e aperto il campo a quanti erano invece decisi a disturbare "militarmente", al traino della Francia, di cui scopriamo (che sorpresa!) le ambizioni e le capacità di intervento.

Se i "volenterosi" nel pomeriggio del 19 marzo 2011 non fossero intervenuti a sostegno di Bengasi, oggi a una decina di giorni di distanza, lo scenario militare sul campo sarebbe tranquillo come solo i cimiteri sanno essere.

Però, se l'Italia avesse disturbato quando era il momento, il nostro paese avrebbe ben altra autorevolezza politica e morale per partecipare alla soluzione della crisi libica e non dovremmo lamentarci di essere esclusi e renderci ridicoli con assurde minacce di ritorsioni.

La Libia è un paese fortemente segnato da divisioni interne, che il colonnello Gheddafi ha contribuito ad accentuare marginalizzando dal potere e dalla distribuzione dei dividenti petroliferi appartenenze tribali diverse dalla al-Qaddadfa, la sua, e dalle alleate (non totalmente affidabili) al-Magariha e al-Warfalla. Le tribù della CIrenaica e quelle del deserto – i berberi Amazigh, i Tuareg e i Toubou – con la loro trasnazionalità sahariana, hanno così consolidato la loro opposizione al regime.

Il tessuto civile libico è stato reso asfittico dai decenni di dittaura del colonnello: in Libia l'Esercito non ha il peso che ha in Egitto e a stento sono riusciti a svilupparsi un ceto medio di professionisti e il solidarismo sufi, cui il colonnello ha dato corda solo affinché occupasse uno spazio altrimenti disponibile ai Fratelli Mussulmani.

E proprio partendo dal tessuto civile l'Italia, due anni fa, avrebbe potuto dimostrare lungimiranza strategica, ponendo la questione dell'apertura in Libia di una nuova fase di rinnovamento politico e istituzionale, di "democratizzazione" e di sviluppo che avesse l'ambizione di divenire un modello per tutta l'area.

La Libia aveva e avrà bisogno di istituzioni pluralistiche, di una costituzione, di un equo meccanismo di distribuzione delle risorse che assicuri che la rivalità Tripolitania contro Cirenaica, l'eccessivo potere tribale e le rimostranze etniche non rappresentino un'eredità troppo pesante da sopportare per il futuro del paese.

Il nostro governo avrebbe dovuto sfruttare i colloqui riservati per consigliare al Colonnello di guardare verso un orizzonte più lontano, offrendo la propria esperienza giuridica ed istituzionale –per dirne una in tema di federalismo – per porre il colonnello di fronte all'esigenza di andare oltre il suo libretto verde e i suoi comitati rivoluzionari.

Lo stesso si sarebbe dovuto fare nei colloqui con la National Oil Corporation, la Libyan Arab Foreign Investment Company e le altre strutture che costituiscono ad oggi l'ossatura burocratica, tecnocratica e amministrativa libiche, che avrebbero dimostrato grande sensibilità e capacità di ascolto su questi temi.

Fatte salve le maggiori responsabilità del nostro governo, bisogna sottolineare che nessuno, mi pare, abbia sollevato la questione in questi termini nemmeno nell'opposizione, neppure quando ormai il problema era sotto gli occhi di tutti, ovvero dopo quel fatidico "non voglio disturbare": scontiamo un'inadeguatezza diffusa all'analisi politica, è bene farsene una ragione e provare lentamente, come nazione, a riprendere l'abitudine a riflettere prima di parlare.

Oggi c'è una guerra e quello che la segna sfugge ad un'attenzione distratta dai combattimenti: la Libia non è la preoccupazione principale degli Stati Uniti, che sono molto più attenti e concentrati a ciò che succede in Egitto, che ha un valore strategico e storico molto più alto.

Quello che avviene in Libia ha un peso nella misura in cui può influire sulla situazione egiziana e può farlo, visto i legami storici, culturali e tradizionali che legano questo paese alla Cirenaica.

Con uno sguardo al futuro, offrire a Gheddafi un salvacondotto non risolve il problema della guerra civile, ma lo acuisce. Il colonnello non ha governato da solo e non era l'unico privilegiato del suo regime: garantirgli un esilio dorato allunga il conflitto anziché accorciarlo, perché rende il Leader ostaggio dei molti suoi seguaci che hanno qualcosa da perdere con un nuovo regime. È a questi che si deve parlare e offrire prospettive, non più al colonnello, la cui sorte è ormai segnata.

La guerra continuerà ancora settimane, se non mesi, con le modalità attuali, perché questa credo sia l'unica prospettiva l'Occidente sia riuscito a delineare: puntare alla consunzione fisica e morale dei contendenti. Quando entrambi cadranno al suolo esausti la riconciliazione (ma quale?) non sarà, però, l'unica opzione disponibile.

Senza un potere politico alternativo credibile, al quale si sarebbe dovuto lavorare con intelligenza per tempo, la guerra riprenderà con modalità diverse e molto probabilmente peggiori delle attuali. E soprattutto, con attori diversi, che ancora non vediamo all'orizzonte, ma solo per miopia.