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STESSA STRADA, DESTINAZIONI DIVERSE

Von Clausewitz e la guerra "post-westfaliana"


nicola zotti


CI sono 4 modi per leggere von Clausewitz. Il primo è quello degli storici che studiano l'intento originario dell'Autore, contestualizzando le sue idee nell'epoca in cui vennero elaborate; il secondo, sempre animato da storici, indaga sull'influenza nei secoli successivi delle sue teorie, i differenti modi di recepirlo e di interpretarlo nella pratica; un terzo cerca invece ispirazione tra le righe dei suoi libri per un avanzamento della riflessione attuale su temi contemporanei, ad esempio cercando le basi per una dottrina militare nuova contro il terrorismo internazionale; infine il quarto e ultimo è quello che cerca di tradurre il suo pensiero, con l'ambizione di spiegare quello che von Clausewitz "veramente" intendeva con i suoi scritti.

Giusto precisare che ci sono tante vie di mezzo e sfumature, e che ognuno di quei mezzi si adatta alle esigenze di quell'esame sulle trasformazioni della guerra nel XXI secolo che costituisce oggi il centro del dibattito strategico internazionale.

L'approccio interdisciplinare di questo dibattito ha momenti confusi, come sono sempre le discussioni a più voci, difficili da districare: altrettanto costruirsi un'opinione, e ancora di più arrivare a conclusioni.

Lo storico, lo scienziato politico, il filosofo, il commentatore o anche il semplice osservatore, per non parlare del militare, hanno di fronte a sè il mondo post-westfaliano che ho descritto il mese scorso, e si chiedono come di conseguenza sia cambiata la guerra e come si debba rispondere alle minacce che questo mondo presenta.

L'utilità offerta a questo scopo dal pensiero di von Clausewitz è palese e i tentativi anche autorevoli di negarla hanno mostrato nel tempo tutta la loro debolezza analitica, dai più rozzi, come nel caso di John Keegan, a quelli più articolati come nei libri di Martin van Creveld o Mary Caldor.

Il fulcro delle critiche verteva sulla capacità di von Clausewitz di comprendere un mondo post-westfaliano, considerandolo al massimo capace di comprendere quello precedente, quando, secondo il sistema edificato con la pace di Westfalia, la guerra era problema di stati e di governi.

In realtà von Clausewitz comprese la necessità di scrivere una teoria universale della guerra, che prescindesse dalla presunzione che il proprio tempo sarebbe stato l'ultimo, e le sue caratteristiche uniche.

il suo approccio possedeva quell'espressività, quella flessibilità, quella dipendenza dal contesto, che sono i tratti distintivi di un uso letterario delle parole rispetto a quel pensiero che fa invece un uso tecnico dei simboli.

Von Clausewitz scrisse in questo modo perché la sua preoccupazione principale non era la semplice conoscenza di certi fenomeni, ma soprattutto il carattere della percezione che precede la conoscenza. Correggendo le fallaci ipotesi intuitive che erano alla base del pensiero strategico dei suoi tempi (come anche del nostro), von Clausewitz sperava di spianare la strada per l'apprendimento produttivo come fondamento della scelta strategica.

Von Clausewitz era conscio di un "pre-westfalia", intasato di signori della guerra, di briganti, di "non-stati" in guerra tra loro, così come nel suoi giorni erano apparse le potenti fiamme della guerra di popolo a illuminare un presente e ancora di più un futuro dove si sarebbe dovuto tenere conto anche di questi combattenti senza divisa e della loro capacità di decidere il corso strategico degil eventi.

"La guerra è più di un semplice camaleonte" significa che la guerra è capace di trasformazioni che vanno oltre le apparenze superficiali. Tanto è vero che pure la distinzione che vi ho proposta tra un pre-westfalia, un periodo westfaliano, e uno post-westfaliano, ha solo un'utilità marginale nei termini circoscritti di questa discussione e non pretende affatto di voler dividere l'avventura politica e militare del genere umano in ere.

L'esempio più sintomatico di questa capacità di von Clausewitz di contestualizzare le analisi, lo ritroviamo nella sua dimostrazione della difesa come forma forte della guerra, tutta interna al panorama bellico "westfaliano": vi ritroviamo ragionamenti che possiamo senza spostare virgole rileggere alla luce dell'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, perché le loro caratteristiche erano corenti con quello schema.

Diverso sarebbe stato, per prolungare l'esempio, se nel della Guerra, von Clausewitz avesse voluto analizzare il caso di un belligerante che assumesse prevalentemente il terrorismo come propria forma di attacco: la forza del terrorismo, infatti, sta proprio nell'impossibilità di difendere tutti gli obiettivi che potrebbe colpire, perchè tutto è un obiettivo plausibile del terrorismo e, all'estremo, tutto è ugualmente significativo e strategico per i suoi scopi, ammesso pure che ne abbia: e non è escluso il caso di un terrorismo praticamente fine a se stesso e privo di scopi se non talmente astratti e metafisici da essere politicamente irrilevanti per il suo propugnatore.

Non così per la comunità politica vittima del terrorismo, sulla cui fibra la ferita provocata da chi fa esplodere tre bombole di gas davanti ad una scuola intitolata alla moglie di un coraggioso magistrato (vittima al suo fianco di un attentato terroristico) ha una valenza non dissimile a quella degli aerei guidati contro i grattacieli simbolo di un intero sistema socio-economico.

Una teoria della difesa come forma debole della guerra in questo particolare contesto deve essere ancora essere scritta: ma se lo sarà, quel qualcuno dovrà seguire la strada già percorsa da von Clausewitz.