Livio (5, 38) calca la mano nella descrizione della superficialità e della faciloneria dei comandanti romani, dei quali non ci è stato preservato il nome:
«Qui i tribuni militari, senza aver precedentemente individuato un luogo per il loro accampamento, né innalzata una palizzata dietro la quale eventualmente ritirarsi, incuranti del loro dovere verso gli dei, per non parlare di quello verso l'uomo, senza prendere auspici o offrire sacrifici, disposero le proprie truppe, che vennero estese verso i fianchi, per evitare di essere circondati dai grande numero del nemico. Nonostante questo, la loro fronte non riuscì ad eguagliare quella dei nemico e anzi assottigliando la loro linea rendevano il centro debole e scarsamente collegato.»
Sulla destra dello schieramento, dove il terreno si alzava con le pendici dei Monti Crustumerii, i Romani disposero un contingente che Livio definisce di "subsidiariis", ovvero "riserve", per meglio difendere quel fianco.
Non è raro che Livio utilizzi una terminologia anacronistica nella propria narrazione e non conosciamo le parole usate dalle sue fonti: certo è che una falange oplitica non prevede "riserve" e non è chiaro a che cosa egli si riferisca, soprattutto in considerazione del prosieguo della battaglia.
Se si fosse trattato della cavalleria smontata le fonti lo avrebbero esplicitato, mentre invece la cavalleria non è mai citata nel racconto di Livio. Quindi forse lo storico in questo caso ha voluto intendere che le truppe poste all'estrema destra dello schieramento romano erano di "supporto" e non di "riserva", ovvero forse delle truppe leggere. Ma c'è spazio, come vedremo, anche per altre ipotesi.
Lo schieramento romano seguiva come abbiamo visto il corso dell'Allia: oggi l'Allia, il fosso Maestro, proprio nella parte del campo di battaglia che più ci interessa, è stato trasformato in un canale di irrigazione che costeggia la Salaria, ma originariamente doveva procedere inclinato verso Sud-Est, sfociando nel Tevere "poco sotto la strada verso Crustumerium", come riporta diligentemente Livio.
Lo schieramento Romano – ne troveremo conferma nel corso della battaglia – è quindi anch'esso inclinato e, per coprire meglio il territorio, la "falange" è stata schierata non solo a ranghi assottigliati, ma anche con le sottoformazioni distanziate tra loro, tanto da rendere il centro della falange isolato o per lo meno distanziato dalle sue ali. 12.000 uomini su due file profonde 4-5 guerrieri potrebbero coprire circa 1.500 metri di fronte, che sembrano sufficienti a chiudere lo spazio tra le colline e il Tevere lungo l'Allia.
Brenno aveva di fronte a sé l'intero schieramento avversario e rimase sorpreso dalla sua pochezza. Con grande acume tattico, il capo Gallo valutò che l'unico pericolo, in condizioni di forza per lui tanto vantaggiose, poteva provenire solo da un eventuale tranello tesogli sul suo fianco sinistro, ovvero da un nemico occultato alle spalle dei "subsidiariis" e tra le pieghe dei monti Crustumerii. Decise dunque di attaccare proprio questa posizione, prevenendo, così, un eventuale aggiramento sul fianco.
Fu sufficiente questa sua mossa per mandare in crisi l'intera formazione romana che andò in panico e fuggì senza che il nemico avesse fatto altro che lanciare il proprio grido di battaglia: l'ala sinistra schierata obliquamente con la fronte a Nord-Est sentì provenire dalle proprie spalle il clamore del combattimento e andò istantaneamente in rotta, il centro e l'ala destra la seguirono subito, lasciando soli a combattere, ma anche qui per poco, gli uomini sull'altura.
Vuoi per allontanarsi dal rumore, vuoi perché si trattava forse di truppe provenienti dalla recente acquisizione di Veio, gli uomini all'ala sinistra cercarono la fuga oltre il Tevere e verso quel territorio, con annesso corredo di morti affogati. Tutti gli altri, invece scapparono verso Roma.
Riguardo ai primi, Livio racconta una circostanza difficile da decifrare: «Non vi fu alcuna perdita in combattimento, bensì 'terga caesa suomet ipsorum certamine in turba impedimentium fugam'»: passo che può essere tradotto come fa Marco Scandola (Storia di Roma dalla sua Fondazione, vol. III, pag, 99) "La strage avvenne alle spalle, in quell'accozzaglia di uomini che ostacolavano la fuga azzuffandosi tra loro", oppure "le truppe arretrate furono fatte a pezzi combattendo contro i loro stessi compagni, perché ne ostacolavano la fuga", che è la traduzione mia, molto simile a quella prevalente, ad esempio, tra gli anglosassoni.
La prima traduzione, più libera, non crea problemi, ma la seconda, più letterale, apre due questioni: 1) di solito le rotte iniziano dai ranghi posteriori e non da quelli anteriori, 2) appare poco credibile che formazioni sottili, come quelle descritte da Livio (ho anticipato forse di 4-5 ranghi) possa creare problemi così drammatici se quelli in prima fila si girano e scappano. Diverso sarebbe, e questa piccola frase diventerebbe più comprensibile, se la legione romana fosse già schierata, all'insaputa di Livio, su due linee di opliti distanziate tra loro, cosa che ci farebbe gettare una luce diversa anche sui "subsidiariis" disposti sull'altura, riqualificandoli come una vera e propria terza linea di riserva di "triares" ante litteram, la cui assenza alle spalle delle altre due linee dello schieramento principale avrebbe certo contribuito a minarne la solidità morale.
E forse quegli stessi varchi lasciati nella legione tra il centro e le ali possono essere visti come gli antenati degli spazi tra un manipolo e l'altro.
Ma lasciamo questa breve digressione e questo scenario un po' troppo immaginifico per tornare alla battaglia e al motivo principale di questa analisi.
Come abbiamo visto per i Romani fu una sconfitta molto pesante, ma indubbiamente dovuta alla diffusione del panico tra gli uomini spaventati dalla sproporzione numerica delle forze e dall'impressione che il nemico stesse per colpirli alle spalle.
Nell'assenza di uno scontro degno di questo nome, non sembra che Roma avrebbe potuto ricavare una particolare lezione tattica tale da modificare la propria struttura militare, che a imitazione dei Galli avrebbe dovuto tornare ad essere "tribale", né tanto meno trovare la convinzione necessaria per adeguare sul modello dei Galli la propria panoplia.
Quest'ultimo punto merita una riflessione a parte. I Galli di Brenno appartengono al periodo La Thene I che copre orientativamente i due secoli dal 450 al 250 a.C.
In assenza di testimonianze documentali dell'epoca, per affacciarci sulle tattiche di combattimento di queste popolazioni non possiamo fare altro che analizzarne le armi rinvenute dagli archeologi e da loro datate in questo periodo.
I Galli del La Thene I possiedono spade dritte con lame a doppio taglio lunghe tra i 55 e i 65 cm., eccezionalmente fino ad 80, cosa che confermerebbe la diffusa opinione degli storici greco-romani che i Galli fossero sostanzialmente degli "spadaccini" che usavano i giavellotti come arma preparatoria. Anche li loro scudo ovale, maneggevole e con presa centrale protetta da un umbone, conferma questa ipotesi.
Tuttavia anche le spade usate in quel periodo dalle popolazioni italiane sono dello stesso tipo e della stessa lunghezza, mentre gli esemplari italici di scudo ovale sono addirittura più avanzati, perché con la loro forma avvolgente offrono maggiore protezione.
Semmai, il vero tratto distintivo dei Galli del La Thene I sono le lance: i puntali che ci sono pervenuti sono in massima parte molto lunghi, anche fino a 60 cm., e imponenti, per una lunghezza complessiva di 2,5 metri in alcuni esemplari rinvenuti interi. Non sono armi da lancio, ma da corpo a corpo, anzi vere e proprie armi primarie pesanti che ci dovrebbero far riconsiderare completamente le tattiche di combattimento dei Galli del v-iii secolo, perché i ritrovamenti di punte di giavellotto sono proporzionalmente molto scarsi.
Trasformando i Galli in "lancieri" – a piedi o a cavallo, non è una distinzione significativa – dobbiamo immaginarli combattere con una scherma di lancia diversa da quella oplitica e più individualista, perché la spinta collettiva della falange suggerirebbe l'introduzione dell'oplon, ed è al contrario impedita dall'ingombrante umbone dello scudo ovale celtico, riservando alla spada il ruolo di arma secondaria. Così pure la protezione reciproca offerta dagli scuta stretti e ovali è minore se paragonata a quella dei larghi oplon.
Impossibile conciliare le ipotesi ricavabili dai reperti archeologici con quanto ci viene raccontato dagli storici.
13 anni dopo il sacco di Roma di Brenno, infatti, Camillo incontrò di nuovo i Galli, questa volta quelli che si erano stanziati sulle coste dell'Adriatico. In previsione delle battaglie che lo attendevano, Plutarco (Vita di Camillo, 40, nella traduzione di Carlo Carena) ci illustra una serie di misure adottate dal generale romano:
«Sapeva come la potenza offensiva dei Galli risiedesse principalmente nelle daghe, da loro brandite senza alcuno stile né tecnica, ma con cui tagliavano spalle e teste ch'era un piacere. Perciò fece fondere per quasi tutti i suoi uomini degli elmetti di solo ferro, lisci all'esterno, in modo che le spade dei nemici o vi si spezzassero sopra o scivolassero via. Inoltre fece orlare tutt'attorno gli scudi con un anello di bronzo, siccome il legno da solo non avrebbe retto ai colpi. Ai soldati insegnò a maneggiare i giavellotti lunghi (hussois makrois, dove "hussois" è il termine usato dai Greci per indicare il pilum) e, anziché lanciarli, a metterli sotto le spade dei nemici per parare i fendenti».
Questo passaggio di Plutarco non solo, come anticipato, mal si concilia con quanto ci suggerirebbero le ricerche archeologiche, ma – cosa più importante allo scopo che ci proponiamo – ci fornisce una versione difficilmente comprensibile dell'evoluzione delle armi e delle tattiche romane provocate dall'incontro con i Galli stessi.
Se i Romani si erano dotati, immaginiamo da poco, di un'arma da lancio "lunga" (makrois), perché mai avrebbero dovuto tornare sui loro passi ed usarla come arma da impatto, anzi addirittura per parare i colpi della spada celtica in sostegno di uno scudo appositamente rinforzato per lo stesso scopo? Senza contare, poi, che la spada, con la sua maneggevolezza, è il mezzo più adatto a parare i colpi di un'altra spada. La lunghezza del pilum potrebbe anche provocare un effetto leva sulla mano e sul polso del legionario, ricevendo un colpo sulla sua punta.
Forse Plutarco eredita un errore da Polibio, il quale raccontando la battaglia di Bergomun del 223 asserisce che gli Hastati abbiano scambiato il loro pilum con la lancia dai Triares proprio allo scopo di contenere i colpi di spada dei Galli Insubri.
Il che è perlomeno strano considerando che gli Hastati solo due anni prima, proprio con i loro pila, avevano dato un generoso contributo alla vittoria contro un'altra invasione di Galli nella grande battaglia di Talamone.
Anche tralasciando il pericoloso effetto leva sottolineato sopra, perché mai il manico di legno di un'asta
avrebbe dovuto essere più efficiente del puntale interamente metallico di un pilum per parare i colpi di una spada? Semmai dovrebbe essere il contrario.
Sembrerebbe più plausiblle che Hastati meno esperti nell'uso del pilum siano stati dotati della più lunga lancia per confrontarsi con uomini armati in modo analogo: e fossero più a proprio agio con un'arma lunga contro un'altra arma lunga.
Se così è, allora possiamo concludere che Plutarco ha male interpretato le indicazioni di Camillo, ma ci ha implicitamente consegnato un altro passo evolutivo della legione romana fuori dagli stretti vincoli della falange oplitica: insieme a un aggiornamento tecnologico della propria panoplia, i Romani praticavano un uso più individualizzato della lancia oplitica e tecniche di scherma di lancia più attive e aggressive simili a quelle dei Galli. |