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"Chi desidera essere obbedito deve sapere come si comanda".
Niccolò Machiavelli, Discorsi, 1517.


GENERALE E LEADER

Il Comando


nicola zotti




Quando è stato inventato il comando? In altri termini: quando si è identificata l'importanza di questa funzione che, come sostiene Martin van Creveld in "Command in War", è necessaria affinché un esercito operi ed esista?

In realtà c'è una domanda ancora più interessante e significativa e che concettualmente comprende la prima: come è avvenuta la trasformazione da battaglia di uomini a battaglia di comandanti, e quali ne sono state le conseguenze?

Interessante e significativa in quanto segna il passaggio al ruolo del comandante militare come è anche oggi: non più primo inter pares in una formazione di guerrieri, ma responsabile supremo di un'attività complessa e articolata, dalla quale dipendono vittoria o sconfitta di un esercito.

In Occidente questo processo ha avuto uno sviluppo lungo e complesso, ma tutto sommato lineare, di cui abbiamo le prime evidenze con la guerra Persiana e che possiamo dirsi concluso con la Guerra del Peloponneso: quando gli eserciti non sono più composti esclusivamente da opliti, ma si sono differenziati in specialità che ne hanno reso molto più articolata ed esigente la gestione complessiva.

Lo certifica Socrate quando nei Memorabilia (3,1, 8-11) Senofonte gli fa elencare i compiti e delle qualità di un capo militare:

«Il comandante deve sapere come far arrivare ai suoi uomini le loro razioni, ed ogni altro genere di provvigioni necessarie in guerra. Deve avere immaginazione per architettare piani, senso pratico ed energia per condurli a termine. Deve essere attento, infaticabile e perspicace, gentile e crudele, schietto e astuto, una guardia e un ladro, prodigo, taccagno, generoso, gretto, impetuoso e prudente. Deve avere tutte queste qualità e molte altre, innate o acquisite. È ovvio, poi, che dovrà conoscere la tattica, perché c'è una grande differenza tra una disposizione delle truppe giusta o sbagliata, così come pietre, mattoni, tronchi e tegole messi assieme a caso sono inutili».

Già ai tempi di Socrate, quindi, si è compreso che il comando si esercita con due leve, una relativa all'efficienza della funzione e una all'efficacia dei suoi risultati, che si esplicano tanto nella abilità di portare i propri uomini sul campo di battaglia nelle migliori condizioni per vincere, quanto in quella di guidarli effettivamente alla vittoria.

In questo continuum temporale il comando interviene contemporaneamente con competenze tecniche e con qualità personali, le prime che si possono imparare, le seconde che si possono coltivare ma che in parte più o meno rilevante sono innate.

Nel comandante, quindi, devono convivere il "generale" e il "leader", depositario di "capacità" tecniche e di "ispirazione" umana, l'una a sostegno dell'altra: non si può concepire che un esercito scenda in combattimento senza una fiducia sperimentata nelle capacità tecniche di un comandante, ma esse non sono sufficienti senza il rispetto nelle sua qualità umane, perché l'istinto di sopravvivenza dell'uomo non può certo accontentarsi di garanzie tecniche.

Questa duplice consapevolezza nei secoli ha comportato la richiesta di strumenti di selezione dei quadri di comando di un esercito con i criteri di merito culturalmente disponibili in ciascuna epoca: in varie combinazioni nascita, professionalità, talento.

L'educazione al comando della classe aristocratica, ad esempio, la legittimava al comando spontaneamente nel contesto sociale, sia dal punto di vista gerarchico che da quello professionale.

L'appartenenza alla classe aristocratica era la premessa ad essere riconosciuto come capo, e comportava la più o meno automatica subordinazione dei sottoposti alla supremazia del capo. Inoltre l'educazione dell'aristocratico comportava in misura più o meno consistente una formazione militare, comprendente non solo l'uso delle armi, ma anche contenuti professionali più ampi. Il resto della selezione era in realtà più o meno casuale, per selezione naturale.

Poste regole certe, universalmente note e accettate, per determinare una gerarchia nobiliare, l'autorità necessaria ad esercitare il comando supremo ne deriva automaticamente.

Il passaggio al criterio della professionalità è diluito nei secoli, ma ha un suo punto di svolta cruciale con Luigi XIV. Il criterio di merito si sgancia in modo definitivo dal criterio dalla nascita, riconoscendo da un lato che l'educazione militare non viene più impartita nelle famiglie, e dall'altro che è necessaria una sua standardizzazione e autonomia, per far fronte all'aumentare della dimensione degli eserciti e all'aumento di complessità della loro gestione e quindi dello "spessore" delle conoscenze di un comandante.

L'auspicio è che si possano stabilire, seppure arbitrariamente, criteri almeno razionali per determinare l'ascesa al comando, enfatizzandone i suoi aspetti professionali.

La promozione poteva avvenire per anzianità (e dunque esperienza) e/o per riconosciuta conoscenza dei contenuti della propria professione, misurati tanto in termini di efficiente svolgimento della funzione, quanto in termini di efficacia dei risultati conseguiti, in una ricerca di oggettività: pur nell'arbitrarietà dei criteri di selezione, si supponeva che la loro applicazione potesse essere oggettiva, verificabile e quantificabile nelle accademie e negli stati maggiori.

Gli eserciti nazionali di massa si affidarono in misura sempre crescente a questo criterio, che in linea tendenziale vuole essere razionale e oggettivo, ma ovviamente non si esime da dosi di aleatorietà.

Come criterio di merito, molto più difficile da certificare è il talento, perché presuppone la capacità non solo e non tanto di riconoscerlo oggi, ma di individuarlo in prospettiva.

La cooptazione di un comandante per il suo talento richiede da parte di coloro che valutano un occhio critico in grado di vedere lontano, oltre ciò che è stato dimostrato fino ad oggi, che può essere solo una vaga premessa di ciò che può essere dimostrato domani in un ruolo di maggiore responsabilità. Inoltre presuppone un'alta propensione al rischio che non sempre si può concretamente esprimere.

Il talento non può essere quantificato, né, in realtà, venire valutato esattamente a priori: un soldato semplice può essere un pessimo soldato semplice, ma potrebbe rivelarsi un ottimo generale. Data questa premessa o l'organizzazione militare riconoscerà il suo talento o non ne beneficerà mai, perché mai potrà essere promosso caporale iniziando un'ascesa della gerarchia militare.

La promozione del talento richiede un'assunzione di responsabilità che non tutti i contesti sociali sono capaci di esprimere.