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IL SUO SIGNIFICATO E IL SUO RUOLO NEL PENSIERO STRATEGICO

La vittoria

Nicola Zotti

La vittoria incerta

L'idea di vittoria

La dinamica della vittoria

La vittoria come "situazione"


la Nike di Samotracia

La vittoria incerta

Il concetto di vittoria è alla base di ogni ragionamento strategico, eppure è anche quello che più di ogni altro sembra assumere un’inafferrrabile consistenza proteiforme.

Francesco Guicciardini, uomo che non mancava certo di esperienza e disincanto, riusciva a stupirsi quando vedeva un uomo anziano, un buon raccolto e una guerra vinta: eventi tanto esperibili empiricamente, quanto influenzati da una tale serie di fattori sia intenzionali che casuali da apparirci razionalmente imperscrutabili.

L’esperienza umana della guerra è infatti intrinsecamente caotica e non può che suggerire un’idea di vittoria potenzialmente altrettanto caotica: un suggerimento ingannevole, perché l’esperienza storica invece non registra vittorie e sconfitte come eventi meramente dettati dal caso.

Nell’antichità, la difficoltà di identificare in modo inequivoco la vittoria si scioglieva nell’espediente di formalizzare i processi che conducono ad una “guerra vittoriosa”: con metodi che oscillavano paurosamente tra un totale abbandono al volere divino – e dunque del caso – o all’affermazione diametralmente opposta di una certificazione giuridica.

Nike era messaggera di vittoria per conto degli dei, non la sua depositaria: la Nike alata dalle “agili caviglie” che gli ateniesi, preoccupati proprio della sua “volatilità”, cercarono di fermare per sempre presso di loro privandola delle ali nella statua del tempio di Nike Apteron.

Analogamente, la guerra “agonistica” tra le città stato greche, il ricorso all’ordalìa o l’uso medioevale della “sessio triduana” – che costringeva chi volesse dimostrarsi vincitore a sostare tre giorni sul campo dopo la battaglia, come ad esempio fecero gli svizzeri nel 1476 a Grandson – erano tentativi di ridurre questa insostenibile incertezza, accomunati dall’unico scopo di conferire oggettività universalmente verificabile agli esiti di una battaglia e di una guerra.

La modernità ha compromesso la possibilità di ricorrere a mezzi di questo genere, ma non ha saputo offrire soluzioni migliori.

I rischi, i costi e le sofferenze di una guerra rendono altamente indesiderabile non solo una sconfitta, ma anche una conclusione incerta: e se occasionalmente la forza deve essere usata la concordia è unanime sulla necessità di vincere.

Da qui sarebbe dovuta scaturire l’esigenza di non accontentarsi di determinare “come vincere”, quanto di fare un ulteriore passo indietro e individuare la vittoria in sé, di fissare il pensiero sul concetto di che cosa si vuole vincere: per ottenere dai campi di battaglia quella vittoria che consentisse la completa realizzazione degli obiettivi politici della guerra, per maturare quel risultato bellico che fa avanzare il conseguimento degli scopi politici della guerra.

La dottrina militare si è spesso dedicata ad una manualistica pratica – abitudine già cominciata con i romani – che in qualche modo ignorava o dava per scontata la definizione di vittoria.

Da parte sua, il pensiero strategico-politico, tranne poche per quanto significative eccezioni, non è riuscito a definire le gerarchie tra un obiettivo e i mezzi per ottenerlo, e a volte non ha saputo neppure indicare chiaramente gli obiettivi stessi, confidando di ricevere dai militari una vittoria qualsiasi purché “utile”, spendibile per una proficua negoziazione del dopoguerra.

L’ammonimento di von Clausewitz nel “Della Guerra” che «lo scopo politico, motivo primo della guerra, darà dunque la misura, tanto dell’obiettivo che l’azione bellica deve raggiungere, quanto degli sforzi che a ciò sono necessari», non è stato esteso fino alle sue estreme conseguenze né metabolizzato completamente persino dallo stesso von Clausewitz.

Da un lato ciò è giustificato dal fatto che la differenza di ruoli tra politici e militari si è tradotta spesso in una reciproca autoreferenzialità e in un’incomunicabilità che ha fortemente compromesso lo sviluppo del pensiero strategico.

Dall’altro, più semplicemente, non va dimenticato che per secoli la vittoria è stata il discrimine tra la sopravvivenza e la totale espulsione dalla storia.

Intere nazioni sono scomparse al tramonto del giorno di una battaglia, quando Genghis Khan affermava che “la più grande felicità è disperdere i tuoi nemici, inseguirli davanti a te, sottrargli le ricchezze, vedere i loro cari sommersi dalle lacrime, stringere al tuo petto le loro mogli e figlie”.

In queste condizioni gli spazi di ambiguità sono scarsi e ogni discussione appare irrilevante.

Poi però le cose, ammesso che siano mai state semplici, si sono complicate.
Infatti, all’endogena incertezza sulla definizione ed individuazione della vittoria si sono aggiunti nel tempo dubbi sulla possibilita della vittoria, sulla sua opportunità e sulla sua decisività: ovvero sulla sua stessa esistenza in natura.

Dubbi che tuttavia non hanno inciso minimamente sulle guerre, che hanno continuato imperterrite ad infiammare i continenti. Se ciò esprime un giudizio definitivo sulla validità di certe argomentazioni, non sottrae però nulla all’influenza che invece hanno esercitato nell’opinione pubblica e sulle strategie politiche, come sul carattere esistenziale che molti conflitti tuttora hanno.

In un conflitto, chi concepisce la vittoria ha un vantaggio sostanziale nei confronti di un avversario che non ha una visione altrettanto nitida dei propri interessi, o definisce la propria vittoria esclusivamente come negazione di quella avversaria.

E nessun esercito, per quanto forte esso sia, può vincere una guerra quando gli scopi politici di cui è strumento sono irrealistici o frutto di analisi errate.

Definire la vittoria diventa quindi un investimento indispensabile sia a comprendere la natura dei conflitti moderni, sia a governarli. E, non ultimo, a vincerli.