Il termine "geopolitica" ha due significati: uno preciso, che pure non ha in realtà mai avuto e che ha perso di senso col tempo, e uno che non si sa bene quale sia.
Posta così la questione può sembrare paradossale ma non è poi lontana dalla realtà, a prescindere da quanti studiosi si dedichino alla geopolitica o riviste si definiscano "di geopolitica".
In poco più di un secolo di vita, la geopolitica ha conosciuto alti e bassi di popolarità e una specie di metamorfosi profonda che non poteva non causarle problemi identitari.
Il primo tra i geopolitici
fu sir Halford John Mackinder, ma non coniò lui il termine, che invece fu inventato dal politologo svedese Rudolf Kjellén nel 1900. Mackinder non fondò una scienza, ma elaborò una teoria in base alla quale cercò di stabilire un nesso tra la conformazione del globo e le linee strategiche di fondo essa rendeva ineludibili.
Divisa la Terra in due entità, l'"Isola-Mondo" -- costituita dalla piattaforma euroasiatico-africana -- e la Periferia -- ovvero tutto il resto (Americhe, Isole britanniche, Oceania, ecc.) -- individuava l'ineluttabilità del dominio della prima sulla seconda in virtù di una sua sostanziale autarchia che aveva origine dall'immenso, inesauribile scrigno di materie prime e grano costituito dall'Heartland. Questo cuore della Terra agli inizi del Novecento, quando Mackinder scriveva, era costituito da Ucraina, Russia occidentale e Mitteleuropa, ovvero dal centro ideale dell'Isola-Mondo.
Un luogo al contempo interno -- e quindi invulnerabile via mare -- e comunicante col resto dell'Isola-Mondo mediante lo straordinario progresso delle comunicazioni ferroviarie.
Le conclusioni di Mackinder (e non sto saltando passaggi) erano ineluttabili: «Chi domina l’Europa orientale controlla l’Heartland: chi controlla l’Heartland domina l’Isola-Mondo: chi domina l’Isola-Mondo comanda la Terra».
Le teorie di Mackinder si contrapponevano a quelle dell'americano Alfred Thayer Mahan che nel 1890 aveva pubblicato "The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1783", un libro non solo molto piacevole da leggere, ma destinato ad una influenza duratura sul pensiero strategico.
Nelle sue pagine Mahan, con una incredibile dovizia di particolari, esalta l'elasticità peculiare del potere navale e la sua capacità di proiettare la potenza degli stati in modo imprevedibile e dominante: in pratica ribaltando la gerarchia di valori tra Isola-Mondo e Periferia che un decennio circa più tardi sarà il leit-motiv di Mackinder.
Tra Mahan e Mackinder, la storia ha dato ragione al primo, e ha in qualche modo riciclato più volte il secondo: per quanto entrambi basassero le proprie teorie "geopolitiche" sullo sviluppo delle tecnologie, le analisi di Mahan si sono dimostrate più elastiche e capaci di comprendere l'imprevisto, ovvero il prepotente ingresso del potere aereo, che ha irrimediabilmente condannato la premessa di invulnerabilità dell'Heartland di Mackinder. Le suggestioni di un'analisi a blocchi territoriali -- megablocchi, ma all'occorrenza anche miniblocchi -- di quest'ultimo, ha però infuenzato molti studiosi di strategia, che hanno in seguito scomposto e ricomposto il Globo in molteplici scacchieri, alla ricerca di un dato fisico assiomatico che rendesse deterministiche le proprie idee.
Guglielmo II di Prussia, nella sua singolare mania di grandezza, non seppe a quale delle due teorie affidarsi, e le abbracciò entrambe, coltivando sogni imperiali che riunifcassero l'Heartland, e al contempo assicurandosi che a bordo di ogni nave della Marina militare tedesca vi fosse una copia di "The Influence of Sea Power".
Chi invece scelse, anzi impose al mondo per anni un preciso concetto di geopolitica (sarebbe meglio dire Geopolitik), fu innanzitutto il generale tedesco Karl Haushofer che trasformò la geopolitica in un'Ideologia, coniando termini come "Lebensraum", e ispirando profondamente il nazismo che la trasformò in un programma politico volto proprio a quella conquista dell'Heartland profetizzata da Mackinder.
Questo causò nel dopoguerra per decenni un vero e proprio rifiuto dell'uso stesso del termine geopolitica anche se non della sua metodologia di analisi. Una cancellazione dal vocabolario che si chiuse già negli anni Ottanta, ma divenne definitiva negli anni Novanta, quando il Mondo iniziò a confrontarsi con la caduta dell'Unione sovietica.
Il termine "geopolitica" venne così ad identificare l'analisi dei conflitti di potere territorialmente localizzati (ecco una definizione possibile, ma ce ne sono innumerevoli altre, più o meno analoghe). La focalizzazione dello studio, dunque, non è tanto il territorio come obiettivo di conquista, né tantomeno il territorio come luogo materiale del conflitto armato (oggetto della geografia della guerra), ma il territorio / i territori, nelle accezioni fisiche ed orografiche, ma anche sociali, culturali, economiche, antropologiche, ecc., come origine dei conflitti.
In questo modo, però, la geopolitica ha assunto la tendenza a fagocitare nella sua genericità analitica e morbidezza intellettuale tutti i conflitti, da quelli mondiali a quelli tra bande di quartiere, e tutte le relazioni tra gruppi, internazionali e non. Aggrappandosi ad una realtà di partenza solo in apparenza solida e circoscrivibile come il "suolo", si è talmente espansa da diventare sempre meno "geo" e sempre più "politica" tout court.
Federico II di Prussia nel suo "Testament politique" scrive che «il terreno per il militare è come la scacchiera per il giocatore»: poco più di una battuta di spirito che può andare bene per un gioco, ma è molto pericoloso estendere e trasformare in un principio classificatorio tragicamente falso nella realtà, dove tracciare confini tra caselle bianche e nere o di altro colore sottrae e annulla contenuti che sono al contrario ibridi, caotici e confusi. Un'illusione cui non è sfuggito Zbigniew Brzezinski, il più influente geostratega moderno, che nel 1997 ha intitolato un suo libro "The Grand Chessboard".
Se dunque nell'accezione "originaria" la geopolitica ha cessato di esistere, non è che la geopolitica di oggi abbia forse molta credibilità, anche per ulteriori tre ragioni.
La prima è che in un mondo globalizzato la territorializzazione dei conflitti è influente solo in casi molto particolari e periferici, mentre prevalgono i conflitti di natura delocalizzata e di deterritorializzazione assoluta: in primis il terrorismo, ovviamente, che come tattica, a differenza della guerriglia, non ha particolari esigenze di controllo di un territorio, essendogli sufficiente l'occupazione di uno spazio puntiforme, come un appartamento. Non a caso il sopra citato Brzezinski dopo l'11 settembre ha dovuto riscrivere e aggiornare ampie sezioni del suo libro per comprendervi proprio terrorismo e globalizzazione. Se aggiungiamo a questo il problema della delocalizzazione delle minacce -- ad esempio l'inquinamento prodotto dall'industria cinese che arriva fino alla Malesia o il buco dell'ozono che provoca la desertificazione o lo sciogliemento dei ghiacciai -- il quadro si completa con un'ulteriore impossibilità di incasellamenti geopolitici.
La seconda è che i beni immateriali acquistano sempre maggiore importanza rispetto a quelli materiali e dunque cercare di spiegare i conflitti partendo in qualche misura da questi ultimi non può non condizionare un'analisi fino a stravolgerla e a renderla insignificante. Le idee, siano esse brevetti, piani per la costruzione di una bomba nucleare o propaganda politica, non seguono più vie carovaniere. Flussi finanziari senza alcuna sostanza reale, a parte qualche pacchetto di byte, possono essere strategicamente cruciali quanto se non più che giacimenti di petrolio e sorgenti d'acqua potabile.
La terza, e forse più importante motivazione, è che tra il termine geografia e quello politica c'è una distanza che li rende inconciliabili in un significato unitario. Non ho nulla, ovviamente, contro la geografia politica che si insegna nelle scuole, ma voglio solo osservare che qualsiasi ragionamento strategico di qualsiasi livello è un ragionamento essenzialmente politico svincolato in natura da qualsiasi considerazione accessoria, sia essa economica, sociale, culturale, o geografica, servendosi dell'una o dell'altra, di alcune o di tutte, a seconda delle convenienze e dei casi. Cercare di individuare la prevalenza sulla politica di uno di questi elementi o ancor peggio includere in uno di essi tutti gli altri, significa farlo coincidere con la politica: senza alcuna utilità pratica né per la politica né per la scienza.
Il 1 marzo 2008 Enrico Pellerito commenta queste mie note, in particolare quelle riferite al pensiero di Mackinder.
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