torna alla homepagetorna alla homepage
storia militare e cultura strategica
torna alla homepage
 
dalle discussioni
dell'area Warfare di MClink,
a cura di Nicola Zotti
  home > storie > La Compagnia delle Indie


ricognizioni
in territorio ostile


recce team

storie
strategia
tattica
what if?
vocabolario
documenti
segnalazioni
link
scrivici


quelle piccole sciabole incrociate

quelle piccole spade incrociate

Viaggi nei
campi di battaglia d'Italia
sulle carte del Tci


ASCESA E CADUTA DI UN IMPERO PER AZIONI

La Compagnia delle Indie


nicola zotti



Nel IV secolo a.C. l'Occidente si era affacciato con Alessandro il Grande alle porte dell'India, e le aveva anche spalancate con una vittoria. Solo un ammutinamento dei suoi uomini, terrorizzati dalla distanza che li separava dalla Grecia, lo aveva costretto a ritirarsi. Là dove aveva fallito la "grande anima" di Alessandro, riuscì però una società di mercanti, la Compagnia britannica delle Indie Orientali, senz'altro progetto che realizzare un profitto economico.

Per venti secoli l'India fu un sogno troppo lontano dall'Europa: il sogno di un paese prospero e magico nel quale fiorivano industrie e coltivazioni floridissime, capaci di provocare un'emorragia d'oro dall'Europa – come lamentava già nel I secolo Plinio il Vecchio nel suo "Storia della natura" – in virtù di un'economia autosufficiente e con la vocazione ad esportare.

Poi il prorompente dinamismo delle marinerie europee aprì nuove vie oceaniche, più rapide, anche se certamente non più sicure. Per primo il Portoghese Vasco de Gama, nel 1498, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza, approdò a Calicut sulle coste sud-occidentali del subcontinente indiano, che presto venne punteggiato da numerosi altri scali. Niente altro che piccole basi d'appoggio, il più delle volte estorte ai Nawab locali – i "Nababbi", viceré dell'impero dei Moghul – con la forza delle artiglierie, rompendo il monopolio dei mercanti musulmani, e quindi sostituendosi a loro. Per un secolo i Portoghesi ebbero il solitario dominio commerciale tra l'Europa e l'India, ma nel Seicento vennero prima raggiunti dagli Olandesi, che li scalzarono rapidamente dal ruolo di preminenza, quindi dagli Inglesi e persino dai Danesi. Buoni ultimi, nella seconda metà del secolo, giunsero i Francesi, ansiosi di recuperare il tempo perduto.

I carichi di pepe e di altre spezie, di tessuti in cotone, di fine mussola di cotone e di seta, di te, indaco, riso e zucchero garantivano profitti dell'ordine persino del 400%, ma anche una concorrenza spietata e senza scrupoli. Il buonsenso mercantile cercò allora di limitare i rischi consorziandosi, aggiornando il modello delle antiche corporazioni medioevali, in compagnie nazionali. Nacquero così, a partire dai primi del XVII secolo, le "Compagnie delle Indie orientali", alle quali i governi conferivano il monopolio dei commerci con quelle regioni, pionieristiche società per azioni a proprietà diffusa, dotate di personalità giuridica.

Fu proprio nel 1600, il 31 dicembre, che la regina Elisabetta I di Inghilterra concesse a 216 suoi sudditi riuniti nella "Governor and Company of Merchants of London trading with the East Indies" una patente per commerciare in condizioni di monopolio nel territorio compreso tra il Capo di Buona Speranza e lo stretto di Magellano. Era nata la "Compagnia delle Indie Orientali", destinata in due secoli e mezzo di vita ad esercitare un ruolo di primo piano, non solo nella storia dell'India, ma anche in quella dell'Europa e del Mondo.

Ci volle un secolo alla Compagnia per mettere saldamente piede nel subcontinente in particolare con tre basi in altrettanti punti strategici: l'isola di Bombay sulla costa occidentale, Madras su quella meridionale, e Calcutta, sul fiume Gange, nel ricco Bengala. Ciascuna di esse era autonoma e governata da un presidente e da un consiglio, da cui dipendevano non solo le relazioni economiche con le attività locali, ma anche i rapporti con le autorità di governo. L'impero dei Moghul, discendenti di Gengis Khan, dopo due secoli di dominio sull'intero subcontinente, agli inizi del Settecento era in inarrestabile declino sotto gli attacchi della Confederazione Maratha, destinata prima della fine del secolo a ridurne la sovranità alla sola capitale Delhi. Questo lungo, estenuante conflitto aveva indebolito non solo il potere centrale, ma anche dissolto ogni antico vincolo feudale. I Nawab e i Sultani che governavano le province imperiali gradatamente conquistarono maggiore autonomia, e quindi indipendenza, con l'inevitabile strascico di disordini, congiure e guerre che la loro ambizione portava con sé.

In questo agitato scenario, le Compagnie europee, non potendo attendere un anno (tanto poteva durare un viaggio di andata e ritorno) per ricevere istruzioni, furono costrette a comportarsi come plenipotenziari dei rispettivi governi, cercando nel contempo di lucrare benefici per le proprie attività.

E in cambio di vantaggi commerciali le Compagnie erano ovviamente disposte a tutto, in primo luogo impiegando il proprio oro e, se necessario, anche la forza militare. Ogni presidenza, infatti, disponeva di un piccolo contingente di mercenari reclutati solo in minima parte tra Europei e per il resto tra indiani di discendenza europea. A metà Settecento erano solo poche centinaia di uomini in uniforme schierati a difesa di ciascuna presidenza, addestrati e inquadrati secondo i dettami della stretta disciplina europea dell'epoca. Questa particolare qualità rendeva le loro armi, tecnologicamente sullo stesso livello di quelle indiane, molto più efficaci in combattimento e quindi assai desiderabili dai Nawab che cercavano alleati nella conquista o nel mantenimento del potere.

Il coinvolgimento delle Compagnie nella politica locale era uno strumento per volgere a proprio vantaggio gli equilibri commerciali: a suo tempo gli Olandesi se ne erano avvalsi per scalzare i Portoghesi, gli Inglesi con quel mezzo prevalsero sui loro concorrenti nordici, e non c'erano dubbi che i neo arrivati Francesi avrebbero utilizzato la stessa leva per sostituirsi a loro.

In un mondo che già allora si riconosceva globale, l'intreccio tra gli interessi economici delle grandi compagnie commerciali e quelli politici dei governi era diventato pericolosamente inestricabile.

E non era tutto. A Londra gli enormi profitti della Compagnia minavano alle fondamenta gli equilibri politici e sociali, comprando maggioranze parlamentari e la benevolenza del re finanziandone il debito pubblico, reso sempre più soffocante da ogni nuova impresa militare. Guerre, per altro, possibili solo grazie alla fornitura di salnitro, ingrediente fondamentale per la polvere da sparo, che la Compagnia produceva negli opifici asiatici.

La supremazia delle classi dirigenti inglesi era minacciate da questi nuovi ricchi, spregiativamente chiamati "Nababbi", che portavano dall'india le proprie abitudini esotiche e i loro immensi patrimoni che investivano rilevando proprietà immobiliari a prezzi insostenibili per chiunque altro, e si inserivano prepotentemente ai ruoli di vertice della gerarchia sociale inglese.

Per quanto allarmante potesse sembrare questa situazione, era solo l'inizio.
Nella seconda metà del Settecento, infatti, Inghilterra e Francia si trovarono ancora una volta in campi avversi in un nuovo conflitto europeo, la Guerra dei Sette Anni, (1756-1763), che si trasformò fin dalle sue prime mosse in "guerra mondiale" espandendo nelle colonie i propri teatri operativi, e quindi elevando la Compagnia ad un ruolo da protagonista.

india



Le ambizioni francesi nel subcontinente si scontrarono con l'opposizione della Compagnia che, sotto la guida brillante del trentaduenne colonnello Robert Clive, riuscì a organizzare praticamente dal nulla una piccola ma efficiente forza militare.

I Francesi si erano alleati al Nawab del Bengala Siraj ud-Daulah, portando una minaccia mortale alla permanenza inglese alla foce del Gange. Ma tra le risorse della Compagnia c'era anche una profonda conoscenza della realtà locale. il 23 giugno 1757, presso il villaggio di Plassey, Clive con 3.000 uomini (di cui oltre due terzi erano "Sepoy" indiani) fu circondato dall'esercito di Siraj, forte di 62.000 bengalesi. Una trappola senza scampo, se un temporale monsonico non avesse inzuppato le polveri degli avversari (mentre Clive aveva provveduto a far riparare le proprie sotto teloni impermeabili) e, soprattutto, se il grosso delle truppe del Nawab non si fossero ritirate dal combattimento al momento decisivo: il loro comandante, Mir Jafar, era stato comprato da Clive con la promessa (regolarmente mantenuta come in ogni transazione commerciale che si rispetti) che sarebbe divenuto il nuovo Nawab di un governo-fantoccio.

Il solo profitto scaturito dal saccheggio del Bengala dopo la vittoria fruttò a Clive una cifra equivalente a 22 milioni di sterline attuali e di 232 milioni per la Compagnia.

Il "modello di Business Plassey", cocktail di forza militare e corruzione, sembrò talmente conveniente da aprire un nuovo orizzonte "imprenditoriale" alla Compagnia, i cui profitti sarebbero stati garantiti da ulteriori conquiste. Avventurieri come Clive presero il posto dei commercianti alla guida della Compagnia, "investendo" sempre più risorse aziendali in un apparato militare che alla fine della Guerra dei Sette anni era cresciuto da un migliaio di uomini a oltre 15.000, e che nei successivi venti anni sarebbe aumentato di altre 100.000 unità.

La Compagnia delle Indie arrivò a disporre per i suoi commerci di una flotta di dimensioni straordinarie, tanto da poter essere definita a fine Settecento "la terza potenza navale al mondo": e con un personale di oltre 20.000 marinai e ufficiali imbarcati, rappresentava in caso di guerraanche un prezioso serbatoio di risorse per la Royal Navy.

Da un giorno con l'altro la Compagnia aveva aggiunto alla propria ragione sociale originaria gli introiti derivanti dalla sovranità su un territorio più grande di quello di Francia e Spagna unite e su una popolazione almeno tripla di quella britannica: 30 milioni di abitanti che la Compagnia avrebbe provveduto a spremere di tasse, avvalendosi dell'efficiente struttura amministrativa indigena, per distribuire dividendi anche del 12,5% ai propri investitori. Come era prevedibile, le azioni della Compagnia, "garantite" da un impero, schizzarono alle stelle.

Trasformandosi da "semplice" impresa commerciale a potente macchina di governo territoriale, però, il sistema amministrativo della Compagnia si dimostrò completamente inadeguato a fare fronte alle nuove responsabilità. L'oppressione fiscale su artigiani e contadini raggiunse livelli insopportabili, andandosi a sommare al taglieggiamento cui si dedicavano i corrotti funzionari della Compagnia per arrotondare il proprio stipendio e alle feroci speculazioni sui beni di prima necessità, particolarmente accanite durante le sempre più frequenti carestie.

La guerra, tuttavia, è per sua natura caotica e imprevedibile, una caratteristica che mal si concilia con le esigenze di sicurezza e di stabilità tipiche dei mercati azionari. Così nel 1769, anno già travagliato da una grave crisi economica mondiale, le voci di un nuovo possibile conflitto in India provocarono il panico in Borsa e il crollo verticale delle azioni della Compagnia, portandola sull'orlo del fallimento e trascinando sul lastrico i suoi numerosi azionisti.

Le voci degli oppositori della Compagnia ripresero forza, riunendosi in un attacco convergente: l'opinione pubblica indignata per i terribili abusi della Compagnia, i liberali come Adam Smith che denunciavano la minaccia alle libertà fondamentali del sistema politicoed economico britannico indotte dalla corruzione imperante nella Compagnia, come da una fonte di infezione («Negligenza e sperperi prevarranno sempre nella gestione degli affari di una tale compagnia» Adam Smith, La ricchezza delle Nazioni.), i commercianti che propugnavano il ripristino della concorrenza di mercato.

Il primo ministro William Pitt fu costretto ad intervenire con una soluzione di compromesso, l'India act del 1784, che salvava la Compagnia ma la subordinava ad un governatore di nomina politica, in questo modo mantenendone in vita non tanto il valore commerciale, quanto soprattutto quello territoriale e militare. Nel 1786 Charles Cornwallis fu nominato Governatore generale e comandante in capo in India, avviando riforme profonde e lungimiranti che avrebbero condotto l'India sotto il diretto controllo della Corona Britannica. La Compagnia divenne un prezioso serbatoio di risorse – finanziarie, di uomini e navi – da impiegare per gli scopi della corona britannica, a cominciare dalle guerre Napoleoniche, dove si rivelarono fondamentali, ma il suo "impero" era definitivamente tramontato.