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SI FA PRESTO A DIRE "GUERRA DI RELIGIONE"

La Guerra dei Trent'anni


nicola zotti



Trent'anni di guerra, secoli per oscurarne le stragi con altre più grandi, e ancora oggi un'eredità di tracce nascoste nella cultura profonda dell'Europa: dal 1618 al 1648 il nostro continente fu sconvolto da un conflitto di brutalità e ferocia che non ebbero eguali fino alle stragi industrializzate del Novecento. Un ricordo di tale potenza evocativa, in particolare in Germania, che Bertold Brecht, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, poté ambientare il suo dramma antibellicista "Madre coraggio e i suoi figli", proprio in quello scenario, elevando la Guerra dei Trent'anni a tragica metafora universale di tutte le guerre.

L'Europa non poteva certamente essere definita un luogo pacifico, e il Cinquecento l'aveva già copiosamente insanguinata con guerre di religione, lotte indipendentistiche, conflitti per la supremazia continentale. Il peggio però venne perché, come spesso accade, i trattati di pace non risolsero le dispute, ma si limitarono a tentare di rinviarle, creando nuovi motivi di contrasto che si innestarono su quelli vecchi, pronti ad esplodere in un futuro molto prossimo.

Al di là di ogni capacità umana, in particolare, ricomporre l’unità dei cristiani. In un mondo dove la fede era un sentimento radicato e passionale, sul quale singoli e comunità fondavano il proprio corpo identitario, la divisione tra i cristiani era una lacerazione troppo fresca e troppo profonda per essere sanata, soprattutto se la politica faceva a gara con la teologia per tenerne divaricate le parti, e i diversi credi agivano come efficaci agenti catalizzatori di altri interessi e motivi di conflitto.
L’unità della Chiesa medioevale era stata incrinata nei secoli da numerosi movimenti “eretici” che, approfittando di una ancora nebulosa concezione di “ortodossia”, ne contestavano le non poche e non piccole contraddizioni. Alcuni erano stati estirpati, come nel caso dei Catari, altri erano sopravvissuti per la tenacia della loro resistenza, ad esempio i Valdesi.

Solo nel Quattrocento, però, la Boemia, per prima, aveva espresso un movimento protestante capace di guadagnare solidi proseliti tra le autorità civili. Era il cristianesimo riformato di Jan Hus, che nella prima metà del XV secolo aveva visto i suoi seguaci, gli Ussiti, combattere una dura guerra contro il potere imperiale per ottenere non solo la libertà di contestare la supremazia della Chiesa di Roma e di esercitare il proprio culto, ma anche il diritto a non essere esclusi a causa di esso dalle cariche pubbliche e dai privilegi nobiliari. Rivendicazioni che rafforzavano e contemporaneamente traevano alimento da quello che oggi chiameremmo un sentimento “nazionalistico” nella popolazione boema, che stava imparando a riconoscersi nelle origini slave e a valorizzare la propria individualità culturale, sociale ed economica.

Nel secolo seguente ritroveremo tutti questi elementi accompagnare l’affermazione di tesi riformiste di capacità espansive assai più potenti di quelle di Jan Hus: nel Cinquecento l’impatto in rapida successione di personalità del calibro di Martin Lutero, Giovanni Calvino e Ulrico Zwingli travolse l’Europa infiammandola di focolai conflittuali. Particolarmente accese le guerre in Svizzera, in Germania e in Francia: guerre di religione, ma contemporaneamente guerre civili che provocavano l’annientamento di intere comunità, causavano esodi di popolazioni verso luoghi più pacifici e tolleranti, e scoprivano il fianco all’intervento delle potenze straniere che volevano trarre profitto delle condizioni di disordine ed instabilità.

Fedele a queste premesse, la Guerra dei Trent’anni trova la sua origine nella imperfetta conclusione del conflitto che dal 1546 al 1547 aveva visto Carlo V affrontare e vincere i nobili luterani riunitisi nella lega di Smalcalda per ribellarsi al divieto imperiale di diffondere le opere di Lutero: cosa che in piena Controriforma (il concilio di Trento era iniziato nel 1545 e si sarebbe concluso nel 1563), e con la sempre maggiore diffusione dei libri a stampa non era certo un pretesto.

Un conflitto localizzato in un’area ristretta della Germania orientale, aveva fornito all’Imperatore l’occasione per infliggere un colpo durissimo al Luteranesimo, ma proprio a ragione di questo aveva sospinto a coalizzarsi contro di lui gli altri Principi di questa fede e soprattutto a guadagnare loro il sostegno del re di Francia Enrico II, nazione cattolica romana, ma storicamente ostile a Spagna e Impero. Il trattato di pace concordato ad Augusta nel 1555 dal futuro imperatore Ferdinando I, in rappresentanza del fratello Carlo V, era sicuramente un tentativo di riconciliazione volenteroso, ma allo stesso tempo si sarebbe rivelato fonte irriducibile di instabilità. Conferiva un fondamento legale alla coesistenza del Cattolicesimo romano e del Luteranesimo negli stati tedeschi dell’Impero secondo il principio “cuius regio, eius religio”, sulla base del quale una popolazione doveva uniformarsi alla religione del suo sovrano.

Statuita la libertà di coscienza dei monarchi, non la si riconosceva ai sudditi, che erano così costretti a convertirsi oppure a vendere casa e podere ed emigrare presso un principe correligionario. Esodi forzati che potevano avere conseguenze drammatiche sulle economie di un territorio suddiviso in 225 “nazioni”, persino costituite da un solo villaggio, e che alcuni “reges” non ritennero saggio applicare, mentre altri invece imposero rigidamente.

In casi particolari, poi, la regola nemmeno era applicabile per l’assenza di un sovrano, come nelle città libere, o nei Principati ecclesiastici guidati da un vescovo convertitosi al Luteranesimo, con uno strascico di difficili convivenze forzose tra comunità. A complicare la situazione giunse la conversione di alcuni principi luterani al Calvinismo, religione non inclusa nel trattato di Augusta, e la rapida diffusione di questa fede aggiungeva un terzo incomodo alla già intricata situazione: disordini e persecuzioni delle minoranze vennero all’ordine del giorno, così come le ritorsioni, gli interventi dall’esterno in favore di questo o di quello, l’organizzazione di milizie armate di autodifesa delle comunità religiose.

Il Sacro romano impero era diventato una polveriera pronta ad esplodere e l’occasione la fornì la successione al regno di Boemia: nel 1617 era diventato re del paese Ferdinando II d’Austria, fervente cattolico, che ovviamente si temeva potesse pretendere la conversione dei suoi sudditi, in massima parte Ussiti.

La reazione della popolazione fu inequivocabile: i rappresentanti del nuovo re furono scaraventati da una folla inferocita dal terzo piano del palazzo del Governo. Il fatto che i malcapitati siano sopravvissuti ad un volo di venti metri (per intervento angelico secondo i cattolici, perché un mucchio di letame ne attutì la caduta secondo i protestanti) non servì ad evitare la guerra.

La questione avrebbe potuto comunque rimanere circoscritta nella regione o, al massimo, a quelle circonvicine, e risolta in pochi mesi, se non fosse intervenuta una causa classica dell’espandersi delle guerre: la concomitante debolezza di entrambi i contendenti, nessuno dei quali era in condizione di sopraffare agevolmente l’avversario.

Sia Ferdinando che i protestanti Boemi chiesero aiuto: il primo al potente Filippo IV di Spagna, i secondi alla comunità luterana tedesca. In breve la guerra divampò nel Palatinato, in Austria e in Ungheria, mentra la Polonia, alleata degli Asburgo, fu attaccata dagli Ottomani, chiamati in causa dai protestanti ungheresi. Nel 1620, però, la guerra in Boemia subì una svolta: mentre l’armata della protestante Sassonia invadeva il paese da nord per conto degli Asburgo, in cambio di guadagni territoriali, e un esercito imperiale bloccava i soccorsi a ovest, un’altra armata, in larga parte composta da veterani spagnoli, attaccava da sud, infliggendo una pesante sconfitta ai mercenari raccolti dai Boemi in difesa di Praga, l’8 novembre nella battaglia della Montagna Bianca: in realtà poco più di una schermaglia durata un’ora, ma la conquista di Praga fu sufficiente a far collassare la rivolta e da quel giorno la Boemia entrò nel possesso diretto degli Asburgo, rimanendovi per tre secoli.

Ferdinando pretese come temuto la conversione dei suoi sudditi alla fede cattolica, provocando un esodo legittimamente definibile “biblico”: la popolazione complessiva boema, già facidiata dalla guerra, si ridusse a meno di un terzo, così come il numero delle fattorie. La Guerra dei Trent’anni rivelò subito senza ipocrisie il suo volto crudele: le armate mercenarie dovevano sostenersi a spese dei territori teatro dei combattimenti esigendo tributi e requisendo viveri, con diritto di saccheggio delle città anche in caso di resa, la tortura sistematica per estorcere fino all’ultima risorsa, disertori e sbandati a rubare le ultime briciole, la morte per fame nel destino di chi sopravviveva alle armi.

Le vittoriose armate imperiali si trasferirono nel Palatinato, il cui sovrano, Federico V, era stato eletto re dai rivoltosi Boemi e si era schierato al loro fianco, proseguendo la guerra fino al 1625 soprattutto con assedi. La Repubblica olandese, già coinvolta in una guerra interminabile con la Spagna, aveva finanziato la causa dei Boemi ribelli e provò a sostenere anche Federico V, ma invano: gli Spagnoli occuparono militarmente il territorio, più in funzione strategica anti-olandese che contro la causa protestante, ormai all’apparenza compromessa.

A risollevare il morale e le sorti dei protestanti tedeschi intervenne, però, il re Cristiano IV di Danimarca, allora una tra le più floride nazioni europee, che aveva possedimenti nel Sacro romano impero e voleva cogliere l’occasione per aumentare la propria influenza nell’area a spese degli Asburgo. Il suo esercito, in larga parte nazionale, dal 1625  fece da catalizzatore per le forze disperse degli sconfitti, mentre all’Impero e ai suoi alleati spagnoli, già duramente provati, mancavano forze fresche.

A fornirle pensò il primo imprenditore della guerra, Albrecht von Wallestein, non un semplice mercenario ma vero antesignano dei moderni “Contractors”. Piccolo nobile boemo, aveva approfittato dei feudi espropriati ai protestanti del suo paese diventando ricchissimo e soprattutto capace di fornire con i suoi soli mezzi all’imperatore una guerra “chiavi in mano”: ufficiali, uomini, armi, munizioni, animali, vestiti, vettovaglie.

Cristiano fu sconfitto, minacciato di perdere il suo stesso regno e costretto nel 1629 alla resa: veramente sfortunato nella scelta dei tempi del suo intervento, perché l’alleato essenziale alla sua offensiva in favore della causa protestante, la Francia, era troppo impegnato a combattere (ancora una volta) gli Ugonotti, in rivolta contro Maria de Medici e suo figlio Luigi XIII, intenzionati a una più stringente politica filo-cattolica: naturalmente solo nel proprio regno, perché il nemico del proprio nemico (l’Impero asburgico) è sempre amico, anche se protestante.

Cristiano aveva solo preparato la scena a un altro protagonista, destinato a rovesciare completamente e definitivamente le sorti della guerra, Gustavo Adolfo di Svezia.

Motivata dalle stesse ragioni per metà ideali e per metà concretissime del Danese, la sua discesa in campo alla testa di un esercito potente e moderno fu sconvolgente: i massicci “Tercios” spagnoli che avevano domato ogni avversario furono sopraffatti dalle agili e sottili formazioni svedesi e al loro devastante (per l’epoca) potere di fuoco.

Il 17 settembre 1631, a Breitenfeld, in Sassonia nelle vicinanze di Lipsia, Gustavo Adolfo non vinse solo una battaglia, ma la guerra: l’esercito cattolico ridotto a poche migliaia di uomini, i più importanti principi protestanti convinti finalmente a scendere in campo, il cardinale Richelieu, primo ministro di Francia, felice di finanziare la sconfitta del primo nemico nazionale per interposta armata.

Ferdinando II, che aveva licenziato Wallestein spaventato dal potere che questi stava accumulando, nel 1632 si decise a richiamarlo in servizio come ultima risorsa utile ad opporsi alle dilaganti armate nemiche. Il boemo rispose con straordinaria efficienza e in una settimana era già in campo con un esercito completamente nuovo.

Non servì a fermare gli Svedesi, né tanto meno la causa protestante, ma il caso volle che il 16 novembre, sul campo di battaglia di Lützen, in Sassonia, si interrompesse la fulgida parabola di Gustavo Adolfo, ucciso in combattimento prima di poter vedere ancora una volta vincitore il suo esercito.

Fu una sciagura per l’Europa e la Germania in particolare: il re svedese almeno avrebbe concluso rapidamente quella terribile la guerra, che invece durò altri 16 anni.

La Francia, costretti infine gli Ugonotti ad un accordo e conclusa quella propaggine della guerra dei Trent’anni che fu la guerra per la Successione di Mantova (l’ennesimo atto del secolare conflitto franco-spagnolo che fa da sfondo ai Promessi sposi di Alessandro Manzoni), era libera di intervenire direttamente al fianco degli Svedesi e dei loro alleati. Questi soffrivano la perdita della guida ispirata di Gustavo Adolfo molto più di quanto la causa imperiale patisse quella di Wallenstein, assassinato nel 1634 da un intrigo cui non era probabilmente estraneo Ferdinando II.

Nemmeno la vittoria francese a Rocroi, al confine con l’attuale Belgio, il 19 maggio del 1643, dove pure i veterani spagnoli vennero decimati, si rivelò conclusiva, ma al massimo un regalo propagandistico per l’ascesa al trono di Luigi XIV, avvenuta 4 giorni prima.

La guerra finì per consunzione dei contendenti, nel 1648, sancita dalla pace di Westfalia. Non era stata una guerra di religione, ma contro il Sacro romano impero e contro la Spagna sua alleata, che ne erano usciti fortemente ridimensionati: dalle ceneri della Germania, che aveva perso un terzo della sua popolazione, con punte in alcune regioni del 75%, era uscita l’Europa dei moderni stati sovrani, popolati da cittadini leali indipendentemente dalle fedi religiose che professavano, e nei quali il potere politico era sostenuto da eserciti non più di mercenari ma di soldati nazionali disciplinati e rispettosi dei civili, posti a difesa di confini certi e delle leggi vigenti all'interno di questi.

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