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ANALISI SOCIOPOLITICA DI UNA GUERRA CIVILE

La natura delle guerre delle rose

nicola zotti


Le isole britanniche hanno convissuto per secoli con cruente guerre civili che ne hanno profondamente segnato la storia.

Le guerre delle rose, tra tutte, hanno avuto il privilegio di essere raccontate in una celeberrima serie di opere teatrali da William Shakespeare, ed è attraverso di queste, più che dalla storia militare, che noi italiani ne conosciamo (quando li conosciamo) gli eventi.

In realtà, i resoconti di contemporanei sono assai scarsi, in particolare relativamente agli episodi militari, e molto di ciò che oggi leggiamo, in buona parte, altro non è che ricostruzione congetturale.

Responsabilmente non credo al momento di potervi riassumere lo svolgimento degli oltre trent'anni di guerre ad intermittenza che conosciamo appunto come guerre delle rose, né ripercorrere le complesse questioni dinastiche, o le biografie degli innumerevoli personaggi coinvolti.

Più modestamente, ma credo anche più utilmente, vorrei descrivere alcuni aspetti peculiari delle guerre delle rose, come la struttura degli eserciti e le caratteristiche del combattimento, la durata delle campagne, e, nelle righe che seguiranno, la loro natura stessa come fenomeno socio-politico.

L'Inghilterra esce nel 1453 dalla guerra dei Cent'anni demoralizzata e ferita. Persi i possedimenti continentali, ad esclusione della sola piazzaforte di Calais, le ambizioni personali dei pari del regno e della nobiltà minore si ripercuotono con forza nella politica interna.

È un periodo di faide che rimangono circoscritte finché non esplode un conflitto per il controllo del trono con addentellati addirittura dinastici attorno alla debole figura del re Enrico VI e della più carismatica e volitiva persona di sua moglie, la regina Margherita d'Angiò.

La casa di York, guidata al momento dal duca Riccardo, contesta la legitimità della discendenza che affida il trono ai Lancaster a partire da Enrico di Bolingbroke, regnante come Enrico IV.

Questa contesa naviga su un ribollire di ambizioni i cui attori principali sono le famiglie di 68 nobili titolati (duchi, marchesi, conti, visconti e baroni) pari del regno riuniti nella camera dei Lord, seguiti da 2-3.000 nobili minori, come cavalieri e scudieri o semplici possidenti terrieri, i cui rappresentanti sedevano nella camera dei Comuni.

Gli uni e gli altri sono legati tra loro da vincoli di assistenza e protezione reciproca, oggi si direbbe di clientela, consolidati ormai da secoli e graficamente rappresentati dalle livree che recavano i simboli di appartenenza, come appunto la rosa rossa di Lancaster o quella bianca di York, e molti altri come il cigno per Margherita d'Angiò, l'orso di Warwick, il cinghiale bianco seduto di Riccardo III, il sole splendente di Edoardo IV, l'aquila con il lucchetto di suo padre Riccardo di York, il leone di lord Hastings, o la stella con i raggi dei de Vere indossata dagli uomini del duca di Oxford alla battaglia di Barnet, che si narra venne scambiata dalle truppe lancasteriane per il sole splendente di Edoardo IV, facendo immediatamente oggetto i possessori di un tiro "amico", che li mise in fuga al grido di "tradimento", proprio quando sarebbero potuti intervenire con successo nella mischia.

Questo sistema di dipendenze e alleanze è stato definito "feudalesimo bastardo": un termine volutamente dispregiativo che voleva identificare una forma corrotta e corruttrice di feudalesimo, per sottolinearne una responsabilità primaria nella guerra civile stessa.

Di fatto, delegando il trono il reclutamento di larga parte delle proprie milizie alla nobiltà dei pari, che si rivolgeva per questo ai suoi clienti nella nobiltà minore, minava in qualche modo la stabilità e l'autorevolezza della corona stessa, perché accettava che si stabilisse un forte legame indiretto, tra "sudditi", che in qualche modo la escludeva.

Tuttavia, finché l'autorità reale rimase forte, fino ad Enrico V, il "feudalesimo bastardo" inglese non fu poi così bastardo, mentre quando il trono si indebolì per la morte del re ad appena 35 anni, con un solo erede di nove mesi, Enrico VI, il vuoto politico chiese prepotentemente di essere occupato: energizzante nutrimento per le faide sempre latenti tra le grandi famiglie.

Notando che qualcosa di molto simile si sviluppò anche nel Giappone feudale, si deve concludere che possiamo sicuramente rinvenire un principio di razionalità in questo sistema di organizzazione feudale e anche sottolineare che non solo i "samurai" inglesi non misero mai in discussione il principio monarchico -- se non divino come in Giappone, almeno semidivino in Inghilterra -- per sostituirlo con qualche forma di shogunato (ci penserà Oliver Cromwell?) ma che anzi dalle guerre delle rose la monarchia britannica uscì rafforzata e pronta a nuove sfide.

Fino agli ultimissimi atti delle guerre delle rose, infatti, la nobiltà fu coinvolta nel conflitto in modo totale, e pagò sempre il prezzo più alto, economicamente ed umanamente.

Da una parte o dall'altra, talvolta cambiando livrea, ma sempre inevitabilmente schierati, guadagnando onori in caso di vittoria o estinguendo a volte la stessa casata in caso di sconfitta: perché chi non moriva in battaglia, se prigioniero veniva giustiziato alla sua conclusione, i suoi beni comunque confiscati e assegnati dal parlamento, su richiesta del partito regnante al momento, alla corona stessa e ai suoi sodali. Ed è emblematico di questo fenomeno che tanto la casa di Lancaster quanto quella di York conclusero le guerre con la linea maschile completamente estinta.

La sofferenza dei civili e dell'economia fu abbastanza ridotta, il paese non soffrì di uno scontro tra nobili per questioni di potere che sostanzialmente non li riguardavano e che, per la limitata durata delle campagne, non potevano provarne il tessuto profondo.

Lo stress fu soprattutto politico, e sfociò in una richiesta di ordine e di giustizia in particolare contro gli abusi tirannici di Riccardo III.

Enrico VII Tudor così erediterà un'Inghilterra pronta alla monarchia nazionale assoluta, potente quanto equanime e rivolta all'interesse nazionale che incarnava, e quindi capace di indirizzare le proprie energie verso quell'espansione imperiale che era ormai entrata nel suo orizzonte.