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NAPOLEONE PERDE, NAPOLEONE VINCE

Napoleone in Egitto


nicola zotti


L’alba dell’anno IX dalla Rivoluzione, il 1798, illuminava una Francia stanca di guerre, di instabilità e di disordine, ma ancora capace di riconoscere e coltivare in sé i fermenti ideali della rivoluzione: il cambiamento, la mobilità sociale, la diffusione e il consolidamento delle libertà fondamentali.

Che tra questi diversi sentimenti serpeggiassero contraddizioni era testimoniato dalla stessa guida della Nazione, il Direttorio, un organismo dittatoriale nato per rispondere all’emergenza bellica e che si era ben presto rivelato corrotto e inadeguato. Garante di un equilibrio politico assai precario e nominalmente custode del rinnovamento, trovava l’alibi della propria permanenza al potere nel perdurare della guerra e per questo motivo non aveva alcuna convenienza che si giungesse alla pace.

Per disgrazia della Francia e dell’Europa, questo era anche l’unico punto in comune condiviso con i suoi più pericolosi avversari, i militari, la cui condizione sociale era cresciuta in virtù delle tante conquiste, e che non intendevano rientrare in un pacifico anonimato.

Tra di essi il più brillante e ambizioso era Napoleone Bonaparte, non ancora trentenne, geniale sui campi di battaglia e molto abile anche nelle contese politiche: aveva offerto alla Francia eccezionali e remunerative vittorie, ma era stato anche convincente nell’attribuirsi i meriti della pace.

Così i Francesi ne fecero il proprio salvatore, indifferenti al fatto che con il trattato di Campoformio egli avesse condannato il Giacobinismo italiano e consegnato il Veneto all’Austria, e inconsapevoli che in questo modo fossero state gettate le premesse per le guerre future.

La popolarità di Napoleone era una minaccia incombente per il Direttorio, che poteva però essere esorcizzata almeno in parte allontanandolo da Parigi (e dal potere politico) verso qualche impresa militare. Il generale fu così incaricato di effettuare un’analisi strategica su come affrontare l’Inghilterra, la più acerrima – e anche apparentemente unica – nemica della Francia.

Per Napoleone era l’occasione di coprirsi nuovamente di gloria, per il Direttorio la speranza di un rovinoso fallimento che ne compromettesse la reputazione. La Francia, allettata dai benefici di nuove espansioni territoriali, si sarebbe facilmente convinta che solo da una nuova e risolutiva guerra sarebbe germinata una vera pace.

Fu in questo clima di velenoso gioco politico che Napoleone progettò la spedizione in Oriente: un attacco ai vitali interessi britannici in Egitto e alla loro via verso l’India, attraversando un mare dove la Royal Navy faceva un po’ meno paura, il Mediterraneo.

Seguirono settimane di organizzazione febbrile e segretissima, tradita solo dalla spasmodica ricerca da parte degli stretti collaboratori del generale di ogni documento, di ogni carta, di ogni memoriale riguardasse l’Egitto, la Siria e l’impero Ottomano. Un lavoro di intelligence da completare in loco grazie alla competenze di 167 “savant”, intellettuali di varie discipline che sarebbero stati impiegati anche per guadagnare la fiducia della popolazione e per effettuare missioni scientifiche, mentre il lato militare della conquista fu affidato ai 40.000 giovani migliori dell’Armata d’Italia. Gli uni e gli altri giunsero ai porti di imbarco, tra i quali anche Genova e Civitavecchia, per essere stipati come sardine su 300 navi da trasporto e salpare per un viaggio che, iniziato l’ultima decade di maggio, sarebbe durato quasi un mese e mezzo.

Tra i soldati la maggior parte non aveva mai visto il mare e pochissimi erano saliti su un’imbarcazione, ma i più preoccupati erano i marinai, consapevoli che una flotta così lenta, appesantita dall’enorme carico delle navi da trasporto, sarebbe stata facile preda della feroce flotta britannica.

La destinazione e il nemico erano ancora sconosciuti ai più, ma il mare si presentò immediatamente come l’avversario più insidioso: il moto ondoso provocò infatti epidemie di mal di mare, aggravate dalle condizioni di sovraffollamento e dal vitto scadente. Una profetica avvisaglia di quello che si rivelò il vero invincibile nemico dell’armata d’Oriente: la natura.

Il convoglio sostò brevemente a Malta per strappare questo importante approdo della flotta inglese, senza incontrare opposizione degna di questo nome: l’imbelle comportamento dei Cavalieri di S. Giovanni venne ricompensato da Napoleone con lo scioglimento dell’Ordine e con il sequestro del loro immenso tesoro.

La fortuna arrise ancora ai Francesi risparmiando loro l’incontro con la Royal Navy, ma non uno sbarco confuso e caotico, avvenuto il 1º luglio presso Alessandria d’Egitto, con gli ufficiali che si affannavano a radunare nei reparti gli uomini ancora sconvolti dalla nausea, per avviarli immediatamente verso il Cairo, ad attaccare di sorpresa gli avversari.


egitto


Una colonna seguì la costa per proseguire poi la marcia lungo il Nilo, un’altra, la principale, invece si incamminò per la via più breve attraverso il deserto. A quest’ultima spettò quindi il privilegio delle prime ferite inferte dalla natura ostile dell’Egitto, dal suo clima incandescente, dalle sue sabbie taglienti, dalla sua luce accecante (e non in senso metaforico). Senza acqua sufficiente e con un vitto composto esclusivamente da gallette secche, non deve stupirci se alcuni soldati preferirono suicidarsi che marciare, mentre quelli che conservavano ancora una scintilla vitale cercarono di ribellarsi. L’incontro col nemico fu così visto come una liberazione, l’occasione per sfogare la rabbia accumulata.

L’Egitto era nominalmente una provincia dell’Impero Ottomano, ma aveva alle spalle una lunga serie di rivolte della casta dominante, i Mamelucchi, che detenevano il potere di fatto. Eredità del passato medioevale, i Mamelucchi erano un’élite di schiavi-soldati, provenienti da ogni regione dell’impero. Cavalieri eccellenti ma militarmente antiquati, scoprirono da subito la terribile efficacia delle ordinate scariche di fucileria della fanteria europea: il 20 luglio alla battaglia delle Piramidi, che portò alla conquista del Cairo, caddero 100 Mamelucchi per ogni soldato francese, 29 morti contro 3.000, ai quali vanno aggiunte altre migliaia della milizia dei fellahin.



battaglia delle Piramidi

Napoleone ebbe pochi giorni per godersi questa vittoria. Una preoccupazione molto personale venne a turbarlo profondamente, fino a indurirgli il carattere. E pochi fatti privati hanno avuto influenza sulla storia come l’infedeltà di Joséphine de Beauharnais nei confronti del marito. Venuto a conoscenza il 25 luglio del tradimento della moglie, rimasta a Parigi, l’innamoratissimo generale cadde in una profonda depressione. Promise a se stesso che una volta tornato in Francia avrebbe divorziato e che da allora in poi sarebbe stato “completamente egoista”: il primo proposito non fu mantenuto, ma il secondo sì, con le conseguenze che conosciamo per la Francia e per l’Europa.

E dopo pochi giorni ancora, il 1º agosto, l’ammiraglio Horatio Nelson attaccò la flotta francese riparata in una forte posizione difensiva nella baia di Abukir, distruggendola completamente e conquistando al suo paese un’incontrastabile superiorità navale anche nel Mediterraneo. Era la sconfitta che condannava il destino di tutta la campagna d’Oriente e che gettava persino un’ombra sul futuro dell’epopea napoleonica (la superiorità navale inglese nel Mediterraneo conquistata nella giornata di Abukir fu determinante nella battaglia di Trafalgar), ma il generale reagì mostrandosi ancora una volta un eccezionale propagandista, convincente non solo nel minimizzare la portata dell’evento, ma soprattutto carismatico nel mobilitare le energie dei suoi uomini sugli obiettivi futuri.

Nei mesi seguenti, infatti, i Francesi divisero il loro impegno tra azioni militari contro i Mamelucchi e gli Ottomani, una volta tanto riconciliati, e le attività civili, per consolidare una base di consenso popolare alla sua conquista. Le prime lo portarono fino in Siria e si conclusero in classiche vittorie di Pirro, umanamente costose quanto inefficaci. Le seconde non ebbero il successo immediato di cu il generale aveva bisogno.

Per l’Oriente musulmano l’invasione francese dell’Egitto comportò un brusco risveglio dal Medioevo. L’orgogliosa cavalleria mamelucca conobbe per la prima volta il fuoco ordinato dei Moschettieri europei, pagando un terribile tributo di sangue. Come ho precedentemente raccontato, i Francesi, spesso inferiori numericamente, affrontavano le loro cariche stringendosi in ordinate formazioni a quadrato, solide come scogli contro le loro ondate coraggiose ma praticamente inoffensive.

Ogni volta che Napoleone e i suoi generali riuscirono a costringere gli avversari alla battaglia, il risultato era scontato, indipendentemente da quanto quelli fossero numerosi. I Mamelucchi ebbero maggiore successo quando ricorsero a tecniche di guerriglia: i loro superbi cavalli li rendevano inafferrabili e il deserto era un santuario inviolabile.

L’ingegno francese, però, trovò una contromisura, che uomini di eccezionali capacità militari come Desaix -- l'uomo che salverà Napoleone a Marengo -- sfruttarono molto abilmente: colonne mobili montate su dromedari. L’animale era infatti capace di lunghi inseguimenti, impossibili con altri mezzi: gli uomini che componevano queste colonne mobili, comunque, provenivano soprattutto dai reggimenti di fanteria e quindi combattevano smontando dall’animale e usandolo come una barricata. La nuova unità non venne dotata di speciali uniformi ma adottò ben presto i più pratici indumenti dei locali, fino a diventare praticamente indistinguibile da essi. Divenne una moda della cavalleria leggera francese adottare la ricurva e affilatissima scimitarra mamelucca che richiedeva però una scherma con colpi circolari molto difficile da praticare.

Per la sua operazione "cuori e menti" ante litteram, Napoleone aveva considerato i risvolti culturali e religiosi del conflitto, intimando ai propri uomini con reiterate raccomandazioni il rispetto della religione musulmana e degli usi locali.

La Francia non intendeva solo occupare l’Egitto ma sentiva anche la necessità di esportare tra i miseri contadini egiziani, i Fellahin, i propri ideali rivoluzionari di libertà e progresso.

La presenza nella spedizione di 167 “Savant”, scienziati e uomini di cultura abilmente coordinati dal matematico Gaspard Monge, era un omaggio alla cultura illuminista, una mossa propagandistica e un “Think Tank” a disposizione di Napoleone. Poco amati e ancor meno aiutati dai militari, non ottennero i risultati sperati: deludenti nel conquistarsi le simpatie della popolazione locale, perché le comunicazioni in arabo furono talmente carenti da sollevare ilarità e irritazione nel popolo, ebbero più successo nel diffondere la conoscenza di alcune conquiste della cultura occidentale attraverso la fondazione dell’Istituto d’Egitto.

Fu per suo impulso che ad esempio venne introdotta in Egitto la stampa moderna, con un enorme impatto sulla cultura del paese e di tutto il mondo arabo. Anche per l’Occidente, però, la presenza dei Savant si rivelò feritlissima: con il ritrovamento di reperti di capitale importanza come la Stele di Rosetta, che rese possibile l’interpretazione della scrittura geroglifica, rinvenuta dall’ufficiale del Genio Pierre Bouchard, l’Europa “scoprì” l’Egitto e ne rimase affascinata: dedicò al paese la scienza dell’Egittologia, con il suo primo testo “Description de l’Egypte”, e aprì alla sua influenza la propria arte e la propria cultura.

I “Savant” fecero del loro meglio per conoscere quelle regioni ed ottennero risultati rimarchevoli, ma nonostante questi sforzi la popolazione musulmana locale fu sempre ostile all’occupazione francese. Una rivolta scoppiata al Cairo nell’ottobre del 1798 e divampata velocemente nel resto del paese venne repressa con tale durezza da sconsigliare qualsiasi tentativo di riprovarci.

Normalizzata la situazione, Napoleone trovò il tempo e la voglia di consolarsi del tradimento della moglie. Nonostante un espresso divieto, alcuni ufficiali francesi erano riusciti a imbarcare le proprie spose o amanti. Tra questi l’ufficiale dei dragoni Jean-Noel Foures, che aveva condotto con se la moglie Pauline Bellisle, in una specie di prosecuzione della luna di miele, travestita in uniforme da cacciatore.

Brillante, minuta e con uno splendido sorriso, la giovane era la più ammirata alle riunioni mondane, provocando le ire del marito, giudicato troppo violento e irascibile anche secondo i larghi parametri dell’Esercito francese. Napoleone si invaghì di Pauline a prima vista e la corteggiò con discrezione, subito corrisposto con altrettanta prudenza: all’uno e all’altra era evidente che nulla tra loro poteva cominciare finché in Egitto fosse stato presente il manesco dragone. Il 17 dicembre 1798 l’ufficiale fu convocato per una missione che comportava l’immediata partenza per Parigi e quella sera stessa, a un ricevimento, Pauline divenne quella che la truppa soprannominò la Cleopatra di Napoleone e la Generalessa.

La marina inglese riservava però agli amanti una spiacevole sorpresa: catturato il dragone, lo aveva rispedito al mittente, vista la sospetta inutilità dei dispacci di cui era latore. Cercò la moglie, lei gli annunciò di averlo abbandonato, lui la schiaffeggiò, divorziarono: lei tornò al fianco di Napoleone, sempre accolta dalle ovazioni dei soldati tra i quali era popolarissima.

L’uomo aveva riacquistato la sua serenità, ma il successo della spedizione non sarebbe dipeso da questo. Napoleone poteva affrontare qualsiasi atto ostile umano, ma nulla poteva contro l’ultima e più devastante piaga d’Egitto: la peste bubbonica. Le fila francesi, già duramente provate dai combattimenti, dal clima e da altre malattie endemiche in quelle terre, furono ulteriormente falcidiate dalla terribile pestilenza.

Dopo un anno di occupazione, Napoleone era ormai convinto che la sua impresa fosse destinata al fallimento. Un anno catastrofico anche in Europa per le armate francesi, che sotto il contrattacco delle forze riunite degli eserciti della Seconda coalizione avevano perso praticamente tutti le conquiste precedenti. Per il generale ora il problema si riduceva a come tornare in patria da vincitore senza esserlo. Approfittando che l’inevitabile sconfitta della spedizione fosse ancora lontana, con eccezionale tempismo consegnò il comando dell’Egitto al generale Klebér e si imbarcò per la Francia abbandonando al loro destino i suoi soldati e anche Pauline. La donna rivelò però un sorprendente carattere e negli anni a seguire condusse una lunga vita avventurosa. Morì a Parigi nel 1869, forse ultima sopravvissuta tra i partecipanti della spedizione.

In patria per Napoleone si apriva una nuova fase politica. Qui egli aveva fatto giungere solo i proclami delle sue vittorie, per altro numerose, e nulla che lasciasse trapelare l’imminente tragedia. Il suo ritorno fu quindi venduto come il provvidenziale atto di responsabilità dell’unico uomo capace di proteggere la Francia. Il povero Klebér non solo fu assassinato per mano di un sicario, ma divenne un comodo capro espiatorio per un insuccesso costato la vita a 30.000 francesi. I piani del Direttorio per liberarsi di Napoleone erano miseramente falliti di fronte alle sue qualità di propagandista di se stesso e per il piccolo Corso la strada verso il potere era ormai in discesa.