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L'ULTIMO ATTACCO OTTOMANO ALLA CAPITALE AUSTRIACA

Vienna 1683

nicola zotti

La vittoria degli eserciti riuniti attorno agli Asburgo e guidati da Raimondo Montecuccoli sull’esercito ottomano nella battaglia di San Gottardo sul fiume Raab nel 1664, aveva portato a concludere tra i due imperi un trattato che prevedeva venti anni di pace, ma non aveva in alcun modo modificato i piani strategici ottomani che puntavano su Vienna dal 1529, anno del primo tentativo, fallito, di conquista della città da parte di Solimano I il Magnifico. I venti anni di tregua armata ai confini occidentali vennero infatti impiegati per concentrarsi su quelli orientali, dove perdurava un annoso conflitto con i Persiani. E nel 1682, ottenuta la pacificazione della regione, senza attendere la scadenza del trattato, incominciarono i preparativi per un nuovo attacco a Vienna.

Una causa immediata per rilanciare il conflitto non mancava: a fare da cuscinetto tra Asburgo e Ottomani si stendeva l’Ungheria, una parte della quale, l’Ungheria reale, era controllata dall’Austria, mentre una seconda metà era nella sfera di influenza ottomana. I protestanti di Ungheria e altre componenti antiasburgiche si erano coalizzate e, anche con un sostanzioso aiuto ottomano, avevano da poco conquistato una precaria indipendenza, incessantemente minacciata dall’Austria.

Il sultano Mehemet IV ordinò la mobilitazione delle armate ottomane nel gennaio 1682 ma al giungere dell’Estate non era ancora conclusa. Quando il 6 agosto dichiarò guerra, la stagione era ormai troppo avanzata e l’invasione venne rimandata alla Primavera del 1683. Non vi sono valutazioni precise sull’entità complessiva raggiunta delle forze ottomane, ma le stime variano da 100 a 300 mila uomini, tenuti insieme dallo straordinario apparato logistico creato dall’amministrazione del sultano.

Questo ritardo si rivelò un prezioso regalo per l’imperatore Leopoldo I, che ebbe il tempo per guadagnare alleati alla sua causa, sostenuto dall’attiva assistenza del papa Innocenzo XI e in particolare del suo principale e abilissimo inviato, il cappuccino Marco d’Aviano. Questi visitò le corti europee per formare una nuova Lega santa cristiana, ricevendo un pesante rifiuto da Luigi XIV, che da un indebolimento degli Asburgo aveva tutto da guadagnare, ma anche molti consensi. Il successo più importante fu riuscire a convincere il re di Polonia Jan III Sobieski: un’impresa di enorme significato perché schierava a fianco di Leopoldo I, nonostante i conflitti e le antipatie personali tra i due sovrani, una delle maggiori potenze militari dell’epoca.

Il re polacco Jan III Sobieski, non fu solo un uomo di grande coraggio personale e un ottimo comandante militare, ma deve essere ricordato anche come un leader politico lungimirante e capace di una qualità assolutamente rara in ogni epoca: quella di rinunciare a benefici immediati per perseguire un interesse più ampio.

La partecipazione della Polonia alla guerra non rispondeva, infatti, ad alcun suo interesse diretto, perché molto più pericolose per Varsavia erano le minacce russa e svedese, e tutto quello che ottenne fu la promessa da parte degli Asburgo di un aiuto in caso di eventuale attacco turco.

Al contrario, Sobieski lesse la situazione nei suoi possibili risvolti futuri. Certamente la Polonia avrebbe visto allungarsi pericolosamente il confine che già la divideva dal nemico “infedele”, ma più pericolosamente ancora la conquista di Vienna avrebbe conficcato un cuneo nel cuore dell’Europa, spezzandola di fatto in due. A nord la Germania, ancora esausta dopo la guerra dei Trent’anni avrebbe rappresentato un facile territorio di caccia, se non di conquista, e a sud l’Italia, e con lei il papa della chiesa cattolica, sarebbe stata quasi isolata e forse ancor più vulnerabile agli attacchi provenienti dai passi alpini ormai in mano agli ottomani.

Il 1 aprile 1683 l’esercito ottomano finalmente iniziò la sua lenta marcia verso Vienna. Sarebbe stato preceduto da un’avanguardia di 40.000 cavalieri tartari con il compito di tenere sotto controllo le mosse dell’esercito asburgico e terrorizzare la popolazione locale: incarico che essi svolsero con particolare diligenza essendo per di più la loro paga esclusivamente legata ai saccheggi.

L’esercito asburgico, guidato dal duca Karl von Lothringen, poco potè per contenere una forza che solo nell’avanguardia era già il doppio delle sue e a fu presto deciso di ritirarsi tra le mura di Vienna: nei combattimenti, alla testa dei dragoni di Savoia, era stato ferito a morte Luigi Giulio di Savoia Carignano e il comando del reggimento fu affidato al fratello Eugenio, destinato di lì a qualche anno a diventare uno dei più celebrati comandanti militari della storia.

Nella città la difesa sarebbe stata affidata al conte Ernst von Starhemberg, validamente assistito dal borgomastro Liebenberg: 11.000 soldati e 5.000 cittadini con 300 cannoni avrebbero dovuto resistere ad ogni costo, per dare il tempo soccorsi di arrivare. Si trattava di un mosaico di forze che comprendeva oltre alla cavalleria asburgica rimasta fuori dalla città con von Lothringen, e al già citato esercito polacco, i maggiori stati tedeschi e persino il granducato di Toscana, oltre a numerosi volontari.

Il 14 luglio gli ottomani furono in vista della città, o meglio di quanto rimaneva di essa, perché il giorno prima i viennesi avevano dato fuoco agli edifici esterni alla cinta muraria, per consentire un più ampio campo di fuoco alle loro artiglierie. Il sultano si era fermato a Belgrado con tutto il suo enorme bagaglio – 200 carri solo per l’harem – e il comando assoluto era ora nelle mani del gran visir Kara Mustafa. Le difese della città, per quanto incomplete, erano comunque moderne e ispirate alle nuove regole dettate per primi dagli architetti militari italiani, secondo i principi della traccia bastionata, studiata, con la caratteristica forma a punta di freccia, per favorire il tiro delle proprie artiglierie e contemporaneamente rendere inoffensivo quello avversario.

L’artiglieria al seguito dell’esercito ottomano era per di più di tipo medio o leggero e poco potere distruttivo avrebbe potuto dimostrare contro gli spessi bastioni di Vienna, per cui a Kara Mustafa fu subito chiaro che il compito che attendeva lui e il suo esercito sarebbe stato lungo e sanguinoso, e che il ruolo principale sarebbe stato giocato dai genieri.


L’esercito ottomano aveva una lunga esperienza in fatto di assedi. Individuato il tratto più vulnerabile delle difese viennesi, davanti ad esso fu collocato il campo dei giannizzeri e di altre forze scelte e furono immediatamente iniziate le opere di avvicinamento: una serie di trincee a zig zag, chiamate parallele, che avrebbero permesso un assalto protetto alla città. In appena due settimane i turchi avevano raggiunto il fossato esterno, ma già da alcuni giorni avevano portato a compimento le gallerie mediante le quali avrebbero tratto il maggior beneficio dalla loro polvere da sparo: le mine sotterranee con le quali far letteralmente saltare in aria le difese viennesi. La prima esplose il 23 luglio e altre seguirono giorno dopo giorno.

In agosto il combattimento assunse un ritmo spietatamente metodico: la mattina i cannoni turchi bombardavano, il pomeriggio o la sera venivano fatte esplodere le mine e di notte partivano gli assalti. Una forma di guerra molto simile a quella delle Stosstruppen tedesche nella fase finale della Prima guerra mondiale: spedizioni di poche decine o al massimo un centinaio di uomini, effettuavano ripetuti raid attraverso le brecce aperte, per logorare i difensori e abbatterne il morale.

A Vienna i difensori si erano organizzati in modo molto efficiente. A fianco dei militari operavano compagnie di cittadini organizzati per corporazioni, una delle quali era composta di studenti, e non mancava il contributo delle donne, che si distinsero nella costruzione di trincee. Il prolungarsi dei combattimenti aveva tuttavia duramente provato i difensori: i loro ranghi si erano assottigliati e la dissenteria ne aveva ulteriormente logorato le forze. Dopo una prima fase in cui vennero tentate delle sortite, anche per loro i combattimenti incominciarono a seguire uno schema ripetitivo: le brecce venivano chiuse con barricate di fortuna e qui si attendeva l’attacco turco, che pur venendo sempre respinto lasciava a difendere la posizione sempre qualche uomo in meno.

I primi risultati della metodica tattica di assedio di Kara Mustafa si ebbero a inizio settembre quando mine più forti delle altre riuscirono a distruggere ampie porzioni di bastioni, tra le cui rovine i turchi riuscirono ad insediarsi stabilmente

Con un piede già quasi in città la vittoria sembrava a portata di mano, ma anche nel campo turco si pagava il prezzo di un assedio tanto cruento. La prudenza di Kara Mustafa non era condivisa, tanto più che essa nascondeva una grande avventatezza: per accelerare l’avanzamento delle opere d’assedio, tutta la forza lavoro era stata impiegata a questo scopo e l’enorme campo turco non era stato accuratamente trincerato, lasciandolo praticamente indifeso.

Il 7 settembre gli eserciti della Lega santa erano ormai radunati a pochi chilometri da Vienna e pronti ad intervenire: Jan III Sobieski aveva fatto compiere ai suoi uomini una straordinaria marcia con punte di 70 km al giorno, comprendo in 12 giorni i 320 km che lo separavano da Vienna.

Lo schermo dei tartari non aveva funzionato a dovere e la maggior parte di essi aveva abbandonato la guerra per dissidi con Kara Mustafa.

L’11 settembre solo i boschi a nord di Vienna separavano i due eserciti ed esperti cacciatori austriaci aiutarono le colonne della Lega santa ad attraversarli in buon ordine.


Il giorno successivo, al primo apparire dei nemici, Kara Mustafa radunò alcune migliaia di uomini immediatamente disponibili e ordinò un attacco improvvisato nella speranza di bloccarli sul posto. La battaglia così incominciò prima che i due eserciti fossero completamente schierati, sul fianco più vicino al Danubio.

Qui le armate tedesche iniziarono a respingere lentamente i turchi, nonostante la loro disperata resistenza. Fu solo verso le 4 del pomeriggio che finalmente l’esercito polacco emerse dal bosco. Kara Pasha era ormai riuscito ad ammassare in una linea continua di quasi 6 km tutte le sue forze, mentre solo i giannizzeri proseguivano un disperato assalto alla città.

Jan Sobieski guidò personalmente l’assalto dei suoi 3.000 ussari alati e di altri 20.000 cavalieri in quella che può essere ricordata come la più grande carica di cavalleria della storia. L’impatto di una simile massa ebbe un effetto devastante sui turchi che provarono a riorganizzarsi e a contrattaccare, ma senza la necessaria efficacia. Sul fianco destro dello schieramento turco, la fanteria tedesca aveva nel frattempo logorato i turchi e la carica di uno squadrone di ussari alati polacchi aveva finalmente aperto una breccia, minacciando l’aggiramento da quell’ala di tutto lo schieramento ottomano.

Per i turchi fu il segnale che ormai ogni resistenza era inutile e l’armata si diede alla fuga generale. Kara Mustafa provò a fermare i suoi uomini cercando più volte la morte alla testa della sua guardia del corpo in disperati contrattacchi: per i visir sconfitti c’era un unico destino, lo strangolamento con una corda di seta, e lui non riuscì a sottrarvisi.

Alle 18 la battaglia era finita e Vienna era salva: mai più i turchi sarebbero arrivati alle sue porte.