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IL FUTURO DELLE GUERRE CONTROINSURREZIONALI

Tutti giù per terra

Nicola Zotti

Nel nostro recente passato di italiani ci sono due insurrezioni avvenute nel nostro territorio, una vinta come forze controinsurrezionali e una vinta come insorti. Per non parlare, poi, del carattere intimamente insurrezionale del nostro Risorgimento e delle insurrezioni con le quali abbiamo fatto i conti fuori dai confini nazionali. E non cito Giulio Cesare del quale invece ho parlato non una ma ben due volte! Insomma siamo degli esperti, anche se ce ne dimentichiamo.

Non ho ancora letto (ignoranza mia, sicuramente) analisi militari con questa traccia in testa e non intendo farne una io qui adesso, tuttavia l'insurrezione del Mezzogiorno postunitario e la Resistenza sarebbero dei case study molto interessanti per chi volesse trarne qualche lezione utile per le guerre dei giorni nostri.

Di fatto le guerre contemporanee si configurano sempre più come confronti tra eserciti "regolari" nazionali o sovranazionali, da una parte, e dall'altra forze di insorti, tendenzialmente inclini ad intrecciarsi in misura varia con interessi di proteiforme natura, grande e piccola criminalità, reti terroristiche, traffici economici illeciti.

Decenni di guerre contro guerriglieri hanno trasformato eserciti nati nella e per la Guerra Fredda in espertissime e rodate macchine da conflitto controinsurrezionale. Eppure, vista qualche "perplessità" sui risultati ottenuti sui più diversi teatri, è innegabile che qualche difetto di fondo debba pur esserci, e riesce a vanificare qualsiasi successo, trasformandolo in episodio senza rilevanza.

Facendomi carico della nostra genetica italica esperienza di insurrezioni e controinsurrezioni, vorrei permettermi di indicarne un paio.

Innanzitutto, ovviamente, la strutturale fiducia nell'individuabilità e nella riconoscibilità reciproca tra avversari, nella specularità delle posizioni: noi di qua, voi di là, entrambi in uniforme, seppure diverse.

In secondo luogo, la convinzione che i materiali di cui è dotato un esercito costituiscano una parte integrante della soluzione della guerra: più materiali e mezzi, più possibilità di vittoria.

Il primo difetto conduce al pensiero latente di uno scontro che debba risolversi in campo aperto tra grandi masse di uomini in uniforme e condiziona la dislocazione delle forze, che vengono ammassate per essere più sicure, sempre a disposizione in grandi numeri ad ordini superiori e facilmente rifornibili, perché fisicamente sedute sui propri depositi.

Di fatto questo è inevitabilmente connesso alla seconda questione sollevata, quella della guerra di materiali e mezzi: all'arroccamento delle nostre truppe nelle loro basi, corrispondono da un lato le necessità logistiche imposte da armate enormemente dipendenti da essi -- carburanti, pezzi di ricambio, hangar, ecc. --, e dall'altro la caratteristica che le nostre unità si spostano solo ed esclusivamente a bordo di veicoli, come trasportando con sé e attorno a sé un pezzo della base dalla quale provengono.

Ogni strategia militare di controinsurrezione, così, si trasforma innanzitutto in una colossale impresa logistica, in cui ogni stuzzicadenti proviene dalle fabbriche di casa e solo da quelle, con i connessi costi, e ogni operazione militare nell'incubo di un'imboscata. Controllo del territorio, familiarizzazione con la popolazione, operazioni di intelligence diventano obiettivi inevitabilmente secondari, subordinati ai vincoli oggettivi imposti strutturalmente da un elefantiaco apparato logistico.

Tra il 1861 e il 1865 gli effettivi del Regno d'Italia superarono i 100.000 soldati, ovvero circa1 ogni 100 abitanti e ogni chilometro quadrato di territorio dell'ex regno delle due Sicilie. Attualmente in Afghanistan sono schierati 112.750 soldati occidentali ovvero 1 uomo ogni 300 abitanti o 1 ogni 6 km2. Anche sommando i 100.000 uomini delle forze di sicurezza attribuibili al governo afghano, si arriva a circa 1 uomo ogni 150 abitanti, ben lontano dal rapporto 1 a 50 che la dottrina dei Marines considera necessario per affrontare una guerra controinsurrezionale, che richiederebbe forze superiori addirittura ai 600.000 uomini.

E quindi? Cinque suggerimenti:

  1. aumentare gli effettivi di fanteria nelle proporzioni consentite dai bilanci dei paesi interessati a partecipare alla coalizione, ma arrivando almeno a raddoppiare gli attuali effettivi occidentali, eventualmente con la graduale ridislocazione di truppe americane attualmente in Iraq, e distribuendoli laddove è la popolazione civile;
  2. investire intensamente sulla loro preparazione culturale per il teatro di guerra che devono affrontare, insegnando lingua, usi, costumi, affinché possano legarsi alla popolazione locale, tanto quanto le tecniche di controguerriglia;
  3. ridurre drasticamente la dipendenza logistica entro i limiti consentiti dall'economia locale, alla quale si dovrà fare riferimento per quanto è possibile;
  4. rimandare a casa il più possibile dei mezzi che ingigantiscono le esigenze logistiche sostituendoli eventualmente con mezzi meno onerosi;
  5. portare la legge e l'ordine: e non un ordine e una legge qualsiasi, perché al di là della comprensione per usi e tradizioni locali, sarebbe pericolosamente controproducente per le nostre truppe tollerare comportamenti incoerenti con i diritti umani: sfruttamento dei minori, soprusi alle donne, ecc.

Tutti giù per terra, quindi, a fare il lavoro della fanteria vivendo e combattendo tra e per la popolazione civile.

Capisco che si tratti di un cambio di rotta decisamente radicale rispetto alle linee di condotta del passato, che è una prospettiva piena di altri rischi e che certo non è una soluzione a breve termine, tuttavia credo non rimanga altro da provare.