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LA POLITICA ESTERA ITALIANA DOPO L'ELEZIONE DI BARACK OBAMA

Una svolta nelle relazioni con gli USA?

nicola zotti

Bisogna dare atto al presidente del consiglio Silvio Berlusconi di aver precorso il cambiamento in atto nei rapporti tra Europa e USA, e di essere anzi diventato da qualche tempo il portabandiera di un'inedita strategia di politica internazionale intenzionata a costruire nuovi equilibri tra Europa, Usa e Russia.

Dopo la crisi estiva georgiana, che ha visto l'Italia in prima fila nell'appoggiare la linea panslava dell'amministrazione russa, in aperto contrasto con la politica dell'amministrazione Bush, sono succedute altre dichiarazioni pubbliche del nostro presidente del consiglio: rinnovate stigmatizzazioni all'avventurismo americano dell'"amico Bush", l'elencazione delle "provocazioni" subite dalla Russia -- proprio quando la Marina di quest'ultima effettuava manovre congiunte con quella venezuelana --, l'allarme per una nuova escalation verso un'improbabile guerra fredda, e infine la tanto discussa frase pronunciata durante la conferenza stampa conclusiva dell'incontro bilaterale italo-russo del 6 novembre 2008: “ho detto a Medvedev che Obama ha tutto per andare d’accordo con lui: è giovane, bello e anche abbronzato".

In quest'ultimo caso, come al solito, i commentatori del nostro paese si sono baloccati tra la giustificazione incondizionata delle parole del nostro premier e le accuse di razzismo latente riferite a quell'"abbronzato", che richiamava il colore della pelle del futuro presidente americano.

Il punto è stato completamente perso per strada tra polemiche insulse, mentre invece riflettere sulla frase in questione, che si riferiva ai colloqui intercorsi tra i due leader, avrebbe permesso di approfondirne i contenuti.

Paradossalmente, già una semplice lettura letterale ci lascia intuire come Berlusconi e Medvedev abbiano convenuto che si può trovare un accordo più agevolmente con un presidente americano giovane, bello e abbronzato (come Obama), piuttosto che con uno anziano, brutto e decisamente pallido (come Mc Cain).

Quest'ultimo aveva in più occasioni fatto intuire che avrebbe tenuto un atteggiamento molto duro nei confronti delle rinnovate ambizioni russe e, probabilmente, avrebbe decisamente censurato anche i comportamenti a dir poco ambigui di alleati come l'Italia: in netta polemica con le distrazioni dell'amministrazione uscente, che negli ultimi tempi aveva praticamente cessato di governare le questioni più controverse, dimostrando una particolare indulgenza verso le gatte che sarebbe toccato pelare ad altri in anni successivi.

In secondo luogo, la frase del nostro premier ci rivela anche un ulteriore fondamentale argomento di discussione con il presidente russo: nessuno dei due ha potuto dire di Obama altro che è "giovane, bello e abbronzato", ovvero devono aver ammesso in camera caritatis di essere stati presi alla sprovvista prima dalla candidatura democratica alle primarie e quindi dall'irresistibile ascesa di Barack Obama alla Casa Bianca.

Il dinamismo della società americana, la sua capacità di promuovere a sorpresa leadership distanti dagli apparati di partito -- che John Mc Cain era persino più lontano dall'establishment repubblicano di quanto Obama fosse da quello democratico -- e forse anche dalle stanze degli altri poteri, è difficilmente comprensibile per la cultura e la storia personale del presidente Berlusconi e a maggior ragione per quelle degli oligarchi ex-sovietici che governano la Russia.

Di più: un rinnovamento così radicale genera negli interlocutori imbarazzi e ostacoli oggettivi, pause di riflessione, attese estenuanti e ancor più faticose analisi per scoprire le reali intenzioni della nuova amministrazione in tutti i suoi innumerevoli rappresentanti ai vari livelli: una novità che la giovinezza, il carisma e la pelle nera di Barack Obama mostrano graficamente a un mondo molto meno incline a questo genere di esperimenti.

E questo al di là di qualsiasi opinione si abbia sull'effettiva discontinuità tra il presidente Obama e i suoi predecessori, sulla sua reale "novità", e sulla sua qualità di leader "di arrosto" e non solo di "fumo": tanto per i suoi ammiratori più acritici, quanto per i più ferocemente scettici come il quaedista al Zawahiri, che ha definito Obama "il servo negro" dei poteri forti amercani, senza tuttavia spendersi in un'analisi, che pure avrebbe avuto a portata di mano, del perché mai quegli stessi "poteri forti", dopo una presidenza "dinastica" alla Bush avrebbero dovuto puntare tutto su un americano di prima generazione nero, quando avrebbero avuto a disposizione opzioni con meno incognite e rischi.

Due certezze, perché certezze inevitabili, costituiscono il punto fermo dei rapporti con gli Stati Uniti nel prossimo futuro: la crisi economica e la lotta al terrorismo, che rappresentano le priorità di Barack Obama, come lo sarebbero state per qualunque altro inquilino della Casa Bianca. Ma se la prima porterà Obama a privilegiare gli interessi (i posti di lavoro, i redditi e i capitali) dei suoi elettori e concittadini, se sarà il caso a discapito di quelli degli elettori e dei concittadini altrui, non altrettanto potrà fare per la lotta al terrorismo, che gli Stati Uniti non possono combattere da soli né tanto meno contro tutti.

Con che intenzioni l'Europa si accinge a sedere a questi due tavoli? L'Italia, non so dire con quanta avvedutezza, ha già manifestato le proprie, scommettendo innanzitutto sul fatto, molto probabile, che il neopresidente USA considererà l'Italia quanto il due di picche, e sulla circostanza, più discutibile, che l'America dei prossimi quattro (otto?) anni sarà meno attenta alle esigenze del nostro paese di quanto potranno essere gli oligarchi russi, che ci si augura almeno nel nostro caso siano disponibili a concessioni e rinuncino all'inveterata ricerca di un rublo in più di guadagno, saziandosi di qualche appoggio verbale -- che di più non possiamo dare -- a nuovi sogni imperiali.

Sul tavolo del terrorismo il nostro governo non può più offrire molto alle strategie americane, ma al contrario saremo costretti a ridurre drasticamente i nostri impegni militari, nella misura in cui abbiamo tagliato i budget della difesa: come mostra l'emblematico caso del recente trattato Italia-Libia stiamo cercando strade alternative rispetto alle modalità tradizionali dell'alleanza atlantica anche per affrontare questa sfida.

Quanto ragionate e sagge, o addirittura intenzionali, e non piuttosto figlie di improvvisazioni levantine, siano queste nostre scelte e che motivazioni primarie abbiano non sono in grado di dirlo; che conseguenze porteranno per il nostro paese preferisco non pensarlo; ma che si tratti di una vera svolta nelle nostre relazioni internazionali e nelle nostre alleanze mi pare nelle cose.