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UN PROBLEMA (QUASI) SENZA SOLUZIONE

Il dilemma della guerra di trincea


nicola zotti




Tra tutti i luoghi comuni che potevo provare a mettere in discussione, uno sul quale prima o poi dovevo provare a cimentarmi, era quello che riguarda a qualità delle leadership militari della Grande Guerra.

L'opinione generale sugli alti comandi degli eserciti che si affrontarono tra il 1914 e il 1918 penso non potrebbe essere peggiore di quello che è. "Macellai" il termine più usato per descriverli, assieme al giudizio che i Tedeschi espressero sull'esercito britannico ma che ben presto si diffuse a tutte le armate in lotta: "Leoni guidati da asini".

Ai miei lettori non voglio proporre radicali cambiamenti di prospettiva, perché non ho intenzione di convincervi che i generali della Grande Guerra fossero indistintamente dei geni dell'arte della guerra.

Cercherò invece di illustrare l'entità dei problemi tattici e strategici che i vertici militari dovettero affrontare, quanto meno per tarare su questi il peso specifico delle loro inadeguatezze e dei loro fallimenti.

Un primo problema di carattere politico culturale, ad esempio, non va sottovalutato, perché influenzava pesantemente ogni processo intellettuale dell'epoca.

Il Darwinismo sociale aveva influenzato e persino plasmato non solo i nazionalismi che dal XIX secolo erano sfociati nel XX, ma anche in senso più generale le culture politiche e le ideologie dell'Occidente.

La forza di un'idea trovava la sua sostanza nella volontà di sacrificarsi per essa di chi la incarnava. Non dovremmo avere difficoltà, oggi, a comprendere questa mentalità e le sue implicazioni: ci sono voci che rimproverano all'Occidente di averla abbandonata e, quindi, di essere alla mercé di chi al contrario la pratica fino alle sue più estreme conseguenze.

La vita umana dei singoli appartenenti alla comunità perde importanza di fronte al successo della comunità presa nella sua interezza. Più ancora, il valore assoluto stesso della comunità si giudica da questa sua irresolutezza, dal sangue che è disposta a versare per ottenere i propri scopi comuni.

Ogni singolo appartenente ad una comunità avrà comunque un valore che dipende dalla sua etnia, prima ancora che dalle sue qualità individuali, e anche il più piccolo e misero appartenente ad essa potrà rivendicarlo nel confronto con altre etnie e altre nazioni.

Dal punto di vista militare questo si traduceva nell'esaltazione intellettuale, prima ancora che materiale, della saldezza morale di un popolo calcolata in base al numero dei morti e di privazioni che era disposta a sopportare prima di arrendersi.

Data questa misura della forza di una nazione, questo clima e queste radici culturali, è quindi inevitabile che la prima soluzione per rispondere ad un problema tattico fosse il sangue di un numero maggiore di uomini di quanti lo avessero versato nei fallimenti precedenti. Sangue speso in attacchi brutali e rozzi, dove un metro di terreno conquistato a baionettate al costo di innumerevoli vite poteva essere venduto alla propria nazione come una gloriosa vittoria.

Tutto previsto da uomini come Jan Gotlib Bloch, ma anche in qualche modo considerato ineluttabile, vista l'immanenza del grande conflitto che attendeva l'Europa.

Con la Prima battaglia della Marna (5-12 settembre 1914) sul Fronte Occindetale, tra Fiandre e Francia, si era conclusa quella che noi oggi chiamiamo la "Fase di movimento" della Grande Guerra. L'unica risposta che i militari erano riusciti a concepire per evitare il cristallizzarsi del conflitto in una guerra di posizione – ovvero sopraffare il nemico prima che potesse attestarsi su posizione trincerate – mediante il "Piano Schlieffen" e le sue successive modifiche. era fallita.

Durante le prime settimane delle operazioni era già parso evidente che bastava una minima pausa nella conduzione di un'operazione offensiva per consentire ai difensori di attestarsi in un trinceramento. Per quanto improvvisato e precario fosse (e ben lontano dalle elaborate opere degli anni successivi) esso era comunque sufficiente per garantire ai difensori di resistere a forze molto superiori, con una chiara economia di forze che potevano essere impiegate altrove.

Considerata un'innovazione precipua della Grande guerra, la posizione campale aveva alle proprie spalle una lunga storia. Durante le fasi finali della Guerra civile americana, ad esempio, i Confederati erano ricorsi ad estesi tronceramenti per la difesa di Fredricksburg. In tempi più recenti, le Guerre balcaniche (1912-13) e la Guerra russo-giapponese (1904-05) avevano conosciuto un esteso uso di trinceramenti e fasi di guerra di posizione.Considerati anche gli studi analitici di uomini come il citato Jan Bloch, non si può dire, quindi, che per le armate europee che combattevano in Francia e nelle Fiandre le trincee costituissero una sorpresa. Fu piuttosto la dimensione del fenomeno a cogliere alla sprovvista i Militari e soprattutto la sua rapida evoluzione verso un sistema già molto sofisticato nell'Autunno 1914. Trincee che si dimostrarono capaci di resistere alla maggior parte dei tentativi di averne ragione nei successivi 4 anni.

Un irresolvibile stallo cui contribuirono diversi fattori correlati tra loro.

In primo luogo, la combinazione tra copertura e potere di fuoco creava agli attaccanti un problema tattico di difficile soluzione. Le fortificazioni campali fornivano protezione ai difensori durante la fase di fuoco preparatorio di artiglieria degli attaccanti.
Appena questo fuoco cessava per permettere l'assalto delle truppe, i difensori uscivano dai propri rifugi e riprendevano le proprie posizioni facendo fuoco sui nemici, ormai allo scoperto.

Anche se alcuni difensori erano stati messi fuori combattimento dal fuoco preparatorio, i moderni fucili con la loro cadenza di 20 colpi al minuto e a maggior ragione le mitragliatrici capaci di spararne 600, consentivano anche a pochi difensori di avere la meglio di forze largamente superiori.

Questo senza parlare delle artiglierie, la cui qualità e il cui numero aumentò vertiginosamente negli anni di guerra, e che anch'esse potevano bersagliare gli attaccanti nel momento in cui erano più vulnerabili: se si rimaneva in trincea si era discretamente protetti dal nemico, ma se la si abbandonava per attaccare, ci si esponeva ad un fuoco micidiale.

Anche dal punto di vista operazionale, la trincea presentava dilemmi di non facile soluzione.per l'attaccante. Come detto sopra erano sufficienti pochi uomini e poche armi automatiche per tenere una posizione. Gli enormi eserciti popolari degli stati nazione, invece, permettevano di ammassare un numero di uomini mai raggiunto prima: in media 16 e più uomini per metro lineare del sistema ininterrotto di trincee che dal Canale della Manica proseguiva fino alle Alpi svizzere.

Questa abbondanza di truppe consentiva di ammassare riserve alle spalle delle unità in prima linea in previsione di un suo eventuale sfondamento. I sistemi difensivi trincerati si fecero via via sempre più profondi e orientati ad assorbire lo sforzo nemico in previsione di un contrattacco. Le difese tedesche raggiunsero i 15 kilometri di profondità , ma quelle alleate non erano di molto inferiori.

Per avere ragione di un simile apparato difensivo, l'attaccante doveva ammassare nelle proprie retrovie grandi quantità di uomini e di materiali: un'operazione di tale impegno ed entità che non passava inosservata.

Il fattore sorpresa, già fatalmente compromesso, veniva ulteriormente minato dal fuoco preparatorio di artiglieria, che poteva durare settimane, facendo perdere qualsiasi dubbio su quale fosse il settore del fronte che il nemico era intenzionato ad aggredire.

Il fronte continuo impediva manovre di aggiramento alle quali si suppliva con uno studio maniacale del terreno e della disposizione delle forze nemiche come in una gigantesca partita a scacchi.

Il difensore, quindi, aveva tutto il tempo per prendere tutte le contromisure necessarie a parare il colpo.

Infine, da ultimo, le trincee creavano agli eserciti un problema logistico-strategico di dimensioni mai viste prima.

Una guerra che doveva durare poche settimane si stava avviando a bruciare risorse inimmaginabili prima del conflitto, e non preventivate persino dai "profeti di sventura".

Al di là delle capacità produttive delle industrie nazionali, c'era un problema logistico intrinseco alle modalità di gestione degli attacchi, avidi di proiettili di artiglieria, sempre insufficienti rispetto alle esigenze della guerra di posizione.

Nessun sistema di comunicazione, su ferro o su gomma, poteva soddisfare questa insaziabile fame di uomini e di armamenti, e la mancanza di munizioni invariabilmente fovoriva il difensore, che ne necessitava in quantità molto inferiore rispetto all'attaccante.

Già nelle prime settimane nel 1915 gli eserciti avevano consumato le loro riserve di munizioni, e si trovarono a combattere coi colpi contati, aggrappati alle proprie trincee.

Questo congiurare di fattori verso la cristallizzazione del conflitto in una guerra di trincea, almeno nei teatri dove il conflitto fu deciso, rappresentò un problema di terribile soluzione per le gerarchie militari.

Ricorsero all'adattamento e all'innovazione per superarlo, con fatica e ciascuno secondo le proprie caratteristiche nazionali: i Tedeschi, ad esempio, avvalendosi dei propri efficaci processi strutturati interni, trovarono una soluzione tutta militare elaborando la dottrina delle Stosstruppen. I Britannici, per portare un altro esempio, avendo processi di analisi dei problemi meno strutturati, elaborarono una soluzione "esterna": il carro armato.

Non è un caso che gli Alleati non riuscirono mai a raggiungere la stessa efficienza, qualità e quantità, dei Tedeschi nell'ambito delle forze speciali, mentre i Tedeschi non produssero mai un carro di comparabile efficienza rispetto a quelli britannici.

Ci vollero anni di esperimenti, di errori, di addestramenti specifici, di progetti, di investimenti industriali e di sforzi produttivi, ma alla fine la soluzione fu trovata, e, con essa, arrivò anche la conclusione del conflitto.