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UNA RIVOLUZIONE LUNGA DUE SECOLI?

La genesi della tattica lineare

nicola zotti




Una delle domande ricorrenti dei lettori di Warfare.it riguarda la tattica lineare: perché, mi si chiede, tra Settecento e Ottocento la fanteria combatteva in lunghe linee ordinate? Perché queste linee marciavano lentamente e sparavano ad una distanza assai ravvicinata rimanendo esposte al fuoco avversario?

Spiegare la tattica lineare comporta risalire ai principi stessi del tiro in combattimento. Caratteristica generale delle armi da tiro in battaglia è l'utilizzo a massa, che avviene semplicemente indirizzando il tiro verso l'area di terreno occupato dal nemico, affidandosi sugli effetti probabilistici del volume di fuoco per colpirlo. Il tiro mirato, nonostante sia ovviamente più efficiente, costituisce l'eccezione e non la regola, per motivi che variano da epoca ad epoca a seconda delle tecnologie disponibili.

L'efficacia del tiro a massa dipende dalle perdite causate per unità di tempo: più perdite si procurano e minore è il tempo in cui questo avviene, maggiore sarà l'effetto morale causato sull'avversario: in altre parole, più i singoli che compongono l'unità bersaglio avvertiranno il pericolo incombente e, quindi, sentiranno venire meno la propria volontà di resistere.

Con una formula matematica questo concetto può essere così sintetizzato:

EFFICACIA = PERDITE / TEMPO

L'efficacia di 100 perdite in un minuto è maggiore di quella data da una perdita ogni minuto per 100 minuti: anche se il numero di perdite è uguale, diversissima è l'intensità della loro efficacia.

A parità di tecnologia, una maggiore efficacia del tiro può risultare da due fattori: un maggiore numero di fanti che tirano nelle stesso momento, o da un tiro più celere, o. auspicabilmente, da entrambe le cose allo stesso tempo.

Tra Cinquecento e Seicento il problema viene compreso e affrontato nella convinzione che l'arma da fuoco sia la più efficace delle armi da tiro, nonostante il suo costo, la complessità della sua procedura di caricamento e tutti i suoi difetti e limiti.

Dal punto di vista tattico alcuni problemi, in particolare, influenzano il combattimento condotto mediante le armi da fuoco dell'epoca considerata:

  1. l'inutilità dell'archibugio in corpo a corpo;
  2. la vulnerabilità degli archibugieri contro le cariche di cavalleria;
  3. il rischio che il fuoco vivo delle micce degli archibugi provocasse esplosioni accidentali;
  4. la necessità di mantenere una cadenza di fuoco costante e di avere possibilmente sempre almeno un rango pronto a sparare;
  5. non si usava ancora il passo cadenzato e quindi non era possibile effettuare manovre tattiche complesse;
  6. il limiti tecnici dell'arma: distanza di tiro in battaglia di circa 50 metri per un tiro al minuto all'apice del suo impiego, per non parlare dei malfunzionamenti vari che potevano far fallire il 50% dei tiri.

I punti 1. e 2. venivano risolti come è noto combinando gli archibugieri con un contingente di picchieri, destinati a condurre in prima persona il combattimento corpo a corpo e ad affrontare la cavalleria, mentre gli archibugieri, in vario modo, trovavano riparo tra i loro ranghi.

Il punto 3. costringeva a schierare gli archibugieri in fila distanti almeno 60 centimetri l'una dall'altra e distanziando i ranghi circa 3 metri e mezzo (due volte la lunghezza dell'alabarda dei sergenti) e quindi produceva un fuoco piuttosto rarefatto. Cionostante se anche una sola bandoliera prendeva fuoco l'effetto si propagava rapidamente al resto dell'unità con effetti devastanti.

Il punto 4. e il punto 5. comportavano l'adozione di varie metodologie di caracollo, che tuttavia obbligavano ad avere formazioni molto profonde, di 10-12 uomini (ma fino a 25!) in ciascuna fila per gli archibugieri (arrivavano fino a 30 uomini per i picchieri). Fissata una cadenza di fuoco al minuto, la formazione sarebbe stata composta come minimo da quel numero di ranghi e gil uomini di ciascuna fila avrebbero sparato e quindi avrebbero sfruttato gli spazi tra i ranghi -- in un tipo di caracollo -- per tornare in coda e incominciare le operazioni di caricamento.

Tutti questi problemi rendevano difficile rinunciare a considerare l'archibugio più che un'arma di appoggio all'azione della massa dei picchieri: i Tercio spagnoli, che dominarono a lungo i campi di battaglia, erano delle grandi colonne d'assalto -- di forma e composizione diversa a seconda delle circostanze -- attorniate da "schermagliatori" con archibugio.

I primi passi verso la tattica lineare incominciano con Maurizio di Nassau, principe di Orange e soprattutto con Gustavo Adolfo re di Svezia: sono loro i primi sostenitori dell'ordine "sottile", progenitore della tattica lineare.

La scommessa era che unità molto profonde fossero in realtà un omaggio alla prudenza più che all'efficacia militare, perché il contributo al combattimento degli ultimi della fila era assai aleatorio e i ranghi vennero ridotti a 6, partendo dalla constatazione che solo i primi 5 picchieri partecipavano alla mischia, mentre il sesto fungeva da riserva, e anche a 3, quando la carenza di uomini obbligava a questo passo.

Un'uguale riduzione subirono i ranghi di achibugieri, ma con premesse e problematiche diverse. Si studiarono altre forme di tiro che consentissero un'alimentazione continua del fuoco lungo tutta la linea, senza la profondità richiesta dal caracollo: una soluzione fu il fuoco di plotone, nel quale i segmenti in cui era suddivisa la linea in lunghezza facevano fuoco in successione. Gli svedesi probabilmente inventarono anche la volata o salva, con le quali più ranghi sparano contemporaneamente: il citato requisito della persistenza del fuoco viene così subordinato all'efficacia sul morale avversario di una singola potente "salva", spingendosi oltre la soglia di rischio, non senza in alcuni casi amare conseguenze, Più prudentemente si provò anche il fuoco di ranghi, nel quale ciascun rango sparava in successione, con una minore efficacia istantanea, ma una maggiore persistenza di potenziale offensivo.

Formazioni meno profonde permettevano di schierare unità più lunghe con un numero maggiore di archibugieri sulla linea di fuoco e quindi realizzando una delle condizioni per l'aumento del volume di fuoco e della sua efficacia. Contemporaneamente si sperimentarono proporzioni sempre crescenti di archibugieri rispetto ai picchieri, i quali scesero fino ad un minimo del 15% circa dell'unità combinata nella seconda metà del XVII secolo: si era arrivati alla rottura di un consolidato equilibrio e le unità di fanteria non furono più in grado di esercitare una sufficiente resistenza contro la cavalleria, vista la scarsità dei picchieri, mentre contro altri archibugieri le battaglie si risolvevano in scambi a fuoco protratti fino a che una delle due parti cedeva.

La scelta a favore del tiro a questo punto era stata compiuta e gli eserciti sui campi di battaglia iniziano a non essere più schierati in solidi blocchi, ma in linee sempre più lunghe e sottili, in realtà formate da blocchi più piccoli e distanziati tra loro, o in gruppi coordinati, come nel caso delle brigate svedesi.

Probabilmente non furono gli svedesi ad adottare per primi le cariche a cartuccia (palla e polvere contenute in un unico cartoccio predisposto), la cui diffusione compare negli ultimi trent'anni del XVII secolo, anche se l'invenzione risale ad un secolo prima, e servì se non a contenere il problema dei fuochi accidentali, che continuarono, almeno a ridurre il tempo di caricamento e quindi aumentare il volume di fuoco. Anche l'uniformità del tiro divenne più costante, benché fossero gli stessi soldati, almeno in quest'epoca, a preparare, secondo una procedura e con strumenti idonei, le proprie cartucce personali.

La stessa attenzione verso distanze di fuoco maggiori portò ad alleggerire la palla che poté essere scagliata un po' più lontano (circa 100 metri di distanza utile) anche grazie e miglioramenti nella metallurgia e nella qualità della polvere nera che la propelleva.

Sempre nella seconda metà del Seicento venne riportato in auge, dopo anni di tendenza al gigantismo, un archibugio di dimensioni e peso ridotti, che non aveva più bisogno della forcella per essere sostenuto, e soprattutto era sufficientemente maneggevole da poter ssere usato anche a ranghi serrati. Verso la fine del secolo XVII l'introduzione del moschetto a pietra focaia, rimasto praticamente inalterato per i successivi centocinquant'anni, consolidò poi l'adozione dell'ordine sottile con una cadenza di fuoco di 2 e anche più colpi al minuto: richiedeva solo 26 manovre per essere caricato contro le 43-44 dell'archibugio e riduceva i malfunzionamenti al 33%, oltre ad essere un po' più leggero: vento e altri fattori atmosferici avrebbero influenzato il combattimento molto meno rispetto a quanto accadeva per l'archibugio, le campagne potevano diventare più impegnative e un numero maggiore di truppe poteva essere addestrato.

Ancora in questa epoca compare per la prima volta sui campi di battaglia un'arma nata per la caccia (come per altro il fucile a canna rigata), la baionetta: dapprima, verso l'inizio del Seicento, inastata a pressione direttamente nella canna e quindi, alla fine dello stesso secolo, fissata con una ghiera sulla canna, per non impedire il fuoco. La baionetta consentiva ai fanti una qualche forma di autodifesa contro la cavalleria e diveniva un'arma di offesa contro le altre fanterie. Nonostante la sua utilità, la baionetta conobbe una diffusione lenta e solo ad inizio del Settecento il suo uso divenne consolidato, tanto da portare all'estinzione delle picche.

Verso la metà del Settecento, poi, si comprende l'inutilità degli intervalli tra le fila e le righe di uomini, retaggio dei pericoli dell'archibugio, e le formazioni di fanteria si fanno sempre più serrate mentre gli spazi tra le unità diventano non solo inutili, ma anche deleteri: una lezione che venne in particolare dalle guerre contro i Turchi.

Sempre a metà del secolo diventa infine universalmente diffuso il passo cadenzato e i musici, che erano stati riportati sui campi di battaglia dagli Svizzeri proprio allo scopo di regolare il passo alle colonne di picche, vengono integrati nelle unità. Un passo militare breve, lento e cadenzato perché solo in questo modo si riesce a mantenere il necessario allineamento tra le fila serrate degli uomini, a compiere con coordinamento e sincronia tutte le manovre sull'accidentato, caotico e infuocato terreno dei campi di battaglia, e soprattutto a mantenere in questo ambiente infernale ordine e disciplina. Decisiva a questo riguardo l'influenza negli anni Trenta del XVIII secolo di Leopoldo Anhalt-Dessau, che aggiunse probabilmente l'ultimo tassello che mancava alla definitiva affermazione della tattica lineare.

Per la Guerra dei sette anni tutti gli eserciti europei adottano ormai la tattica lineare: lunghe fila di battaglioni schierati in linee affiancate e continue. Sarà Federico II di Prussia a comprenderne appieno le regole e a fare raggiungere alla tattica lineare la sua maturità.

Il processo di formazione della tattica lineare, quindi, ci appare una lunga dinamica costellata di una serie di innovazioni tecnologiche, ciascuna delle quali è in sé insufficiente a rappresentare una vera rivoluzione militare, una dinamica trainata non tanto dall'introduzione delle armi da fuoco, pur considerandone tutti i vantaggi rispetto alle altre armi da tiro, quanto dall'esigenza di applicare alle armi da fuoco il principio militare dell'efficacia.