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La guerra non può per un singolo minuto essere separata dalla politica
Mao Tse-tung, 1938


IL RAPPORTO INSCINDIBILE

politica (e guerra)

nicola zotti



Lo strumento rifiutato

Gli antichi greci avevano risolto la questione: guerra e politica erano inseparabilmente unite in Athena, la saggia e forte protettrice della Polis.

Per i moderni, invece, il rapporto tra guerra e politica è un problema controverso, che porta la nostra politica e le nostre menti in paludi dove l’acqua è misteriosa ed inquietante.

Ai tempi nostri, l’idea che la guerra non sia “solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”, come sostenuto da von Clausewitz, provoca imbarazzo e sconcerto.

Una vertigine amplificata negli anni Settanta da Michel Foucault che, per sottolineare l’immanenza e la pervasività del conflitto nella società moderna, ribaltò questa tesi sostenendo fosse la politica la continuazione della guerra.

Athena


Il timore che esista un rapporto parentale tra guerra e politica corrompe la convinzione che la politica debba essere e sia buona in sé: come può la politica, dalla quale dipendono le speranze del genere umano, avere la guerra, il secondo cavaliere dell’Apocalisse, tra i suoi strumenti?

Se il mezzo con il quale si tende a costruire un futuro migliore per l’umanità ha nella sua cassetta per gli attrezzi anche una pistola, il mondo diventa pericoloso, forse insostenibilmente pericoloso, angosciato da decisioni di drammaticità inconsueta, in particolare per le democratiche società del benessere, dove tutti, volenti o nolenti, siamo investiti della responsabilità di decidere se, quando e come quella pistola debba uscire dalla sua custodia.

Partiti e parlamenti – ancor più delle coscienze dei singoli – nella loro profonda crisi di senso e di ruolo, rinuncerebbero volentieri a questa prerogativa, che vivono di fatto proprio come la fine della politica invece che come sua continuazione: un banco di prova dove la bocciatura è assicurata, dove con maggiore evidenza i politici mostrano inadeguatezza e limiti.

Una rimozione forse persino necessaria per la politica, già in affanno a fare i conti con la propria natura intrinsecamente terribile e ferina, potenzialmente mortifera già con gli stessi “mezzi” che ritiene propri: quanti morti può provocare una decisione del Fondo monetario internazionale? Quanti il protezionismo della Comunità Europea che stronca le esportazioni di latte dei paesi africani?

Scegliere quale guerra fare e quale non fare, spiegare la scelta, decidere quanti uomini impiegare, con quali mezzi, con quali mandati, cristallizza e dà evidenza inequivocabile al "conflitto": non solo traslandoci tutti in quelli lontani, ma alimentando anche quelli di casa.

Così la politica, in particolare in paesi minori come l’Italia, è predisposta e più che disponibile ad accettare un ridimensionamento delle proprie facoltà e del proprio ruolo internazionale, comunque trascurabile, pur di essere liberata da una questione così spinosa.

Il ricordo del dibattito sulle decisioni di inviare nostre truppe in teatri di guerra come l’ex-Jugoslavia, l’Afghanistan e l’Iraq, testimonia la sempre apprezzabile natura pacifica dell’Italia e un prezioso sentimento di partecipazione alla vita democratica del nostro paese, ma anche il malessere generalizzato della nostra società politica, incapace ad ogni livello di interpretare la realtà, di analizzarla coerentemente, di intraprendere azioni controverse, di costruire e rispettare fino in fondo una scala gerarchica di interessi e valori e di assumersi la responsabilità democratica del potere politico.

Le guerre però ci sono e non possono essere ignorate. Al di là degli opportunismi e delle strumentalità individualistiche, che comprendiamo, ci viene quotidianamente chiesto di schierarci, di intervenire, di tutelare, appunto, anche avvalendoci della forza, interessi e valori collettivi e "nazionali" oggettivamente propedeutici ad opportunismi ed individualismi strumentali, ma verso i quali abbiamo un'attenzione più svagata.

La ricerca, quindi, di un insieme di regole capaci di orientare l’azione di governo non si può fermare ai giochi di parole e agli ossimori – la guerra “fine” della politica o la guerra “umanitaria” – ma deve necessariamente andare oltre, se non altro per fornire un insieme di strumenti dialettici più persuasivi.

Un discorso valido non solo per chi governa o si candida a farlo, ma anche per il campo pacifista. Il no alla guerra “senza se e senza ma” è sufficiente per il pacifismo etico-religioso, che ci si riconosce spontaneamente, ma non può esserlo per il pacifismo di sinistra, o anche solo genericamente progressista.

Dopo aver rinunciato al marxismo e archiviato una serie di propri momenti fondativi inequivocabilmente bellici – dalla rivoluzione russa alla guerra di Spagna –, dopo aver persino messo in dubbio che la guerra di liberazione contro i nazifascisti, in quanto “guerra”, potesse essere “giusta”, la sinistra può spingersi oltre? Ovvero giungere alla rinuncia della propria identità culturale per subordinarsi a quella religiosa, senza nemmeno un tentativo per esprimere motivazioni diverse e più ampie di quel “senza se e senza ma” e soprattutto indirizzi per un’azione politica che vada al di là dei cortei del sabato pomeriggio contro un governo qualsiasi?

A ben guardare, lo stesso pacifismo di origine religiosa, pur avendo alle spalle minori imbarazzi nel rifiutare la violenza – se non altro in virtù di un maggiore distacco storico – deve porsi la stessa domanda. Oltre il confine del precetto morale c’è l’emergenza umanitaria: ovvero la necessità di qualcuno che, in un caso per quanto estremo, prenda di mira un essere umano e tiri il grilletto per salvarne altri, inermi. Questo chiese Giovanni Paolo II alla comunità internazionale pregandola di intervenire urgentemente per fermare i massacri in Bosnia.

Insomma fluttuava nell’aria una diffusa ricerca di strumenti intellettuali che aiutassero a maneggiare la guerra, recidendo al contempo il problematico cordone ombelicale clausewitziano che la lega alla politica.

Un aborto terapeutico che salvasse la madre senza però ucciderne il terribile figlio, per la cui morte – la “scomparsa dalla storia” – si prevedevano, pragmaticamente, tempi lunghi.

La soluzione "culturalista"

Gli storici militari hanno partecipato a questo dibattito in modo indiretto, per interposta persona dei commentatori di politica internazionale e di analisi strategiche. Questi opinionisti, sempre alla ricerca di idee per raggiungere un adeguato numero di parole, hanno trovato più risposte di quante stessero cercando in un’antica diatriba che ha avuto una forte scossa 12 anni fa, quando lo storico inglese John Keegan pubblicò il più polemico saggio anticlausewitziano degli ultimi anni.

Fin dalla pubblicazione postuma, nel 1832, il “Vom Kriege” ha scatenato polemiche, ma anche durante la sua vita von Clausewitz fu osteggiato per le sue idee innovative, non solo in campo militare, ma anche politico.

In quasi due secoli, l’unico ad essersi seriamente emancipato dal pensiero di von Clausewitz è stato Erich Ludendorff che nei suoi due saggi “Kriegführung und Politik” (Conduzione della guerra e politica, 1922) e “Der totale Krieg” (La guerra totale, 1935) ribalta l’assunto clausewitziano spiegando che non è la guerra a doversi mettere al servizio della politica, bensì quest’ultima che va piegata alle esigenze della prima.

Ma, tant’è, le idee di Ludendorff non si adattavano nemmeno alla Germania nazista, figuriamoci ai giorni nostri. Quelle di Keegan, invece, non solo erano presentabili, ma portavano nuovi argomenti nel dibattito su guerra e politica e si differenziavano da altri “anticlausewitziani” moderni – ad esempio Martin van Creveld con “The transformation of war” (1991) e Mary Kaldor in “New and Old Wars” (1999) – che si interessavano solo di contestare un aspetto molto marginale delle tesi di von Clausewitz, la guerra come affare di Stati, per mostrare che la guerra, come attualmente è, in larga parte può prescindere da essi.

Nel saggio del 1993 “A History of Warfare” (tradotto da Mondadori con il titolo “La grande storia della guerra”) John Keegan esordisce proprio affermando che “la guerra non è la prosecuzione della politica con altri mezzi”, bensì un frutto eminentemente culturale, una questione di rituali simbolici, senza fini politici, nei quali si esprimono i valori di particolari culture.

La natura della guerra e le sue origini per lo storico inglese sono quindi da ricercarsi nelle radici culturali di un popolo, o meglio soprattutto di una parte di esso: la sua componente di guerrieri.

Keegan arriva a queste conclusioni con una analisi di antropologia storica, esaminando una serie di esempi – gli zulu, i polinesiani, i mamelucchi, tra gli altri – deducendo che la concezione politicista della guerra è un’indebita prepotente sovrapposizione, foriera di sciagure, alla sua natura culturale, un apprendista stregone che pretende di comandare una forza che gli è superiore.

La politica non sarebbe materialmente in grado di elaborare e controllare strategie. Keegan ritiene ad esempio von Clausewitz il padre ideologico della Prima guerra mondiale e proprio per questo “la politica non ebbe nella conduzione della prima guerra mondiale un ruolo degno di essere menzionato”, ma ebbe anzi ogni responsabilità nell’immane massacro che ne derivò. O, per fare solo un ultimo esempio, Keegan non riesce ad individuare un disegno consapevole nella costruzione del limes da parte degli imperatori romani.

Tralascio la sua analisi del vom Kriege, piuttosto lacunosa fin dal principio – la stessa citazione con cui inizia il saggio, ad esempio, non è ricavata dal primo libro del vom Kriege, come riportato nella nota sia dell’edizione americana che in quella italiana, ma dall’ottavo – perché ci si impantanerebbe in disquisizioni terminologiche ed esegetiche fuorvianti.

Non è rilevante che Keegan abbia male interpretato il pensiero di von Clausewitz o ne abbia distorto la figura o che i suoi esempi siano forzati alle proprie tesi.

Neppure importa che tutta l’architettura del pensiero di Keegan risulti un po’ disordinata e in definitiva inconsistente.

In epoca di relativismo-pragmatismo la validità di un'idea viene anche misurata dalla sua utilità, dalla sua capacità di risolvere un problema. Di fatto, l’interpretazione culturalista delle origini della guerra fornisce risposte anticlausewitziane dialetticamente efficaci e politicamente spendibili e per questo sono riecheggiate nei dibattiti e nei commenti, magari senza alcun debito di riconoscenza verso il loro autore.

La politica ne esce, in realtà, in qualche modo deresponsabilizzata, perché, deputata al razionale benessere di un popolo, non può comprendere un evento difficilmente razionalizzabile come la guerra e alla cui origine sono motivi eminentemente culturali.

La guerra è completamente diversa dalla politica, afferma Keegan, “perché deve essere combattuta da uomini i cui valori e le cui abilità non sono quelle dei politici e dei diplomatici”.

Dunque la guerra non è uno strumento della politica in quanto quest’ultima non è in grado nemmeno di capirla, e, se pretende di utilizzarla e di controllarla per realizzare i propri fini, le sfugge di mano con conseguenze di imprevedibile drammaticità.

Non è un pacifista, Keegan, tuttavia avverte che, nonostante gli eserciti delle contemporanee nazioni sviluppate abbiano ancora compiti da svolgere, “poco a poco la visione dell’orrore si fa strada” e la guerra è destinata a scomparire.

In attesa di questo evento, Keegan, ritenendo insopprimibile la violenza nell'uomo, sostiene si debba tendenzialmente ritornare all'ordalia tribale preistorica, coi suoi rituali e le sue limitazioni che circoscrivevano la guerra a pochi selezionati guerrieri: un ritorno, per intenderci, al duello tra gli Orazi e i Curiazi.

C’è più di quanto sperato: un invito alla politica a non ricorrere alla guerra perché ne verrà travolta, un ulteriore argomento a favore di una strategia di rifiuto della guerra basata sulla diffusione globale di una cultura pacifica e pacifista, una focalizzazione sul problema della “guerra tra culture”, che diventa centrale sia per comprendere la guerra che per evitarla.

Tre precetti già presenti comunque nel dibattito e che contengono indubbiamente qualche elemento di fondatezza.

La seconda e la terza conclusione in particolare sono ricavabili dal pensiero di Keegan, anche se l’autore per quanto riguarda la seconda non si spingerebbe mai a tanto: è evidente, infatti, che i principali soggetti destinati ad una rieducazione culturale pacifista dovrebbero innanzitutto essere proprio gli appartenenti a quelle comunità guerriere (che fanno la guerra) tanto ammirate da Keegan e alla frequentazione e all’osservazione ravvicinata delle quali egli, professore all’accademia di Sandhurst, deve l’ispirazione delle proprie tesi.

Politica e/o guerra


I punti deboli del pensiero di Keegan, però, stanno proprio nella sua origine antropologica e nel concetto che egli ha della politica.

Ogni consesso umano infatti ha i propri linguaggi e le proprie regole e pretendere che i politici non possano occuparsi della guerra perché “non condividono i valori e le abilità” di chi la fa, vale per qualsiasi altra attività umana, dai professori universitari ai commercialisti.

Descrivere una società frammentata da insuperabili barriere antropologico-culturali, può avere il suo fascino esistenzialista ma si scontra con una quotidianità fatta non solo di generali che fanno carriera od ottengono fondi in base ad assidue frequentazioni politiche, ma di uomini e donne in uniforme che hanno idee politiche, che votano, si candidano, entrano nelle istituzioni.

Come pure conosciamo, e Keegan ne fa anche un elenco, tranquilli borghesi che diventano guerrieri da un giorno con l’altro, e non solo nei tempi della coscrizione obbligatoria.

Keegan, ad esempio, considera l'introduzione della coscrizione da parte della Rivoluzione francese uno dei suoi lasciti più negativi, perché ha interrotto la tradizione che riservava ad un'élite guerriera l'attività bellca: eppure i borghesi parigini che si arruolarono in massa nel 1791 si rivelarono eccezionali combattenti (tra gli altri l'italiano Bartolomeo Bertolini)

L’individuazione antropologica di un “guerriero” potrebbe quindi essere giudicata non solo arbitraria, ma irrilevante. Tanto più se (anche solo per pura prudenza) si riconosce l'istinto distruttivo come parte intrinseca dell'essere umano, almeno quanto quella razionalità che può suggerirgli vie per amministrarlo e contenerlo oppure metodi ancora più originali ed efficaci per scatenarlo.

Convinzioni diverse sulla natura dell'essere umano possono convincerci che esistano strade alternative (epurare l'aggressività dall'intelletto collettivo iniziando ad eliminare dal linguaggio calcistico "cannoniere", "attacco", "difesa"?) per portare la guerra fuori dalla politica e dalla storia.

Ma è perlomeno prudente (ripeto questo termine), nel frattempo, cercare di vedere il genere umano come è e non come vorremmo che fosse.

Tanto più che la guerra non è un fenomeno incapsulabile e delimitabile in un archetipo: non solo per le forme (quelle sì in larga parte di origine culturale) che ha storicamente assunto, ma anche per le sue componenti, alcune delle quali sono completamente politiche: ad esempio Leadership, autorità, comunicazione, informazione, propaganda.

Insomma, il quadro politico-culturale statico che Keegan configura manifesta la sua incapacità di vederne gli intrecci e le dinamiche, i flussi e le reciproche influenze: che sono il tutto e non la parte.

Più profondamente ancora, Keegan non capisce la politica.

Non ne vede l’autonomia, come quando dichiara “pensasse pure von Clausewitz che la guerra è la continuazione della politica: ma la politica si pratica al servizio della cultura”: un’affermazione sulla quale il minimo che si può dire è che è prescrittiva e non descrittiva.

E non ne individua il contesto, se, con un po’ di supponenza, nota: “L’uomo è un animale politico, disse Aristotele. Von Clausewitz, figlio di Aristotele, si limitò ad affermare che un animale politico è un animale belligerante. Nessuno dei due osò confrontarsi con l’idea che l’uomo sia un animale pensante il cui intelletto pilota l’istinto della caccia e l’abilità nell’uccidere”.

Affermazioni che equivalgono non tanto a far riferire la guerra ad un qualcosa ritenuto più profondo ed originario rispetto alla politica, ma a rendere la politica indifferente ed ininfluente rispetto all’agire umano.

Mettendoci a ragionare come Keegan, potremmo spingerci a giocherellare coi concetti, fino a domandarci se nasce prima la politica o la cultura: se ci sia bisogno di un “animale politico” che entri in relazione con altri per sviluppare una cultura, la quale a sua volta intervenga a pilotare “l’istinto della caccia e l’abilità nell’uccidere”.

Mi viene più spontaneo notare, invece, che nel genere umano esistono una pluralità di culture, e che altrettanto plurali sono intelletti, istinti e abilità.

La politica mette in fila e dà priorità ai valori e agli interessi che le teste esprimono tra le maglie del tessuto sociale: una comunità prende decisioni politiche – come le prende è indifferente – proprio perché è una comunità e vuole continuare ad esserlo. E se non riesce a dirimere un conflitto interno, può dividersi fino al punto di generare ciò che guarda caso si chiama “guerra” civile.

Tutti abbiamo sperimentato la quotidiana ferocia della politica per non comprendere quanta violenza ci possa essere nell'applicazione e nell'interpretazione della legge anche nella più pacifica delle democrazie, e i tagli di bilancio sono probabilmente le prime e più sanguinanti cause di morte della società attuale.

Non c'è affatto bisogno, dunque, che la politica impugni lo strumento della guerra perché essa già in sé e per sé "è" guerra, quando si esprime in potere politico.

Politica, potere, sovranità

Il potere politico esiste, infatti, e non possiamo eliminarlo.

Max Weber, nel solco tracciato da von Clausewitz, ne individua la caratteristica principale nel monopolio dell’uso della coercizione fisica legittima: un monopolio esclusivo, ovvero che non può essere condiviso con altri, universale, perché investe tutta la comunità, inclusivo, in quanto può intervenire imperativamente per spingere o impedire qualsiasi comportamento dei membri della comunità.

Il potere politico è quindi la premessa per dichiarare una guerra e guidarla come per promulgare una legge e applicarla: sia esso detenuto da un consesso tribale neolitico, da un’assemblea di svizzeri, da un capo guerrigliero, da un ayatollah, da un dittatore o da uno stato democratico.

Il potere politico però può anche decidere il proprio ambito: uno stato teocratico, ad esempio, può estenderlo alla morale, uno stato liberale può escluderne la religione o una quota dei rapporti economici.

La politica, quindi, potrebbe rinunciare in tutto o in parte al proprio monopolio dell’uso della forza, delegandolo ad altri: questa è ad esempio la strada che si pensa di percorrere delegando al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite l’esclusività della decisione dell’impiego delle forze armate.

Ma se si cede potere politico si cede la sovranità.

Se tutti gli stati delegassero ad un’istanza superiore, poniamo ad una magistratura indipendente, quella quota del proprio potere politico corrispondente al segmento di forza proiettabile all’esterno, riservando a quella magistratura il diritto di autorizzarli ad un'ordalia tra le proprie comunità guerriere per dirimere un qualsiasi conflitto, chi potrebbe vincolare le parti al rispetto dell'esito se non il detentore del potere politico?

Questa deriva verso una società idealistico-neoplatonica funziona se ai guerrieri è lasciata non solo la grammatica della guerra (come sosteneva von Clausewitz) ma anche la sintassi e il senso, che unicamente loro possono comprendere in virtù delle proprie qualità antropologiche, e ne deriverebbe una ridislocazione complessiva del potere.

Non è infatti il monopolio dell’uso della forza a creare il potere politico, ma quest’ultimo a detenerlo in quanto tale per la realizzazione dei suoi fini: qualsiasi delega come quella ipotizzata sarebbe vuota o sarebbe assoluta.

Né è semplice capire in base a quali criteri si potrebbe discernere tra gli scopi, quelli "politici" dagli altri, per evitare che possano servire da motivo per una guerra.

Cessioni parziali di sovranità
sono già vigenti: qualcuna sembra funzionare altre no, ma è tutto da dimostrare che la completa cessione del monopolio della violenza "esterna" sarebbe praticabile e soprattutto sarebbe risolutiva del problema.

Un'ordalia perfettamente simmetrica non è affatto automaticamente "giusta", dato che storicamente proprio l'asimmetria della guerra ha saputo permettere ai più deboli di sconfiggere i più forti.

La politica non ha modo di liberarsi della guerra come il potere politico non può privarsi del monopolio della forza, e allo stesso modo gli strumenti per controllare la guerra rimangano sempre eminentemente politici: e dunque parziali, fallibili, incerti quanto è la politica.

La relativa forza o debolezza del potere politico non sono indicativi di un atteggiamento più o meno pacifico nei confronti dei metodi di risoluzione dei conflitti, ma solo del controllo che la politica avrà sul monopolio della violenza.

Ed è la legittimità e l'ispirazione di quel controllo che fa, o dovrebbe fare, la differenza.

Devo dire però che c’è un aspetto inesplorato del pensiero culturalista che meriterebbe un’analisi a parte.

Se la guerra emana dalla cultura di un popolo non solo stabilendone le modalità, come affermano alcuni storici militari – ad esempio Victor Davis Hanson o John Lynn – ma in senso totalizzante, il prima-durante-dopo di un conflitto diventano di fatto incontrollabili nell’immediato da qualsiasi intervento umano.

Posto che la cultura di un popolo modelli senza governarli i suoi poteri economico, ideologico e politico, nel contempo includendo e contemplando una cultura guerriera dormiente e inespressa, magari, ma comunque indipendente e incontrollabile da quegli stessi poteri, la struttura sociale si rivela un insieme di vasi comunicanti in ambito culturale, ma irriconducibili ad una comune razionalità sociale.

La comunità dei guerrieri diventa quindi, implicitamente, l’occulta pre-cosciente detentrice del potere politico, la depositaria della chiave di una “stanza dei bottoni” nella quale, però, la società vive prigioniera: introduzione, forse, ad un’interpretazione filosofica claustrofobica e violenta della società.