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QUANDO NON E' NECESSARIA LA RETORICA

Gli ascari d'Italia

Roma-Vittoriano, 16 settembre - 10 ottobre 2004

nicola zotti

La mostra è di quelle da non perdere.

L'appuntamento è dal 16 settembre al 10 ottobre 2004 a Roma al Vittoriano dove, per volontà del presidente della commissione Difesa della camera, Ramponi, verranno ricordati i nostri ascari, le truppe indigene che combatterono sotto le nostre bandiere.

Ne dà l'annuncio Marco Nese sul Corriere della Sera del 1o luglio 2004, a pag. 17.

Gli appassionati di storia militare devono essere grati al Corriere e a Nesi per la tempestività: Nese specifica che saranno esposti al Vittoriano e non all'Asmara anche 4 cannoni che gli abissini ci catturarono alla battaglia di Adua, evitandoci un viaggio fino in Eritrea.

Ascaro trombettiere in 25mm della linea coloniale di Strategia e Tattica


Io gli sono doppiamente grato, poi, perché mi permette di ampliare lo speciale sull'Italia in Africa, con qualche piccola osservazione ispirata dal suo articolo.

Meritava un approfondimento, ad esempio, l'affermazione del presidente eritreo Afwerky: alle sprezzanti parole del colonnello Gheddafi che accusava gli ascari di essere stati "servi degli italiani", Afwerky rispose puntualizzando che non erano schiavi ma volontari.

O le parole dello stesso Ramponi, che trascorse la gioventù in Eritrea, quando ricorda come gli ascari fossero "affezionati al tricolore, orgogliosi di battersi per l'Italia".

Quello che Afwerky e Ramponi non dicono e doveva essere spiegato da Nese è che gli ascari erano mercenari, pagati all'epoca di Adua una lira e mezza al giorno; un patrimonio in quelle zone.

Dunque sicuramente volontari orgogliosi di battersi per l'Italia, ma altrettanto soddisfatti del soldo che questa offriva per averli in uniforme.

Sul loro valore sarebbe giusto sottrarli al mito: il mito non onora gli uomini, solo li priva della loro umanità.

Erano soldati leali e coraggiosi, ma quando ci fu da scappare gli ascari scapparono, come è giusto che faccia un soldato se l'uomo che li comanda li mette in condizioni di doverlo fare.

E i nostri alti ufficiali non persero occasione per creare quelle condizioni.

Valga come curiosità ed esempio. in fuga dal campo di battaglia di Adua, il degiac Fanta ebbe modo di commentare "oggi è inutile qualsiasi sforzo. Neppure un muro li fermerebbe. Non dovevamo attaccare di domenica":

E proprio parlando di Adua, Nese scrive:

Ad Adua [...] ben 4 mila ascari persero la vita. E quelli caduti prigionieri sopportarono orrori indicibili. La sanguinaria imperatrice Taitù gli fece amputare una mano e un piede.

Anche questa frase avrebbe dovuto essere tagliata: passi, se pubblicata sul Popolo d'Italia nel 1936, settanta anni dopo no.

Ad Adua gli ascari erano in tutto poco più di 4.000: e ne sono morti in realtà un migliaio, altri mille furono i feriti e 800 i prigionieri.

Di questi, solo gli ascari di provenienza tigrina vennero mutilati della mano sinistra e del piede destro: a volerlo non fu la "sanguinaria" imperatrice Taitù, ma secondo alcuni il consiglio dei capi e secondo altri l'abuna Matteos, che impose l'applicazione della legge del Fetha Nagast.

Vennero invece risparmiati gli ascari sudanesi, somali, dancali e musulmani della costa: gli abissini considerarono i tigrini disertori e li punirono di conseguenza: noi li avremmo fucilati.

Ai 406 mutiliati che tornarono in Eritrea vennero conferite 1.000 lire come pensione vitalizia.

Pena legittima? Forse. Barbara sicuramente: almeno per lo storico di Menelik, Afework, che condannò senza mezze misure il suo sovrano e si rammaricò che "in un paese cristiano come l'Etiopia esiste ancor oggi un fatto così barbaro".

Quanto all'imperatrice Taitù, quel "sanguinaria" è proprio inopportuno. Ha veramente il sapore di propaganda, di feroce Saladino, di cartolina ingiallita.

Taitù (Taieku in amarico) era una donna forte che difendeva l'indipendenza del suo paese e che diede un contributo decisivo al raggiungimento di questo obiettivo: era una nostra nemica, ma aveva il dovere di esserlo.

Lasciamo all'Etiopia contemporanea il diritto di farne un'eroina: noi le dobbiamo almeno il rispetto.