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LA BATTAGLIA PIU' COMPLICATA DELLA NOSTRA STORIA

La battaglia di Adua 1896

nicola zotti


Ad Adua non perdemmo per caso.

All'errore fondamentale di sottovalutare l'avversario, si aggiunsero le decisioni sbagliate assunte nel corso degli eventi.

Però, più che fare una rassegna di errori, vorrei cercare di spiegare il corso della battaglia che, come vedremo, è già un compito sufficientemente arduo.


I luoghi della battaglia

Basterebbe questa mappa, nel quale l'unico toponimo semplice è anche il solo a tutti familiare, almeno per ricordi di scuola: Adua.

Basta questa mappa, appunto, per darci un senso di confusione mentale. Ma sarebbe solo un pizzico di quella che il 1° marzo 1896 si era impadronita, per restarci, delle menti dei generali italiani.

Ma di mappa ce ne era anche un'altra, molto diversa.

Questa che vedete era la mappa che il comandante in capo e governatore dell'Eritrea Baratieri aveva consegnato ai suoi sottoposti in preparazione della battaglia. In effetti non è "un'altra" mappa, ma è "la mappa" del terreno che guidò i movimenti delle nostre truppe.

E' sommaria e zeppa di errori, eppure una mappa un po' più precisa avremmo potuto disegnarla, perché l'area l'avevamo frequentata per mesi.


La "mappa" di Baratieri

Il piano di Baratieri prevedeva che le 4 brigate di cui era composto il corpo di spedizione formassero un'ala destra (brigata Dabormida), un centro (brigata Arimondi), un'ala sinistra (brigata indigena Albertone) e una riserva (brigata Ellena), e formulava due ipotesi di schieramento, una principale ed una secondaria.

Partendo dai rispettivi accampamenti, le brigate con una marcia notturna dovevano ricongiungersi formando un fronte tra il monte Esciasciò a nord e il Semaiata a sud, schierandosi:

Dabormida sul colle Rebbi Arienni
Arimondi ed Ellena sullo stesso colle Rebbi Arienni
Albertone sul colle Chidane Meret

I due colli non sono segnati sulla mappa con le classiche curve di livello, ma indicati con due scritte verticali: una in alto, parallela al monte Esciasciò, e una centrale, a lato del monte Raio.



Il piano di battaglia

Lo schieramento secondario prevedeva che Dabormida ed Albertone presidiassero i due colli affiancando le brigate, mentre Arimondi ed Ellena si sarebbero dovuti schierare in seconda linea.

Una disposizione semplice, che nelle intenzioni doveva attirare l'esercito di Menelik, o almeno la sua retroguardia, verso un'inevitabile sconfitta.

Secondo le valutazioni italiane, di fronte a loro non c'erano più di 30.000 abissini, demoralizzati e a corto di provviste: un compito agevole per i 14.000 fanti italiani e le loro armi moderne.

I fatti saranno ben diversi, a cominciare dalla differenza tra la mappa di Baratieri e la realtà del terreno e per finire con gli abissini che erano molto meglio armati di quanto pensassimo, e di quanto si pensi ancora ai giorni nostri: tra l'altro vevano 46 modernissimi cannoni a tiro rapido Hotchkiss, mitragliatrici Hotchkiss e Maxim, e 120.000 fucili altrettanto moderni, acquistati da mercanti di armi privati (tra i quali Arthur Rimbaud, il quale ci è noto come poeta, ma in quegli anni si dilettava anche di commerciare schiavi) o da governi, come quello russo, altri ancora donati per motivi diplomatici come i Vetterli-Vitali forniti proprio da noi italiani.


Il piano di battaglia: dalla teoria alla pratica

Nonostante nella brigata Albertone fossero presentinostri connazionali, meno agili degli ascari tra quelle montagne, la sua marcia fu comunque più spedita delle altre brigate e ben presto si trovò a precederle.

Questo di per sé non avrebbe avuto conseguenze gravi se i sentieri centrali e meridionali che conducevano agli obiettivi stabiliti, imprevedibilmente, non finissero col ricongiungersi.

L'imprecisione della carta o gli incerti di una marcia notturna, costrinsero quindi la colonna di Arimondi, e conseguentemente quella di Ellena che la seguiva, a fermarsi per lasciar sfilare quella di Albertone che iniziò a distanziarsi. Tra la brigata Albertone e il resto del corpo di spedizione si apriva un vuoto che non sarebbe più stato colmato

La brigata indigena, infatti, si avviava ad un altro ancor più grave salto.

Come sappiamo, la brigata Albertone doveva schierarsi sul colle Chidane Meret: questo, in effetti, non si trova dove lo vorrebbe la carta di Baratieri, ma molti chilometri a sud-ovest.

Spinto forse dall'ansia di combattere o sollecitato dalle guide, Albertone, senza chiedere ulteriori istruzioni o informare Baratieri, decise di raggiungere la posizione che doveva nominalmente occupare e non di restare su quella che logicamente gli competeva: il monte Erarà.

La distanza tra le brigate divenne così abissale: la brigata indigena alle 6 aveva già raggiunto il "vero" Chidane Meret, schierandosi nel triangolo tra il Chidane Meret, il colle Adi Vecci e le pendici del Semaiata, mentre alla stessa ora le altre tre brigate facevanmo la fila al colle Rebbi Arienni.

Albertone scriverà nelle sue memorie che attendeva proprio in quel punto di collegarsi con Dabormida, secondo il piano di operazioni secondario.

Qualunque fossero i motivi di quella sua convinzione, era destinata ad essere delusa.


La situazione tra le 6 e le 9


Gli abissini erano informati degli spostamenti italiani e non si fecero prendere di sorpresa, anzi.

Quasi immediatamemte investirono Albertone, travolgendo la sua avanguardia e costringendo al ripiegamento anche la seconda linea sulla terza, iniziando nel contempo ad infiltrarsi nell'interno per sentieri nascosti alla vista e al tiro dei nostri.

Poco prima delle 7, Albertone, preoccupato dalla piega presa dagli avvenimenti, stilò un messaggio per Baratieri chiedendogli di intervenire.

Alla stessa ora, però, il governatore aveva già potuto valutare la situazione e prendere le contromisure. Quali non è chiaro. In breve tempo, comunque, non sarebbe più stato in grado nemmeno di aiutare se stesso.

Da quello che racconta nelle sue memorie, intendeva schierare le brigate Dabormida e Arimondi una a fianco all'altra tra monte Raio e monte Bellah, con la brigata Ellena di riserva. contando di coprire il fianco sinistro di Arimondi con i superstiti della brigata indigena.

Dabormida ha portato con sè nella tomba l'ordine di Baratieri, anche perché non lo rivelò nemmeno ai suoi collaboratori. Tre le versioni: attestarsi (come sostiene Baratieri) sul monte Bellah formando una L con le truppe di Arimondi; prendere sul fianco gli abissini attaccandoli dal Diriam; oppure alleggerire la pressione su Albertone muovendo contro il campo abissino nella valle Mariam Sciauitù.

In realtà la brigata Dabormida compì una quarta operazione. Si infilò nella valle Mariam Sciauitù, cercando anche di "tendere la mano ad Albertone", distaccando un battaglione sul monte Diriam.

Ma, arrivato verso le 9, Dabormida trascorse un'ora e mezza fermo ad aspettare: che cosa non si sa, comunque furono gli abissini ad andargli incontro e per le 10 e 30 la sua brigata era già praticamente tagliata fuori sia da Albertone che da Ellena. Gli abissini, infatti, erano persino giunti su quello stesso monte Bellah che Dabormida avrebbe dovuto occupare, almeno nelle intenzioni di Baratieri.

Gli ordini dati ad Arimondi, invece, sono noti, ma non per questo si può dire che sia più facile comprenderne la logica: Baratieri verso le 7 chiese ad Arimondi di prendere il posto di Dabormida sul colle Rebbi Arienni, cosa impossibile fino a che la brigata di Dabormida non l'avesse lasciato libero.

Solo alle 8 Baratieri ordinò effettivamente ad Arimondi di occupare il monte Raio, il settore previsto dal suo progetto. Arimondi, però, se la prese comoda e non fu in posizione che dopo le 9, quando gli abissini, filitrati tra i monti, erano in massa di fronte al monte.



La situazione tra le 10 e le 12


Le brigate centrali entrarono in combattimento già prima delle 10, quando ormai la brigata Albertone stava sparando le ultime cartucce.

I nostri soldati attendevano l'arrivo degli abissini, largamente preannunciati dalla colonna di fuggitivi: potevano intravedere scure immense colonne di nemici valicare le colline, scomparire per poi riapparire più vicine e così addosso agli ascari in fuga da non poter essere oggetto di cannoneggiamento.

La brigata Arimondi, schierata frettolosamente dal suo comandante, si trovava appesa al monte Raio: un appiglio insicuro visto che era rimasta scoperta a destra e a sinistra nessuno l'avrebbe protetta mai.

La massa degli abissini investì la brigata da ogni parte, travolgendo l'esigua linea nel giro di un paio d'ore: verso mezzogiorno Arimondi era morto e quello che avanzava della sua brigata cercava in disordine una via di fuga.

La brigata Ellena si trovò impegnata quasi contemporaneamente a quella di Arimondi, perché gli abissini avevano compiuto ampie manovre di aggiramento, passando a nord e a sud della zona montagnosa e persino sfilando sotto il monte Raio e occupando la piana di Gundapta.

Era la brigata più robusta delle quattro ma aveva distaccato unità e rinforzi: non avrebbe potuto fermare l'avanzata nemica, ma non ne ebbe nemmeno il tempo.


La situazione tra le 13 e le 15


L'iniziale confusione e mancanza di coesione tra i reparti si erano ampliate in una inarrestabile reazione a catena.

Nel primo pomeriggio ogni resistenza coerente era cessata: numerosissimi piccoli nuclei di truppe combattevano ancora senza speranza completamente circondati o arroccati sulle cime dei monti, mentre il resto del corpo di spedizione era in ritirata inseguito dai cavalieri Galla.

La ritirata non poteva essere ordinata e non lo fu: tanto più che Baratieri non aveva dato disposizioni per le linee di ripiegamento. Ognuno scappò dove poteva, facilitando il compito degli inseguitori. Quando in maggio le nostre truppe arrivarono sui luoghi della battaglia per seppellire i cadaveri, ben 1.500 dei 3.025 corpi ritrovati, giacevano fuori dell'area della battaglia, uccisi durante la ritirata.

Morirono circa 5.900 tra italiani e ascari. Maggiore il numero dei morti abissini (valutato tra i 7.000 e i 12.000), ma loro erano attorno ai 120.000 e noi in tutto 17.500.