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L'INTELLETTUALE AFFASCINATO DALLA GUERRA

Antoine-Henri de Jomini (1779-1869)

Nicola Zotti

Oggi 24 marzo 2009, giorno in cui scrivo queste note, è il 140o anniversario della morte di Antoine-Henri de Jomini.

Jomini nacque in Svizzera a Payerne, nel cantone di Vaud, il 6 marzo 1779: il che fa coincidere con questo mese di marzo del 2009 anche il 230o anniversario della sua nascita.

Attratto fin da adolescente dalla carriera militare, Jomini intraprese tuttavia, come meglio si confà ad uno svizzero, quella del bancario, dopo studi equivalenti ad un istituto tecnico commerciale: una formazione basata sulla concretezza e il realismo che segnò la sua vita ed influenzò fortemente la sua personalità.


L'attitudine per le speculazioni finanziarie era però in Jomini molto inferiore a quella per le speculazioni storico-militari, nelle quali si impegnava sicuramente con maggiore intensità e profitto.

In particolare, Jomini studiò con accanimento le campagne di Federico II di Prussia e formò su questi studi le proprie più profonde e durature convinzioni, senza sostanzialmente cambiarle mai nei successivi 70 anni: per quanto ci possa apparire paradossale, Jomini divenne se non il migliore, sicuramente il più celebre interprete del nuovo spirito militare uscito dalla rivoluzione traendo ispirazione dalla più alta e compiuta forma del'arte militare dell'Ancién Régime.

Quando, nel 1805 entrò finalmente nell'esercito francese per interessamento del maresciallo Ney, infatti, Jomini era già noto ed apprezzato per i suoi scritti militari -- primi di una produzione incredibilmente prolifica e composta da decine e decine di volumi -- e le sue idee chiare e concrete: era un assoluto autodidatta, estraneo all'ambiente militare, ma forse proprio per questo era riuscito a spiegare con la sua praticità da bancario ai professionisti "veri" della guerra ciò che loro comprendevano per intuito.

Come "esterno" all'ambiente militare compì una carriera fulminante che lo portò in 8 anni e 12 campagne militari a seguire dalla posizione privilegiata di ufficiale dello stato maggiore la parabola di Napoleone da Austerlitz a Bautzen: e proprio dopo questa battaglia del 20-21 maggio 1813 avvenne il suo abbandono delle fila francesi a causa dell'opposizione da parte del maresciallo Louis Alexandre Berthier alla sua nomina a generale di divisione.

Quali che fossero i motivi dell'avversione di Berthier, militare di carriera, nei confronti di Jomini, non è chiaro: di fatto Jomini dal 1809 per concessione di Napoleone e dello zar Alessandro poteva vantare una commissione da ufficiale in entrambi gli eserciti.

Nel 1812 era riuscito in qualche modo a conciliare le due "appartenenze" rivestendo un ruolo da non combattente nella Grande Armée: cosa che, comunque, non gli impedì di salvare quanto restava di essa dalla più completa disfatta, individuando l'attraversamento della Beresina, che il suo mentore, il maresciallo Michel Ney, trasformò nella propria più epica impresa.

Nel 1813 il passaggio al servizio dello zar fu comunque condizionato da un'ancora più profonda appartenenza, quella alla sua nazione di nascita: tant'é che nella campagna del 1814, per protesta contro la violazione da parte alleata della neutralità svizzera, Jomini prese le distanze dai suoi nuovi padroni abbandonando il conflitto.

Ma l'ultimo e forse più forte segnale del carattere di Jomini si ebbe nel 1815, quando invano cercò di salvare dalla morte il maresciallo Ney con insistite quanto inutili perorazioni presso lo zar.

Se due più due fa quattro, comprenderete che nessun monarca assoluto -- tanto meno un Napoleone o uno zar -- si tiene al fianco un Jomini se non è convinto del suo valore: un uomo tanto rompiscatole, polemico e vanitoso quanto in realtà dipendente dalla protezione del potere "vero", se non altro perché solo questo poteva essere interessato a quanto lui aveva da vendere. Ovvero le idee espresse nei suoi libri -- il più noto è il "Précis de l'art de la guerre" -- e i suoi consigli: che venivano rispettivamente molto letti e richiesti pur non rendendolo mai un uomo ricco.

In un'epoca come la nostra, affollata di potenti che amano circondarsi di "yes-men" sempre pronti alla piaggeria, credo si debba ammirare sia la decisione dei due imperatori, quanto farsi un'idea precisa di quanto Jomini fosse apprezzato dai suoi contemporanei. Giustamente, aggiungo a mio modestissimo avviso.

Di fatto Jomini fu un uomo che ebbe -- mi ripeto -- meritatamente in vita il riconoscimento delle proprie qualità, e purtuttavia non realizzò mai il suo sogno di essere accettato dall'ambiente militare in senso stretto, e soprattutto quello di esercitare un ruolo di comando effettivo. Questo dovette essere per lui fonte di una grande frustrazione e inevitabilmente lo strinse alla figura del geniale e prolifico osservatore dell'arte militare, quindi dell'intellettuale e non dell'uomo d'azione che avrebbe voluto essere.

Furono le sue idee a dominare il pensiero militare mondiale praticamente dai primi dell'Ottocento fin quando fu in vita: o meglio quasi, perché il punto di svolta si ebbe con la guerra Franco-prussiana del 1870-71, quando l'esercito prussiano costruito secondo le idee del primo militare ad aver letto e compreso il "vom Kriege", ovvero Helmuth Karl Bernhard von Moltke, si liberò con una certa sicurezza di quello francese cresciuto e nutritosi con le idee di Jomini. Un fato condiviso, durante la Grande guerra, dall'altro esercito di formazione jominiana per eccellenza, quello russo.

Lo studioso svizzero conobbe però un grande e duraturo successo oltreoceano, negli Stati Uniti, ad opera di Henry Wager Halleck, generale americano (unionista durante la Guerra di secessione) e non solo suo traduttore, ma soprattutto autore a sua volta di un manuale tattico di grande diffusione e successo.

È in questa rilettura "americana" che il pensiero di Jomini venne metabolizzato, diventando, nel bene e nel male, un patrimonio del pensiero strategico mondiale, nel momento stesso in cui di fatto si alienava dalla paternità del suo autore.

Non parlo, naturalmente, di discendenze dirette, di scuole di pensiero o di eredi: nessuno legge più Jomini e chi lo legge certo non lo medita e dunque non ne trova ispirazione. Mi riferisco all'origine della legittimità "scientifica" del professionismo militare, che oggi si sta trasformando in legittimità tecnologica, e a concetti come la prevalenza della strategia perché capace, più della tattica, "di essere sottomessa a principi dogmatici che si avvicinano agli assiomi delle scienze positive", ovvero alla fonte della legittimità di cui sopra.

Jomini è anche il padre dell'arte operazionale -- in Italia viene in realtà definita "operativa" -- e cioé lo scopritore e il valorizzatore di quanto avviene sul teatro delle operazioni militari, laddove gli eserciti si muovono in quello spazio virtuale tra il livello strategico e il campo di battaglia vero e proprio.

E per inciso mi riferisco anche ad argomenti più tecnici, ma anche ben assimilati persino dal pubblico, come quello che Jomini ha riassunto nel primo dei suoi "principi fondamentali della guerra":

«Porter, par des combinaisons stratégiques, le gros des forces d’une armée, successivement sur les points décisifs d’un théâtre de guerre, et autant que possible sur les communications de l’ennemi sans compromettre les siennes»

Un concetto quello di "points décisifs" che vien spesso confuso con quello clausewitziano di Schwehrpunkt e che ha pervaso le dottrine militari fino ai giorni nostri.

Un concetto che si ripete spesso nell'opera di Jomini, anche quando ad esempio di occupa di tattica, ad esempio quando illistra la propria classificazione degli ordini di battaglia offensivi, con tanto di schemi illustrativi.

La questione è che laddove gli eserciti si dovevano confrontare con la politica e si staccavano dalla dipendenza da un sovrano, o proprio non la conoscevano come nel caso degli Stati Uniti prima e di tutto il mondo poi, si trovavano anche nella necessità di imporre il proprio punto di vista e costruire una propria autorevolezza: e qui l'accento di Jomini sulla strategia e sulle operazioni, solo per riferirmi a concetti citati, erano ottimi argomenti.

Di fatto, però, Jomini è troppo legato sentimentalmente alla guerra "pulita" e "cavalleresca" che egli, in modo sicuramente idealistico, faceva coincidere con quella dell'Ancién Régime, per comprendere la brutale e caotica imperfezione che la guerra "rivoluzionaria" aveva così drammaticamente portato alla luce.

Quello che non comprese a fondo è che gli schemi puliti della guerra "lineare" non erano stati spazzati via da una "nuova" guerra di popolo sporca, sanguinaria e stracciona: semplicemente lui della natura camaleontica della guerra percepiva -- o voleva percepire -- per daltonismo intellettuale, solo quegli schemi che pure aveva saputo rintracciare e tracciare da testimone diretto: pur se in questo modo perdeva una visione unitaria della guerra come fenomeno filosofico e sociale.

Ovviamente a questo punto è ovvio un riferimento conclusivo alla relativa grandezza di Jomini e von Clausewitz, sulla quale pure moltissimo è stato scritto.

In questa sede, per rispetto, vorrei sottrarmi a questa forca caudina proponendovi, invece, un confronto, che vi apparirà forse grottesco, ma credo tutt'altro che immotivato: la differenza tra Jomini e von Clausewitz è che il primo è un civile che spiega la guerra ai militari, mentre il secondo, al contrario, è un militare che la spiega ai civili. Per questo motivo i militari capiscono e apprezzano di più il primo, i civili il secondo: ovviamente tranne le solite eccezioni.