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IL PRIMO STRATEGA MODERNO

Pirro (318 a.C. - 272 a.C.)

Nicola Zotti

Plutarco, Polibio, Dionisio di Alicarnasso, Pausania e Giustino: le nostre fonti su Pirro alternano ammirazione nei suoi confronti e giudizi severi sulla sua ambizione.

Il generale De Gaulle sosteneva che chi ha ambizioni non sostenute da meriti è un delinquente.

Certamente questo di Pirro non si può dire: la sua grande ambizione era alimentata da qualità umane altrettanto grandi.

I sovrani ellenisti dovevano essere ambiziosi: su di loro pesava l'ombra di Alessandro e prenderlo a modello era un'ineludibile necessità.

Folgorante Plutarco osserva però che Pirro non imitava Alessandro nell'apparenza, ma nella sostanza: alcuni dei successori del Macedone avevano ad esempio il vezzo di inclinare la testa da un lato come lui, pur senza aver subito le ferite che lo costringevano a quella postura innaturale.

Pirro, invece, cercava di imitarlo nelle conquiste e sicuramente ne seguiva l'esempio nel coraggio personale. In più di un'occasione decise il corso di una battaglia intervenendo personalmente là dove il combattimento era risolutivo.

Aveva anche, ma questo era già più facile, un carattere migliore di Alessandro Magno, meno prono agli eccessi, per nulla semidivino: più vicino alla nostra comprensione moderna.

Più capo di stato e meno eroe, insomma. Capace di esprimere una strategia geopolitica audace quanto complessa: un disegno che nelle sue intenzioni doveva portarlo alla conquista del Mediterraneo. Capace, inoltre, di razionalizzare la propria dottrina militare in un'opera che è andata perduta, ma che nell'antichità consolidò il prestigio di Pirro molto al di là dei suoi successi bellici. Anzi, la sua corte si trasformò in un "centro di alti studi strategici", si direbbe oggi: oltre a lui, scrissero importanti opere Cinea il Tessale, il suo primo ministro, e Alessandro, il figlio di Pirro.

Pirro rivolse al Mediterraneo occidentale la sua attenzione: qui Cartagine dominava, ma qui fiorivano colonie greche tanto ricche quanto incapaci di sostenere con le proprie sole forze la lotta contro i cartaginesi e contro la sorgente minaccia di una fresca potenza locale: Roma.

Passaggio dopo passaggio, Pirro prevedeva di sbarcare in Italia per assistere Taranto contro Roma. La colonia avrebbe finanziato la guerra, mentre le popolazioni sannitiche, anch'esse minacciate dall'espansionismo romano, avrebbero alimentato l'esercito di Pirro.

Spenta l'aggressività romana, Pirro avrebbe approfittato dell'endemica instabilità siciliana per conquistare l'isola, passo necessario per il confronto decisivo: quello con Cartagine. E dopo Cartagine il Mondo.

Per non far pensare che questo fosse un progetto megalomane, frutto dell'esaltata mentalità bellicista di uno dei tanti conquistatori della storia, si deve aggiungere che Pirro aveva una visione strategica completa e sofisticata, nella quale la diplomazia con grande chiarezza assumeva un'importanza paritaria rispetto alla guerra.

Non un espediente strumentale, una palestra di inganni e di furberie al servizio delle esigenze belliche, ma il primo strumento a disposizione dei suoi progetti.

Come è andata lo sappiamo: i romani si rivelarono un osso troppo duro da rodere anche per Pirro, come lo saranno molti anni dopo per il suo migliore epigono nella scuola dei condottieri ellenistici, Annibale, che da lui mutuò la strategia di battere Roma isolandola dai suoi alleati italici.

La singolare eccezionalità di Roma, però, andava capita, e questa capacità di comprensione fece difetto tanto a Pirro quanto ad Annibale. Entrambi, invece, abbondavano di fiducia nelle proprie qualità tattiche, tanto grandi, quanto comunque insufficienti da sole a prevalere sul "sistema Roma".

Un sistema basato sul consenso politico interno e su saldi rapporti diplomatici esterni, su un'élite diffusa e moralmente solida, su un esercito di cittadini tanto numeroso quanto capace di resistere ostinatamente contro i mercenari ellenistici.

La vittoria di Roma contro Pirro, infatti, è, se possibile, ancora più fondata sulla politica che quella contro Annibale. Pirro non misurò l'avversario, confidò nei propri elefanti e nel proprio collaudato apparato militare, sottostimò la capacità di resistenza di un sistema sociale e civile così diverso da quello ellenistico da risultare imprescrutabile fino all'ermetismo.

Racconta Plutarco che Cinea il Tessale ambasciatore inviato da Pirro a Roma

"...si studiò di considerare e osservare il modo di vivere dei Romani e di capire quali erano le virtù della loro forma di governo, discorrendo con i migliori di loro. Tutto ciò riferì a Pirro, in particolare gli raccontò come il Senato fosse parso a lui un consesso di molti re; e quanto al popolo, temeva che risultasse, a combatterlo, un'idra di Lerna, perché il console aveva già raccolto il doppio dei soldati schierati nella battaglia precedente [Eraclea], e rimanevano ancora altrettanti Romani in grado di portare le armi".

La diplomazia era stata inventata e le intenzioni di Cinea ottime, ma tra la cultura ellenistica e Roma la distanza ancora troppo grande.

Ci penseranno i vincitori, ovvero i romani, a colmarla: dalla conquista di Taranto l'acquisto principale fu l'arrivo a Roma di Livio Andronico e con lui la nascita della letteratura latina.