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LA FINE DELL'EGEMONIA SPARTANA

Leuttra, 6 luglio 371 a.C.

nicola zotti


Nel 378 a.C. Tebe e Atene si erano unite in una guerra contro Sparta, potenza egemone in Grecia dal 404, anno della fine della Guerra del Peloponneso.

Un nuovo, ennesimo conflitto tra Greci, il cui unico effetto, al momento, era quello di dissanguare ulteriormente le già provate risorse delle opposte fazioni, in particolare quelle delle eterne rivali Sparta e Atene.

Quest’ultima, infatti, sosteneva, con il contributo delle città a lei più vicine, il peso della dispendiosissima guerra marittima, mentre la prima consumava le forze proprie e dei suoi alleati in inconcludenti schermaglie di confine e per di più era costretta a disperdere i propri preziosi opliti in estenuanti presidi di occupazione. L’unica a trarne beneficio, almeno dal punto di vista politico, era Tebe, che stava riguadagnando l’antico ruolo di potenza e ambiva a ottenere questo riconoscimento riunendo nuovamente sotto di sé la Lega Beotica. Proprio nel 378, Tebe, con l’aiuto di Atene, si era liberata della dominazione spartana, inanellando da allora una serie di vittorie contro i celebrati opliti lacedemoni: scontri di piccola entità, ma che pure avevano conquistato grande prestigio all’esercito tebano, come con la battaglia di Tegira nel 375, quando i 300 appartenenti alla “Banda sacra” tebana, la prima formazione d’élite permanente greca, avevano sconfitto ben 1.800 spartani.

L’intervento della diplomazia persiana aprì la possibilità di porre fine all’inconcludente spargimento di sangue: colloqui di pace, che Sparta e Atene accolsero senza indugi, concordando però una clausola di autonomia dalla quale convennero di escludere tutte le altre parti: Tebe inclusa. E così ciascuna città minore dovette siglare singolarmente il trattato: Tebe inclusa, decretando così, a capo chino, la fine della Lega beotica.

In diplomazia non possono esserci ripensamenti, eppure Epaminonda, un Beotarca (ovvero uno dei comandanti eletti che guidavano l’apparato militare tebano), convinse la sua delegazione a rimangiarsi la parola e a pretendere che il giuramento di Tebe avesse valore anche per tutte le città della Beozia. Tebe offriva a Sparta un invitante pretesto per una nuova aggressione e la potenza lacedemone ne approfittò intimando ai Tebani un ultimatum: o la firma o la guerra. Era la guerra.

A Sparta si era probabilmente intuito che non era da Atene, con le sue inesauribili risorse economiche, a provenire il pericolo maggiore, ma da Tebe. Tebe non pagava mercenari, ma confidava sul proprio piccolo esercito di contadini che onoravano l’antica fama di uomini fisicamente e moralmente più forti di tutta la Grecia. Non per nulla essi erano devoti a Ercole, che proprio a Tebe – “la ben coronata di mura”, come ricorda Omero – aveva avuto i natali: e fieramente rivendicavano questo legame dipingendo sui loro scudi la clava del semidio.
leuttra strategica



Il re spartano Cleombroto, di stanza nella Focide con un esercito di 10.000 opliti (700 appartenenti all’élite dominante degli Spartiati, 2.000 Spartani e i restanti alleati), 1.000 cavalieri e numerosi fanti leggeri mercenari, invase la Beozia. Il re era un po’ meno entusiasta della guerra rispetto ai suoi concittadini che l’avevano decisa: era lontano dalla patria e il nemico gli sbarrava la strada che correva lungo le pianure della regione nella strettoia di Coronea, dove non avrebbe potuto far valere la propria superiorità numerica. Un nemico, tanto più, che nonostante fosse stato abbandonato a se stesso dagli Ateniesi, gli Spartani guardavano con malcelata preoccupazione, per le sconfitte subite per loro mano nel recente passato. Anche nella Lega beotica, però, c’era chi temeva si fosse compiuto un gesto avventato: coi Tebani erano rimaste esclusivamente le città della Beozia e la loro fedeltà non sarebbe durata a lungo, anzi era facile immaginare che alla prima sconfitta avrebbero cambiato schieramento senza la minima esitazione, decretando la fine delle ambizioni di Tebe e mutandone profondamente il destino.

La stessa decisione di aspettare il nemico al passo di Coronea, più che sintomo di determinazione, tradiva un’inequivocabile prudenza.

Cleombroto era un comandante avveduto e infatti fu lesto a trarre profitto dal difensivismo dei suoi avversari. La sua prima preoccupazione era riallacciare i contatti con la Madrepatria lontana, ma riuscì a trasformare questa esigenza in una brillante mossa offensiva. Abbandonata la via della pianura aggirò Coronea e i suoi avversari, dirigendosi a Sud verso l’impervia costiera della Beozia. L’effetto sorpresa fu completo: dopo una marcia di 50 km cadde in mano spartana la città di Thisvi, cui seguì, dopo altri 7 km di tortuoso percorso collinare, la conquista del porto fortificato di Livadostro, dove vennero catturate 12 navi tebane, praticamente la loro intera flotta. La guerra era iniziata molto male per i Tebani, che appresero le intenzioni degli Spartani solo con la notizia della perdita di Livadostro. Cleombroto si era aperto una via verso Tebe, ma non ancora quella per Sparta. Occorreva un ultimo sforzo: marciare a Nord, sempre per ripidi sentieri collinari, e occupare il nodo strategico di Leuttra, dove si incontravano sia la strada per Tebe e sia quella che, attraversando Platea, arrivava all’istmo di Corinto e quindi al Peloponneso. E così, mentre i Tebani si precipitavano a proteggere la loro capitale, gli Spartani potevano porre il campo sulla collina di Leuttra, ottenendo in un solo colpo entrambi i propri obiettivi strategici. Nonostante ciò, Cleombroto, ben conoscendo la forza dei Tebani, temeva l’imminente battaglia: da buon generale aveva fatto tutto il possibile e portato il suo esercito in una favorevole posizione. I suoi, comunque, dovettero ricordargli che, se non avesse combattuto, a Sparta lo aspettava un’accusa di codardia e l’inevitabile condanna a morte.

I Tebani posero il campo di fronte a quello spartano, su un rilievo poco distante che sbarrava la strada verso Tebe. Il successo della manovra di Cleombroto aveva sollevato nuove preoccupazioni tra i loro alleati, circa 3.000 sui 7.000 opliti dell’intera armata beota. Tebani, al contrario, fecero addirittura pressione sul loro comandante Epaminonda affinché non indugiasse oltre: avevano subìto l’arroganza spartana e l’esilio, ed erano fermamente risoluti a difendere la propria libertà. Uno zelo superfluo, perché Epaminonda era assolutamente sicuro della vittoria: sapeva infatti che la prepotente fisicità dei tebani poteva prevalere sul perfetto addestramento degli Spartani, se la si incardinava in una concezione di battaglia nuova, capace di riunire in un unico meccanismo bellico esperimenti e novità tattiche delle guerre precedenti.
Alla primordiale idea di tattica degli Spartani, che coreografava gli eleganti ed elaborati movimenti delle singole unità di opliti, Epaminonda ne oppose una inedita, che coinvolgeva in un’unica armonia l’esercito intero.


leuttra battaglia


Il re spartano Cleombroto offrì battaglia secondo tradizione, schierando l’élite spartiate (che si era caricata di coraggio liquido bevendo vino) sulla destra e a seguire gli altri Spartani e gli alleati, negli usuali 8 o 12 ranghi, per complessivi 10.000 opliti.

Epaminonda fece leva su questa debolezza intrinseca degli avversari, la loro prevedibilità. Pur inferiori di numero, i suoi opliti (4.000 Tebani e 3.000 alleati) erano qualitativamente superiori agli Spartani ed egli li incolonnò in una formazione lunga ben 50 uomini, guidata dai 300 della Banda sacra che ne costituivano l'affilato tagliente: un esperimento che aveva già portato al successo nel 424 i Tebani con Pagonda nella battaglia di Delio contro gli Ateniesi, quando però i ranghi di profondità erano stati “appena” 25.

Solo una minima parte di quei ranghi avrebbe partecipato attivamente al combattimento, per cui non si trattava una concentrazione di massa fine a se stessa, ma probabilmente la ricerca di quella velocità e di quella propensione alla mischia che sarà molti secoli dopo riscoperta dai picchieri svizzeri.

Questa forza comunque straripante sarebbe stata scagliata proprio contro l’élite spartana, e quindi schierata, in modo non convenzionale, sulla sinistra del dispositivo tebano: l’esito della battaglia diveniva così inevitabilmente decisivo, perché tale sarebbe stato lo scontro tra le punte di diamante dei due eserciti.

Ammassata oltre la metà della propria forza all’estremità sinistra, a Epaminonda poco restava per coprire il resto del proprio schieramento, già a rischio di essere aggirato: andava tenuto lontano dallo scontro e a questo provvide con l’idea innovativa di disporlo a scaglioni. Gli esitanti opliti della Lega beotica vennero così tenuti lontani da una mischia prematura e soprattutto da una prematura e pericolosa sconfitta.
Il piano ebbe successo, guadagnando al tebano un posto tra i più grandi innovatori dell’arte militare.

Le iniziali schermaglie tra cavallerie furono subito sfavorevoli agli Spartani, provocando anche una qualche confusione tra i loro ranghi, della quale approfittarono i Tebani con il loro fulmineo attacco. La battaglia fu sanguinosissima e a tratti incerta come è testimoniato dall’alto numero di perdite circoscritte ad una sola ala, 400 Spartiati e almeno 1.000 altri opliti, e dal fatto che il corpo di Cleombroto, incolpevole protagonista della fine dell’egemonia spartana, sia stato recuperato dalla sua guardia.

La morte sul campo risparmiò a Cleombroto un umiliante e letale ritorno in patria. Ma fu la perdita di ben 400 Spartiati e di almeno 1.000 Spartani a cambiare per sempre la storia di Sparta, creando un vuoto nell’aristocrazia lacedemone che minò le fondamenta del loro regime di “apartheid”.

Epaminonda comprese la gravità della crisi provocata da Leuttra e ne approfittò con spietata determinazione. Il generale tebano aveva definito la Beozia “la sala da ballo della guerra”, per il numero di battaglie che vi avevano avuto luogo, e per le quattro invasioni spartane che solo negli ultimi 10 anni l’avevano sconvolta. Questo destino poteva cambiare solo eliminando per sempre la minaccia spartana. Radunato un esercito di 40.000 Tebani e alleati, nell’Inverno del 370 invase per la prima volta il Peloponneso con l’obiettivo di sconvolgerne gli equilibri politici. Penetrò indisturbato fino al cuore del potere spartano, la Laconia, minacciò la stessa Sparta, ne mise a ferro e fuoco le terre fino al porto meridionale di Gytheio, quindi risalì fino alla Messenia, terra degli schiavizzati iloti, e la liberò, costruendo sul loro territorio l’enorme, imprendibile fortezza di Messene. Il rancore anti-spartano accumulato nei secoli dai Messeni si trasformò da quel momento nel più prezioso alleato per Tebe e nel più terribile incubo per Sparta.

Alla prima invasione seguirono altre 3 spedizioni nel 368, 366 e 362, con le quali Epaminonda liberò il Peloponneso e completò l’accerchiamento di Sparta costruendo due altre ciclopiche fortezze a Megalopoli e Mantinea.

Sparta fu abbandonata al suo destino dai suoi alleati-soggetti, senza poter fare nulla per impedirlo: rintanati in città assistettero impotenti non solo alla distruzione delle loro proprietà da parte degli invincibili opliti Tebani, ma soprattutto al disfacimento del loro Mondo, subendo per la prima volta in sei secoli la punizione che loro stessi avevano tante volte inflitto ad altri. Sparta non risorse mai più e mai più rappresentò una minaccia per i suoi vicini. Si salvò dalla distruzione fisica, che pure Epaminonda aveva considerato a coronamento della sua vendicativa impresa, solo perché nel 362, durante la battaglia di Mantinea, in un estremo tentativo di contrastare l’esercito tebano, gli Spartani, seppure sconfitti assieme ai loro alleati Ateniesi, riuscirono a uccidere il loro implacabile nemico.

Era definitivamente finito il tempo del loro esercito di professionisti, esclusivamente dediti alla guerra perché nutriti da schiavi e soggetti: si apriva l’era di un nuovo combattente, ben addestrato eppure comunque “dilettante”, ma soprattutto animato da un ideale e guidato da un leader con una grande visione. Una lezione perfettamente compresa da Filippo II di Macedonia, che su questa base fondò lo strumento militare con il quale il re e suo figlio Alessandro costruirono le proprie straordinarie vittorie: un’epopea che non a caso iniziò a nel 336 a Cheronea distruggendo proprio l’esercito tebano.