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QUELLO CHE I PRINCìPI DELLA GUERRA NON DICONO

I principi della guerra secondo me

nicola zotti


Come diceva il generale De Gaulle «Chi ha ambizioni non supportate da meriti è un criminale».

Io mi sento decisamente un criminale ad affrontare un argomento impegnativo come quello della individuazione di "nuovi" princìpi della guerra.

In realtà vi accorgerete leggendo queste poche righe che sto compiendo un'operazione di portata molto più limitata e circoscritta che non una ridefinizione dei "princìpi della guerra": la mia è solo un'esplicitazione del non detto, l'articolazione di un pensiero attualmente silenzioso.

La globalizzazione ha inciso sulla natura dei conflitti. Ormai sempre più raramente i fronti di guerra passano lungo i confini tra gli stati, e sono occasioni che appartengono ad un’epoca ormai destinata a scomparire.

La geopolitica è così diventata un corpo dottrinario obsoleto, lo scheletro di un dinosauro, un inutile supponente ingombro nelle menti degli analisti strategici, che così sempre meno riescono a interpretare le guerre dei giorni nostri.

Anche quando si combatte lungo un confine, anche quando la posta in palio delle ostilità fosse il controllo di una sorgente d’acqua, la globalizzazione solleva la guerra dalla sua stretta dimensione territoriale per portarla altrove, lungo una rete di relazioni che ne fa rimbalzare imprevedibilmente gli effetti e le conseguenze.

La globalizzazione moltiplica la caoticità della guerra, lungo quelle relazioni funzionali non lineari e sinergiche che pure l’hanno sempre caratterizzata.

Se i tempi degli stati che si combattono per conquistare o conservare una provincia sono terminati, questo non sottrae affatto la guerra dalla sua natura clausewitziana, ma anzi toglie ogni dubbio che ne possa avere una diversa, lineare e impolitica: semmai si potrebbe rimproverare a von Clausewitz di non essersi spinto fino alle estreme conseguenze della propria intuizione e, dopo aver individuato il nesso tra politica e guerra, essersi limitato a chiedere alla politica di astenersi dall'intervenire su certi aspetti della sua condotta, anziché affermare direttamente la loro sostanziale unità e casomai riflettere sulle modalità del necessario intrecciarsi tra conflitto politico non violento e conflitto politico violento.

Quali possono essere dunque le linee guida che un'analisi strategica deve percorrere per non rimanere travolta dalla caoticità della guerra?

Ovvero, in altre parole, come deve agire la direzione politico-strategica della guerra per definire quella logica superiore, di significato, che alla guerra stessa manca, senza comprometterne le regole grammaticali che invece possiede?

Da questo punto di vista, quelli che suggerisco non sono princìpi che sostituiscono quelli tradizionali, ma semplici integrazioni che permettono di comprendere meglio come impiegarli nella nostra epoca.

tradizionali
secondo me
- Unità di comando
- Condivisione
- Obiettivo - Sostenibilità
- Offensiva - Responsabilizzazione
- Massa - Comunicabilità
- Manovra - Deflettibilità
- Economia di forze - Intensità
- Sicurezza - Plasmabilità
- Sorpresa  
- Semplicità  

Condivisione Lo scopo e l'obiettivo della guerra devono essere condivisi nel modo più ampio possibile da quanti, nel nostro campo, ne sono coinvolti; per contrasto è positivo che nel campo avversario la guerra susciti conflitti politici, possibilmente armati, su questi stessi contenuti. Per scopo intendo l'ampiezza della guerra e le risorse impiegate per sostenerla; per obiettivo, la finalità politica della guerra stessa che motivano la richiesta politica e l'impiego in guerra di quelle risorse. Va sottolineato che quello che ho definito "obiettivo" è una realtà dinamica che si sostanzia nella ricomposizione, spesso contradittoria e incoerente, tra obiettivi a breve, medio e lungo termine, e come tale è una realtà politicamente proteiforme. Il processo autocritico spontaneamente connesso alla condivisione lungo tutta la durata della guerra è anche la premessa concettuale alla plasmabilità.

Sostenibilità La guerra deve essere politicamente ed economicamente sostenibile nel tempo, ovvero -- in interazione con le condizioni di vittoria -- si devono fare le guerre che è possibile sostenere per il tempo necessario a vincerle. Al contrario è desiderabile indurre l'avversario a ridefinire le condizioni di vittoria per motivi di insostenibilità, perché questo genera un nuovo momento di necessaria condivisione, e quindi nuovi potenziali attriti politici.

Responsabilizzazione Ogni singolo individuo o risorsa coinvolti nella guerra ha valore strategico e ne deve essere consapevole. Una fallace o imperfetta condivisione può aprire varchi a responsabilizzazioni incomplete e quindi far inciampare la strategia in ostacoli imprevisti. E' importante, al contrario, confondere negli avversari i contorni delle responsabilità, sempre allo scopo di incrementarne i conflitti interni e i momenti di ricomposizione.

Comunicabilità A tutti i livelli di un conflitto la comunicazione è un'essenziale innervatura politico-militare. La natura caotica e non-lineare della guerra ha nella comunicazione il proprio moltiplicatore: troppe informazioni (non importa quanto precise né quanto processabili) tanto sul campo di battaglia, quanto nei mass media, sono origine di entropia e di ripercussioni indesiderabili. L'obiettivo è comunicare per contenuti, ovvero per informazioni a cui è stata aggregata esperienza umana, rendendole utili e pronte ad entrare prontamente nei processi funzionali di altri soggetti. Impedire che l'avversario abbia comunicazioni semplici e informazioni trasformabili facilmente in contenuti è altrettanto desiderabile.

Deflettibilità Il proprio dispositivo politico-militare deve essere organizzato in modo tale da deflettere i colpi che gli sono diretti contro, ridistribuendoli e reindirizzandoli là dove gli effetti negativi sono minimizzati. La violenza avversaria deve essere filtrata e disorientata, costretta a dirigersi contro un riflesso, un proxy, nella peggiore delle ipotesi un alleato, e non contro obiettivi cruciali per la sostenibilità della guerra. L'atto aggressivo avversario diventa così non solo inefficace, ma espone gli aggressori ad una nostra reazione.

Intensità L'esercizio della violenza deve essere concentrato e non disperso nel tempo e nello spazio, nelle forme che minimizzano l'entropia dello sforzo. La misura dell'intensità è data dalla sostenibilità politico-economica della guerra e anche dalla sua condivisione: ovvero la guerra si deve esplicare con la massima intensità sostenibile in senso politico-economico in virtù della propria condivisione nella comunità, che tanto è maggiore, quante più risorse rende disponibili per la guerra. Un'eccessiva intensità potrebbe minare la condivisione della guerra: è quest'ultima a tracciare i confini della prima. Questo significa anche che i conflitti devono essere circoscritti: nonostante l'ostacolo posto dalla globalizzazione, concentrare un conflitto lungo un confine è un obiettivo desiderabile. L'intensità della violenza è moltiplicata dalla sorpresa e invertendo i fattori il prodotto non cambia, ovvero si tratta di due componenti succedanee con effetti tuttavia sinergici e l'una deve sempre essere accompagnata all'altra, non fosse altro per motivi di sostenibilità e per la minimizzazione dell'entropia. L'obiettivo dell'intensità trova il principale ostacolo nel concetto clausewitziano di "frizione", ovvero nei fattori entropici della guerra.

Plasmabilità Il dispositivo politico-militare deve essere adattabile e plasmabile secondo le esigenze e reattivo, ovvero intimamente autocritico ad ogni livello. La sua natura deve essere connaturalmente proteiforme non solo e non tanto per adattarsi alla minaccia, ma per reagirvi con prontezza: per non farsi dettare regole e comportamenti dalla minaccia stessa, ma mantenere la propria libertà di decidere ed agire. In particolare, la plasmabilità dell'apparato militare è alla base del flusso e del dinamismo delle operazioni militari, della deflettibilità, del disorientamento del nemico, dell'incertezza delle sue comunicazioni. Al contrario è utile che il sistema militare avversario sia rigido e incapace di adattamenti tattici e strategici.